Jan 23, 2008 21:33
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L’auto correva piano verso ovest. Tatsumi, che non si era ancora abituata a vivere a Tokyo, non sapeva dove fossero diretti. Tuttavia, a giudicare dalla posizione del sole e dall’ora, immaginava che stessero andando in direzione ovest. L’orologio dell’auto indicava esattamente le 9 di mattina.
Era giovedì. Mentre Tatsumi stava per andare a scuola, e un attimo prima che potesse prendere la borsa, il telefono aveva preso a squillare. Una telefonata da parte del clan Hojyo, che l’aveva informata di un nuovo lavoro per lei. A questo punto, ovviamente la scuola era stata stata messa da parte.
Siccome Tatsumi non conosceva affatto Tokyo, era stato Kyosuke a chiedere i vari dettagli sul lavoro, del tipo dove dovessero andare, e fin dall’inizio era stato chiaro che si trattava di una questione urgente, visto che erano partiti subito.
Tatsumi non conosceva affatto Tokyo, ma oltre a questo, non aveva proprio il senso dell’orientamento in generale. La si sarebbe potuta definire con l’espressione ‘anima persa’; malgrado provasse con tutte le sue forze a memorizzare le vie, alla fine commetteva sempre un qualche tipo di errore. E poiché era anche molto testarda, Tatsumi in queste situazioni continuava imperterrita per la sua strada, con il risultato che si perdeva sempre di più.
Quando era bambina, era suo padre che la andava a cercare quando si perdeva. Se lo ricordava ancora: lui che la abbracciava, un sorriso stampato sulla faccia, e lei, Tatsumi, che non spargeva nemmeno una lacrima e continuava a camminare, noncurante del fatto che avesse già oltrepassato il luogo in cui si stava dirigendo. Suo padre, così gentile, che le massaggiava le gambe stanche a causa della lunga camminata, e che le diceva che prima o poi sarebbe apparso qualcuno a guidare Tatsumi, e non si sarebbe persa mai più.
Anche suo padre era morto.
“Ci siamo.” Le parole pronunciate da Kyosuke coincisero con l’arresto della vettura.
Tatsumi guardò fuori dal parabrezza. Un condominio, con dieci stanze per ogni piano. Un comunissimo condominio a 6 piani, davvero nulla di caratteristico. “Ok...”
Kyosuke estrasse un foglietto dalla tasca interna della giacca. “… Prima Strada… Asagaya… Sì, è proprio qui,” disse, come per confermare a se stesso le informazioni ricevute, e scese dalla macchina, cosa che fece anche Tatsumi. “Dobbiamo andare al quinto piano,” aggiunse Kyosuke guardando in su e indicando con la mano la stanza in cui probabilmente si sarebbero dovuti recare.
Sopra la maglietta, Kyosuke portava solo un cappotto marrone chiaro. Nel caso in cui avesse dovuto incontrare il suo cliente, vestito in questo modo chissà che impressione avrebbe fatto? Ma lo stesso si potrebbe dire per me, rifletté Tatsumi. Doveva essere insolito incontrare uno Yumegari con indosso un’uniforme scolastica. Poi, pensò ancora, cosa diceva la gente quando la vedeva assieme a Kyosuke? Forse sembravano semplicemente quello che erano, ossia un libero professionista e una studentessa delle superiori? Oppure li si sarebbe potuti scambiare per un membro della yakuza [mafia giapponese, ndt] e la sua accompagnatrice? In effetti, quando Tatsumi andava in giro con Kyosuke, spesso le veniva chiesto di mostrare un documento d’identità.
“Dai, entriamo,” la esortò Kyosuke.
Non importava l’impressione che poteva fare agli altri, lei stava semplicemente svolgendo il proprio lavoro; sono queste le parole che Tatsumi rimuginò fra sé e sé. Senza farsi vedere da Kyosuke, la ragazza inspirò piano e iniziò a camminare. Proprio mentre stava per varcare la soglia, Tatsumi guardò in alto, e nel cielo notò uno stormo di uccelli bianchi.
***
Nella stanza c’era solo un letto. A parte questo, era completamente spoglia.
Per un attimo, Tatsumi si bloccò, convinta di essersi addormentata. In effetti, una stanza del genere, priva di qualsiasi suppellettile a parte un letto matrimoniale, racchiudeva davvero qualcosa di irreale, di finto.
