Come nelle migliori e storiche partite di calcio, il match si conclude sul 4-3 per la formazione di casa.
Ci sarà di che sorridere in ricevitoria.
La squadra battuta reclamerà decisioni non giuste, sviste arbitrali, ma alla fine si arrenderà e ammetterà la sconfitta, anche con un tocco di serenità. Perché la partita è stata bellissima e combattuta, e anche se la storia la ricorderà come seconda arrivata, sarà un posto di tutto rispetto, e i giocatori hanno fatto tutto il possibile per vincerla.
Ma certe volte, semplicemente, non ci si può far niente, se l’avversario ha quel mezzo punto tecnico in più che a te manca, e di cui sei perfettamente consapevole.
Le squadre ritornano negli spogliatoi, ma tutti hanno il sorriso sulle labbra, com’è giusto che sia. Perché al termine di un incontro leale e sportivo come questo, non c’è ragione che possa essere altrimenti.
Dopo quattro anni, il campo consegna il verdetto: Marvel batte DC 4-3.
Una partita che la DC sembrava avere in pugno fino alla fine del primo tempo, e per un quarto d’ora della ripresa, trascinata soprattutto dalla forza del suo marcatore d’oro, Christopher Nolan, che ha aperto il tabellone nei primi minuti di gioco, nel 2005 con Batman Begins. Un goal non spettacolare, ma frutto di un’azione con i fiocchi, partita dal portiere e portata avanti da tutta la squadra. Il risultato sembrava già deciso, dopo venti minuti ancora nessun cenno degno di nota da parte della Marvel, che sembra star aspettando gli avversari.
Una strategia che alla lunga risulterà vincente.
Risulta utile, il calcio, per spiegare questa bizzarra e insolita concorrenza che probabilmente verrà ricordata come significativa del 2012. Anno in cui, cinematograficamente (e blockbuster-iarmente) parlando, escono due film destinati a rimettere ancora una volta in gioco l’eterna sfida tra Marvel e DC: The Avengers e The Dark Knight Rises, capitolo conclusivo della trilogia firmata Christopher Nolan, che nel 2005 con la prima installazione aveva portato ad un livello più alto l’iniziale mini rivoluzione operata con Spiderman da Sam Raimi (il quale tuttavia aveva poi buttato tutto abbastanza in malora con il terzo - e ultimo - film del franchise). Se nei fumetti questa evoluzione è avvenuta molto più lentamente, e un paio di decenni fa, il mondo del cinema ci è giunto soltanto nel passato recente.
Il cambio di passo è stato dato dall’introduzione, nel film di genere supereroi, della profondità psicologica dei personaggi tutti, a partire da - ma, soprattutto, non solo - dai protagonisti. Vengono introdotti temi importanti e preponderanti presi direttamente dalla realtà vera e propria, quella dello spettatore che si barcamena alla men peggio in questi turbolenti anni Duemila. Il genere si espande, diventando non solo appannaggio di ragazzini e accompagnatori, ma coinvolgendo l’intero pubblico medio, ad eccezione forse di qualche signora di età più avanzata. I film stessi cambiano, diventano più complessi, adoperano particolari strumenti cinematografici, come la profondità di campo, e il piano sequenza. Per tornare alla metafora calcistica, si comincia a giocare in serie A.
L’industria si adegua, arrivano i grandi attori e registi, i grossi budget, il lancio pubblicitario parte un anno prima, il cinema allunga la sua mano fino al Comic-Con, che fino a quel momento era stato il raduno mondiale ad appannaggio quasi esclusivo dei consumatori di fumetti, e raduna nuovi proseliti, i quali da lì in poi giocheranno un ruolo fondamentale nel determinare la vincente tra le due squadre. Sono il famoso tredicesimo giocatore, sono il fattore campo. Chi li sottovaluta fa un gravissimo errore, che pagherà a caro prezzo.
In un panorama così profondamente mutato, scendono in campo i Marvel Studios, l’allenatore, a porre una definitiva e non più ignorabile pietra su tutto ciò che è stato. Con loro i film crescono ancora di più, portano a compimento quello storico processo di fusione tra opera originale ed adattamento cinematografico che tanto a lungo ha appassionato i teorici di cinematografia. Le ragioni adesso paiono chiare, perfino scontate, e tuttavia ancora si tendono ad ignorare, in parte. O a non dar loro la giusta considerazione.
La chiave di tutto, lo schema vincente, risiede nel fatto che tutti coloro che si occupano del film sono scelti oculatamente dalle stesse persone che curano i fumetti, che ne seguono la gestazione dall’inizio alla fine, a cominciare dal casting fino al merchandise, alla distribuzione, alla pubblicità. È una catena che si origina dal seme e non si interrompe se non quando il frutto è ormai maturo e pronto ad essere consumato. È un percorso che non prevede errori, non prevede dettagli lasciati al caso. Il che non equivale a dire che i loro film, tutti i loro film, siano perfetti, anzi. La perfezione è noiosa, e anche pericolosa. Chi è perfetto potrebbe perdere la voglia di combattere, di dimostrarsi ancor più superiore. Ma c’è una caratteristica che li accomuna tutti, ed è il cuore. Anche quando il prodotto non è dei migliori (Iron Man 2), c’è sempre qualcosa, un particolare, un gesto, che ti riporta alla mente quel famoso processo di cui sopra, e ti permette di perdonare tutte le sbavature del caso.