“Non preoccuparti, non siamo in un sogno. È tutto vero, per il momento.” Quasi come se le avesse letto nel pensiero, Kyosuke, che si trovava dietro di lei, le posò una mano sulla spalla.
Dunque non si tratta di un sogno. E allora, come mai qui si trova solo un letto?
Una stanza delle dimensioni di circa 20 jo [un jo corrisponde alla superficie coperta da un tatami; la camera è dunque piuttosto ampia, circa 32 m², ndt] ed un solo letto. E, ovviamente, non c’era nessuno. L’unico elemento che avrebbe potuto far pensare ad una qualche presenza umana era costituito dalle tende tirate, e basta.
Tatsumi volse lo sguardo verso il letto, per vedere se per caso ci fosse qualcuno sopra di esso, ma dalla porta non riescì a capirlo. Fece per entrare, ma Kyosuke, che si trovava sempre alle sue spalle, la fermò. Tatsumi si girò a guardarlo, chiedendosi cosa c’era che non andava.
“… Resta qui. Vado a dare un’occhiata.”
Kyosuke si diresse verso il letto. Non si era ancora tolto le scarpe, e questo, in effetti, non era un gesto che denotava molto rispetto. Tuttavia, Tatsumi comprese che si trattava di una precauzione necessaria, nel caso in cui avessero dovuto fuggire all’improvviso.
Kyosuke continuò ad avvicinarsi al letto, facendo scricchiolare il parquet a ogni suo passo, finché non si ritrovò giusto accanto a esso. “… qui.”
“Cosa?”
“C’è qualcuno, qui.”
Udendo questa frase, anche Tatsumi si avvicinò cautamente al letto, e alla fine si ritrovò a scrutarlo proprio come Kyosuke. In effetti era vero, sul letto c’era qualcuno che dormiva. Una bambina di età imprecisata, probabilmente compresa fra 7 e 10 anni. Non si capiva molto bene, visto che era coperta da un piumino, ma sembrava indossare un pigiama bianco. Aveva i capelli lunghi, ed era una bambina carina, dal viso armonioso; lo si distingueva abbastanza chiaramente, anche se stava dormendo, le braccia incrociate sul petto.
“… Non… non è morta, vero...?”
“È viva.” Tatsumi indicò il petto della bambina, che si sollevava e si riabbassava a ogni respiro. Kyosuke emise un sospiro, come per chiedersi che cosa fare a questo punto, e si inginocchiò. “Sarebbe questo, il ‘sogno’ in cui dobbiamo penetrare?”
“Ci è stato detto che avremmo capito, una volta arrivati qui.”
“Vero. In fin dei conti questa bambina è l’unica persona presente in questa stanza, dunque…”
Anche Tatsumi si inginocchiò accanto al letto, e posò delicatamente le mani sul petto della bambina. Dormiva tranquilla, anche se difficilmente lo si sarebbe potuto definire un sonno normale, il suo. Era certamente più probabile che si trattasse di qualcosa di innaturale; chi avrebbe dormito, infatti, in una stanza completamente spoglia? E com’era possibile che la bambina non si fosse svegliata al loro arrivo?
“… una bambina di 8 anni, e guarda il pigiama che indossa. Tutto corrisponde perfettamente alle indicazioni forniteci dal clan Hojyo. È proprio lei la ‘cliente’ del caso che ci è stato affidato.”
Kyosuke incrociò le braccia, annuendo.
“Questa bambina…”
L’uomo guardò Tatsumi, come se volesse chiederle cosa intendesse fare.
“Entrerò nel suo sogno.”
“Dici che è sicuro?”
Tatsumi annuì, senza parlare. Effettivamente era strano che non ci fosse nessuno in giro, ma lei doveva svolgere il proprio lavoro.
Sarebbe stato molto più semplice sdraiarsi accanto alla bambina, ma Tatsumi non poteva salire sul letto, così si limitò a sedersi per terra e ad appoggiare la parte superiore del corpo sulle coperte. Posò la mano destra sulle braccia incrociate della bambina, chiuse gli occhi e iniziò a inspirare profondamente.
Gli Yumegari possono dormire ovunque, in qualsiasi situazione. In effetti, questa è la prima regola per diventare uno Yumegari a tutti gli effetti. In questo senso Tatsumi, poiché si addormentava persino quando non ne aveva bisogno, poteva essere considerata un talento naturale.
“Sarà sicuro?” chiese nuovamente Kyosuke, dietro di lei.
Tatsumi sentiva che la sua coscienza stava sprofondando sempre più, e all’improvviso qualcuno le afferrò la mano destra. Era Kyosuke, che come al solito le controllava il polso allo scopo di sincronizzarsi con il suo ‘sogno’.
“Stai attenta.”
Mentre la voce di Kyosuke si affievoliva sempre di più, la sua coscienza continuò a sprofondare giù, giù, giù, in un oceano oscuro, oscuro, oscuro…
***
No, mi trovo all’interno di un vaso per pesci.
Un vaso dei pesci rossi.
Intorno a me c’è buio perché è notte. E di notte fa buio.
Non ci sono stelle in cielo, e nemmeno la luna.
Perché me le sono mangiate tutte io.
La notte scorsa mi sono mangiata le stelle. Ieri invece ho divorato la luna.
Ho deciso che stavolta mi mangerò il sole, quel sole tanto simile a un kaki maturo.
È così bella la notte.
Voglio diventare un pesce rosso, di notte.
Se diventerò un pesce rosso, nessuno verrà per uccidermi.
L’acqua è così tiepida.
Fuori fa talmente freddo, è per questo che lo odio.
Voglio essere un pesce rosso.
Un pesce rosso, con la pinna della coda anch’essa rossa.
***
Mi trovo in un sogno, pensò Tatsumi. Un sogno, ma non il mio. Ripeté a se stessa che quello era il sogno della bambina addormentata, perché, se non se ne fosse resa conto, sarebbe stata spazzata via, annullata. Era importante che si ricordasse di essere ‘Tatsumi Hojyo’ fino alla fine, altrimenti si sarebbe persa nel sogno della bambina. In effetti, per uno Yumegari è fondamentale non perdersi nei sogni degli altri.
Tatsumi si guardò di nuovo intorno. Era buio pesto, senza alcuna fonte di luce visibile, anche se da lontano si sentivano dei rumori, come quelli prodotti dall’acqua. A Tatsumi pareva di essere finita all’interno del vaso dei pesci, quello del sogno della bambina. È tutto buio perché la bambina ha mangiato la luna e le stelle, e ha intenzione di mangiarsi anche il sole. Di solito si tende ad odiare l’oscurità; è raro che un bambino disprezzi la luce in un modo tanto intenso. Ci dev’essere una ragione dietro a tutto ciò. E poi, perché mai vorrà diventare un pesce rosso? È convinta che, se si trasforma in un pesce, nessuno verrà ad ucciderla. Chi è che dovrebbe ucciderla? E perché? Tatsumi pensò che, probabilmente, non era stata una grande idea quella di penetrare nei sogni della bambina senza possedere ulteriori dati o informazioni sulla stessa.
Il problema di Tatsumi risiedeva nel fatto che i sogni sono estremamente fragili. A volte, le emozioni delle persone si materializzano nei sogni, ed è difficile identificarle in quanto tali. Senza conoscere a priori le cause e le ragioni che scatenano i sogni, questi non possono divenire ‘terreno di caccia’ degli Yumegari.
Tatsumi ispezionò cautamente l’ambiente che la circondava. Non riusciva a muoversi bene; il suo corpo incontrava un qualche tipo di resistenza, come quando ci si trova sott’acqua. Ad un certo punto, udì di nuovo il suono di poco prima. Era un rumore come di acqua smossa, e si diresse verso la fonte di tale suono.
Un grosso pesce rosso nuotava nello spazio oscuro. Un enorme, gigantesco pesce rosso, lungo più di 10 metri, che fluttuava nel vuoto infinito. Un pesce rosso, dalla pinna caudale anch’essa rossa. Tatsumi si spaventò nel vedere un pesce di quelle dimensioni, ma poi si mise a riflettere. Paura. Di chi è questa paura?
Quando si penetra nel sogno di un’altra persona, talvolta è difficile determinare a chi appartengono le emozioni e le sensazioni che si provano. Questo accade perché le emozioni dello Yumegari e quelle del sognatore si sovrappongono e diventano le stesse. Certo, è necessario entrare in sintonia con l’altro se si vuole penetrare nel suo sogno, ma ciò non significa affatto che i pensieri dello Yumegari vengano annullati. Il lavoro dello Yumegari consiste nell’analizzare il sogno e scoprire la ‘ferita’ che si cela al suo interno.