The Avengers ne è l’esempio ultimo e perfetto. Affidato ad un regista e scrittore come Joss Whedon, mago come forse solo Robert Altman prima di lui nello gestire quel personaggio estremamente complesso e dinamico che risponde al nome di “gruppo”, che per la Marvel è stato pure autore di serie come Uncanny X-Men, è diventato il migliore film di supereroi mai girato, merito di un perfetto equilibrio tra profondità psicologica e leggerezza indispensabile per evitare di strafare, lasciandosi prendere troppo la mano e trasformando tutto in qualcosa così denso e poco malleabile da annoiare lo spettatore. È una miscela esplosiva ed assai instabile, quasi impossibile da raggiungere se non si conosce davvero a fondo il materiale di partenza. Quasi, perché un margine ancora c’è. Difficilissimo arrivare ad ottenerlo, certo, ma con le giuste mani e soprattutto i giusti ingredienti non c’è nulla che non si possa fare.
La lezione ce l’ha insegnata lo stesso Nolan, con The Dark Knight. Una sceneggiatura piena ma non abbondante, una riflessione sul mondo e sul male, sull’eterna domanda di giusto e sbagliato, di nero e bianco, di salato e dolce che inevitabilmente va a sfociare nella celeberrima zona grigia, la zona di confine che in realtà è così vasta da occupare quasi tutto. Perché al giorno d’oggi è così che vanno le cose, se non ci sono più certezze, non ci sono più nemmeno confini evidenziati e marcati, ma solo sfocati. La magia si compie perché il Joker è un pazzo, ma un pazzo intelligente, e le sue parole si radicano nella testa del pubblico e ci rimangono ad ogni minuto del film che trascorre, fino alla conclusione con il colpo di scena finale, che forse in fondo in fondo già prevedevamo, anche se non l’avremmo mai ammesso neanche a noi stessi. Perché l’ipotesi che bene e male abbiano nuovi valori, opposti rispetto a quelli cui siamo abituati, spaventa e confonde, al punto che è meglio abbassare la testa e continuare ad ignorare. Heath Ledger doveva averlo capito bene, perché la sua performance - che si guadagna l’Oscar e fa fare il salto di qualità al film stesso - trasuda le implicazioni di suddetta confusione da tutti i pori.
La magia, purtroppo per Nolan, non si ripete con l’ultimo capitolo della trilogia. Perfetto dal punto di vista stilistico, con alcune riprese davvero memorabili e destinate a rimanere radicate nella memoria collettiva, The Dark Knight Rises si perde nella ricerca dell’equilibrio perfetto, alternando intere scene riempite da troppe, filosofiche - ed inutili - parole a momenti di azione frenetica dove volano troppi pugni da parte di troppe comparse. La durata complessiva (165 minuti) non facilita certo le cose, anche se non si può dire - e per fortuna - che ci siano momenti di noia. Se tutta la baracca non affonda il merito è soltanto del regista, che salva il suo lavoro (e sé stesso) dal rischio più volte sfiorato di essere presuntuoso, volendo a tutti i costi impartire una lezione - tra l’altro nemmeno troppo chiara durante lo svolgimento della storia - allo spettatore, lasciato lì a domandarsi se in realtà gliene poi freghi qualcosa di questa città immaginaria di nome Gotham, a cui viene dato troppo spazio nello sviluppo del discorso generale sul destino dell’umanità e su cosa significhi giustizia.
Certo, sono sottigliezze, in fondo, il film è valido ed è a tutti gli effetti una più che degna conclusione alla trilogia del Cavaliere Oscuro. Ovunque si avverte la sensazione di ciclico, di completezza, di finito. Elementi del passato (cinematografico) ritornano e si integrano alla perfezione nella narrazione della storia, senza lasciare in bocca quel senso fastidioso di forzatura e caricatura che spesso si ritrovano alla fine di un ciclo. Qui l’amalgama riesce alla grande, ancora una volta per merito di Nolan.
Ma non basta a vincere la partita, perché ormai siamo in serie A, non più nel campionato cadetto. Qui per vincere serve un asso nella manica, serve andare ancora oltre. Serve diventare parte integrante dell’opera alla base di tutto. Non ci si possono permettere errori o non perfezioni.
Così, proprio in zona Cesarini, partiti i cinque minuti di recupero, ecco la sostituzione decisiva.
Siamo sul 2-3 per gli ospiti.
Entra in campo Joss Whedon.
Doppietta in un paio di giri di orologio, una su punizione, una in rovesciata.
E la partita finisce 4-3 per i padroni di casa.
I Marvel Studios vincono il campionato.
Il titolo spetta a loro.