E così, Tatsumi si mise di nuovo a ragionare fra sé e sé. Chi era che pensava che il pesce gigante facesse paura?
***
I pesci rossi sono carini.
Mi piacciono.
Se diventerò un pesce rosso, nessuno mi sgriderà, e nessuno mi ucciderà.
Ecco perché voglio diventare un pesce rosso.
Mi piace.
Mi piace.
***
A Tatsumi i pesci rossi non piacevano in modo particolare, e sicuramente non le piaceva un pesce lungo 10 metri; dunque, la sensazione di paura che provava in quel momento apparteneva, con ogni probabilità, a lei stessa.
La bambina, al contrario, sembrava proprio pensare che i pesci rossi fossero carini. Non che si trattasse del tipico animale amato dai bambini, almeno a livello di statistiche, anche se probabilmente la piccola non era l’unica a pensarla così. Il problema stava nel fatto che la bambina temeva di essere uccisa. Chi avrebbe dovuto ucciderla? E perché mai la trasformazione in pesce rosso le avrebbe evitato una fine del genere? Devo scoprire l’identità di questa bambina, pensò Tatsumi.
Poche, pochissime persone - si potrebbero contare sulle dita di una mano - sanno che esistono gli Yumegari. Di queste persone, alcune sono dei burocrati, altre lavorano all’interno del governo, altre ancora in uffici filo-governativi. Poi vi sono manager di gruppi finanziari, e anche membri dell’Agenzia Imperiale per gli affari interni. ‘Vedere’ i sogni di un’altra persona equivale a scoprirne i segreti, poiché tutto viene alla luce: i pensieri, la personalità, le emozioni più profonde. Per questo motivo, gli Yumegari vengono spesso reclutati dai politici per spiare i loro avversari, ma non solo; i loro servigi vengono richiesti anche nel caso si debbano curare le cosiddette ‘malattie mentali’.
Tatsumi era già penetrata in diversi altri sogni, anche se non tanti quanto si sarebbe potuto pensare, però era la prima volta che le veniva affidato un caso con una cliente tanto giovane. Si chiese di nuovo chi fosse mai quella bambina, e si rese conto d’un tratto che su di lei non sapeva assolutamente nulla. Com’era possibile? Quello della bambina era un caso affidatole dal clan Hojyo; normalmente, la informavano sempre sui dettagli di ogni singolo caso che le veniva proposto. E allora, perché Tatsumi non sapeva nulla? No, ancora più importante era il fatto che Tatsumi non si ricordava quale fosse il motivo per cui era penetrata nella mente della bambina.
Una bambina che stava dormendo in una stanza vuota, a parte un letto.
Che cos’era che aveva spinto Tatsumi ad entrare nei sogni della bambina? Perché era penetrata nel suo subconscio, così, senza alcuna informazione preliminare? E perché Kyosuke non l’aveva fermata? Soprattutto considerando che, per uno Yumegari, non portare a termine il proprio lavoro equivaleva alla morte.
Forse sono…
***
Io…
Sono un pesce rosso.
Un pesce rosso tutto solo.
Mamma è morta. Mi ha abbandonata.
Anche papà è morto. Anche lui mi ha abbandonata.
Allora, morirò anch’io.
Mi uccideranno.
Sarà il sogno a uccidermi.
Il sogno.
***
Il sogno. Sono forse rimasta invischiata in un sogno?
Tatsumi strinse i pugni, e rifletté. Qual era il momento esatto in cui era stata intrappolata nel sogno? Strinse di nuovo i pugni, e poi si rese conto di aver commesso un errore imperdonabile. Cercò di tirarsi su - perlomeno se n’era accorta, ed era già qualcosa. Ora, per prima cosa avrebbe dovuto svegliarsi; da qualche parte nel sogno c’era sicuramente uno ‘strappo’, un punto in cui Tatsumi avrebbe avuto la possibilità di svegliarsi. Era questo ‘strappo’ che doveva cercare. Ma quand’è, pensò Tatsumi, quand’è che mi sono addormentata? E la stanza con il letto, era un sogno anche quella?
***
È un sogno.
È il mio sogno.
Mamma e papà che morivano, è stato tutto un sogno.
Sarebbe bello se fosse solo un sogno. Sarebbe bello se fosse solo un sogno.
Non voglio morire. Non voglio morire.
Non voglio essere uccisa dal sogno.
***
Prima o poi il sogno di questa bambina mi ucciderà, rifletté Tatsumi. Inoltre, sentiva un incredibile senso di oppressione. Era forse causato dall’acqua? Non c’era acqua lì, ma sulla schiena avvertiva una specie di peso che la schiacciava, come se la sua schiena fosse gravata da tonnellate e tonnellate d’acqua. Non riuscì più a sopportare tutto quel peso, e i ginocchi le cedettero, facendola cadere su di essi. Doveva cercarlo, quello ‘strappo’, ovvero l’uscita dal sogno. Se non l’avesse trovata, sarebbe di sicuro rimasta schiacciata dal sogno della bambina. Mi sta schiacciando, questo peso che non vedo. Mi fa male, mi fa male.
Era effettivamente doloroso; Tatsumi non resse più, e crollò definitivamente a terra, mentre la pressione si faceva sempre più intensa. Sentì le ossa schiocchiolare, e anche la vista le si era offuscata. L’enorme pesce rosso di prima passò di nuovo di fronte ai suoi occhi appannati. Non devo chiudere gli occhi. So che non devo chiuderli, ma non riesco a tenerli aperti. Fa male. Proprio nel momento esatto in cui Tatsumi iniziò a chiudere gli occhi, si udì un suono lontano.
***
Che cos’è? Non lo so. Ma è un suono acuto, ed è come se mi stesse chiamando.
Infatti, mi sta chiamando. Mi rendo conto del peso che grava sulla mia mano destra.
Nella mano destra c’è un ‘telefono’.
Il telefono del soggiorno. Il cordless nero.
Mi accorgo di qualcos’altro.
Il suono acuto e squillante che sentivo proviene dal telefono.
Accosto il telefono all’orecchio.
Ma il suono acuto non smette.
Buffo, visto che il telefono ce l’ho in mano.
“Pronto?” provo a dire. Nessuna risposta.
Ripeto “Pronto?” usando un tono di voce più deciso.
Poi…
La ‘voce di qualcuno’ mi echeggia nelle orecchie.
“Svegliati, Tatsumi-chan! Questo non è il tuo sogno!”
***
Tatsumi riaprì gli con un sussulto, e la pressione che sentiva sparì come per magia. Nelle sue orecchie risuonava ancora la voce di Kyosuke. Già, questo non è il mio sogno, Tatsumi pensò fra sé e sé. È il sogno della bambina, anzi, forse non è nemmeno suo, ma di qualcun altro ancora. Sono nel sogno di qualcun altro. Non devo abbassare la guardia. Se non sto attenta, potrei anche morire. Calmati, si disse con tono di rimprovero. Calmati, e pensa a quando sei entrata nel sogno. Quand’è che hai iniziato a pensare che c’era qualcosa di strano?
La stanza con il letto. La stanza con solo un letto, e nient’altro. Proprio strano. Inoltre, era strano anche che fosse penetrata nel sogno senza preoccuparsi di effettuare i controlli del caso. E poi, anche il fatto che Kyosuke non l’avesse fermata era bizzarro. Ma se questo non è il sogno della bambina che giace addormentata nel letto, allora si può sapere di chi è?
“È il mio,” rispose qualcuno.
Tatsumi alzò la testa di scatto e vide una ragazzina, che se ne stava ritta in piedi sul pesce rosso gigante. Sembrava più grande della bambina addormentata, sebbene il pigiama che indossava avesse lo stesso colore bianco.
“Questo è il mio sogno,” rispose la ragazzina sorridendo. “Benvenuta, sorella,” aggiunse, ed estese le sue fragili mani verso di lei.
“… Chi sei?” chiese Tatsumi con cautela. Solo perché era apparsa all’improvviso, non significava per forza che fosse la ragazzina la proprietaria del sogno.
“Sono un pesce rosso,” rispose l’altra ridendo. “Sono un pesce rosso. Diventerò un pesce rosso, e mi metterò a nuotare.”
“Sei tu che hai mangiato la luna e le stelle?” chiese ancora Tatsumi, rammentando ciò che aveva visto finora nel sogno.
“Sì,” replicò la ragazzina, con fare spensierato. “Me li sono mangiati io. Mi piace molto di più quando fa notte.”
“Perché ti piace la notte?”
“Perché se fosse giorno, mi ucciderebbero.”
“Perché?”
“Perché mi ucciderebbero.”
“Chi è che ti ucciderebbe?”
“La persona che viene a uccidermi.”
Era un discorso intriso della logica tutta particolare dei sogni. A meno che non le avesse chiesto qualcosa che si avvicinasse molto alla verità, la ragazzina avrebbe continuato a dare delle risposte evasive. Tatsumi voleva davvero risolvere il mistero di questo sogno, arrivare fino al cuore della ragazzina, ma il problema era che non sapeva nemmeno chi lei fosse.
“Dove sono tuo padre e tua madre?”
Il sorriso della ragazzina si affievolì all’improvviso. “… Sono morti.”
“Davvero?”
“Sono stati uccisi.”
“Da chi?”
La ragazzina chinò il capo, e iniziò a piangere.
Probabilmente, Tatsumi aveva toccato un argomento dolente. Ai singhiozzi della figuretta dinanzi a lei si unì anche una pioggia improvvisa, mentre il pesce gigante sembrò intristirsi, e accennò esitante qualche movimento.
Il corpo di Tatsumi galleggiò verso l’alto, e si fermò di fronte alla ragazzina. Anche lei provava tristezza nel vedere piangere l’altra. Si rammentò di quando erano morti i suoi, di genitori, e di come avesse pianto quando in giro non c’era nessuno a guardare. Sua madre era rimasta intrappolata in un sogno, e non si era svegliata mai più, così come suo padre. Tatsumi aveva pianto tutta la notte, fino al sorgere del sole.
L’immagine di se stessa in lacrime si sovrappose ora a quella della ragazzina tremante e piangente di fronte a lei. Per questo, le posò la mano destra sulla spalla e premette un poco, come per offrirle un po’ di conforto.
“Sorella…”
La ragazzina sollevò gli occhi ancora colmi di lacrime.
“Dai…”
Mise la mano sulla mano destra di Tatsumi, ancora posata sulla sua spalla.
“Diventa un pesce rosso insieme a me.”
All’improvviso, Tatsumi sentì che i polmoni le si riempivano d’acqua, e non riuscì più a respirare. Provava molto dolore, e intanto il suo corpo sprofondò giù, sempre più giù, nell’oceano oscuro. L’oscuro oceano…
***
No, mi trovo all’interno di un vaso per pesci.
Un vaso dei pesci rossi.
Intorno a me c’è buio perché è notte. E di notte fa buio.
Non ci sono stelle in cielo, e nemmeno la luna.
Perché me le sono mangiate tutte io.
La notte scorsa mi sono mangiata le stelle. Ieri invece ho divorato la luna.
Ho deciso che stavolta mi mangerò il sole, quel sole tanto simile a un kaki maturo.
È così bella la notte.
Voglio diventare un pesce rosso, di notte.
Se diventerò un pesce rosso, nessuno verrà per uccidermi.
L’acqua è così tiepida.
Fuori fa talmente freddo, è per questo che lo odio.
Un pesce rosso.
Un pesce rosso, con la pinna della coda rossa.
***
“Tatsumi-chan! Tatsumi-chan!”
Kyosuke continuò a tenere per mano Tatsumi, e a chiamarla per nome, e a scuoterla, ma invano.
Nel momento in cui stavano per entrare nell’appartamento, Tatsumi aveva perso conoscenza; a quanto sembrava, era entrata in sintonia con il sogno di qualcuno. Non sapeva di chi fosse tale sogno, tuttavia era probabile che si trattasse di uno particolarmente potente. Alcuni secondi prima, era quasi riuscito a risvegliarla, ma improvvisamente la ragazza era caduta in un sonno molto più profondo.
“Tatsumi-chan!”
Kyosuke strinse a sé il corpo esanime di Tatsumi, e serrò la presa sulla mano destra della ragazza.
“Riuscirò a svegliarti. L’ho promesso a tua madre.”
Strinse ancora più forte la mano di lei.
“In sogno.”
- continua (forse...) -