Dopo averci pensato su moooolto a lungo (soprattutto perchè ultimamente stiamo tutte postando roba davvero davvero davvero angst, e non credo che tutto ciò faccia benissimo alla salute)(soprattutto mentale)... ho deciso di postare HS pure qui (per la cronaca: è anche su
ArashiForDream/forum).
Prego!
Titolo: The Hell' Spot
Gruppo: Arashi, News, Kattun, Toma (s.p.a XDDD) - precisazione: News, Kattun (che poi ce n'è uno solo) e Toma sono personaggi secondari che non appaiono tutti subito.
Pairing: allora... Ohmiya (NinoxOhno) per ora può bastare.
Rating: PG-13
Genere: angst (scusatemi!), noir-giallo, AU
Disclamers: i personaggi citati non mi appartengono, la ff sì.
Note: credo, fino ad ora, la mia migliore AU. Per una totalità di 39 pagine di Word scritte... è finita! E l'ho scritta praticamente tutta d'un fiato... ne sono molto soddisfatta.
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Prologo.
La pioggia batteva incessante sulla via che portava all’albergo.
Non smetteva di piovere da giorni; una pioggia fitta, pesante, cupa. Sembrava tingere l’intera città di un’atmosfera grigia e umida. Non poteva che essere marzo.
L’auto parcheggiò davanti alle porte dell’albergo, spense i fari e le luci blu della sirena.
Il sottoposto si affrettò a scendere, aprire l’ombrello, far scattare la portiera e coprire l’ispettore, che scese lentamente.
Insieme si diressero verso le porte di vetro dell’albergo.
La strada era vuota e le scarpe dell’ispettore - scarpe eleganti, di pelle, nere - affondarono nei rivoli incessanti di acqua che scorrevano dal marciapiede ai tombini a lato della strada.
Come entrarono, vennero condotti verso l’ascensore dal proprietario.
Nessuno degli addetti fiatò: sul volto di qualche cameriera presente nella hall c’era ancora qualche segno dello spavento. L’ispettore ascoltò attento cosa il proprietario tentava di dire: come la cameriera aveva trovato la porta chiusa nonostante fosse passato mezzogiorno, come aveva aperto con il pass-par-tout, come aveva acceso la luce della stanza buia per le tende scure ancora tirate… l’assistente annotava tutto su un taccuino.
Arrivarono al quinto piano e l’ascensore si fermò, aprendosi su un corridoio apparentemente normale. Il proprietario li condusse alla stanza 305 e aprì la porta con la chiave magnetica.
Poi fece segno all’ispettore e all’assistente di precederlo.
Infilati i guanti, l’ispettore accese la luce della stanza premendo l’interruttore alla sua destra.
Nulla nella stanza era stato toccato: le stesse tende erano ancora chiuse.
La luce chiara del lampadario illuminava le pareti, il letto matrimoniale e, su di esso, il corpo della donna morta. Il suo viso contratto dal terrore, gli occhi e la bocca spalancati, i capelli sciolti e scompigliati sparsi sul cuscino. Indossava un lungo ed elegante vestito nero come la notte.
Al di fuori delle ampie finestre… la pioggia continuava a cadere.
Capitolo 1.
“Per quanti sforzi tu possa fare, alla fine ogni indizio ti porta ad un vicolo cieco. Smettila di farne una ragione personale e rilassati, cambia caso. Ho come l’impressione che ci sia qualcosa di grosso in ballo, qualcosa che è meglio non scoprire.
Me lo prometti che lasci perdere e domani ci facciamo una birra insieme?
Lasciami un messaggio in segreteria per dirmi ora e luogo.”
Rilesse più volte il messaggio dell’ispettore, ma quelle parole sembravano non entrargli in testa. Sospirò, chiuse il computer portatile e si massaggiò le tempie con entrambe le mani.
Aveva ragione oppure no? Erano due mesi che lavorava a quel caso e, a parte pochissimi indizi, non era riuscito ad arrivare da nessuna parte. Ogni porta era bloccata, svanita, distrutta. E lui restava nel corridoio di quell’albergo, fermo, in attesa dello scatto di qualche maniglia per correre ad aprirla, cercare risposte.
Due mesi che non badava alla propria salute.
L’aria del suo studio era diventata irrespirabile per le troppe sigarette fumate, le finestre erano rotte da tempo e non si potevano aprire, le tende restavano tirate sul grigio del cielo.
Avrebbe davvero avuto bisogno di una vacanza, di un’alimentazione sana, dopo tanto tempo passato a consumare cibi pronti e ramen istantanei, di una serata in compagnia di un amico.
Ma non poteva lasciare irrisolto quel caso.
Spense il computer, si alzò dalla sedia e inserì la segreteria al telefono dello studio. Prese la giacca leggera, la borsa e le chiavi dell’auto e uscì, chiudendosi la porta dello studio alle spalle. Spense tutte le luci e, con un ultimo sguardo al pianerottolo, chiamò l’ascensore salutando “Ciao, a domani!”.
Chissà perché sentiva sempre il bisogno di salutare la sua segretaria, quando usciva di lì. La sua segretaria non esisteva. Era solo, nel suo studio da detective. Gli appuntamenti glieli prendeva la segreteria telefonica.
Probabilmente, ogni uomo che lavora da solo ha qualche fisima personale… lui salutava la segretaria immaginaria, seduta al proprio tavolo nel pianerottolo, con gli occhiali calati sulla punta del naso, che leggeva fogli e fogli di chissà che cosa per lui. Al suo saluto alzava gli occhi, sorrideva e ogni volta rispondeva “Buonasera, capo”.
L’impiegata modello, non si lamentava mai, si chiamava Mary.
Scese in garage e prese l’auto, per nulla spaventato dai suoi stessi pensieri. Era abituato a pensare che il troppo lavoro gli faceva male.
Arrivato a casa trovò tutte le luci spente.
Erano le 11:30, poteva ben immaginare che fosse già sotto le coperte, dolcemente addormentato. Sorrise ed entrò, tentando di fare poco rumore con le chiavi e nel togliersi le scarpe. Ma nonostante tutto, una luce si accese in corridoio e lui apparve, con i capelli spettinati e l’aria assonnata. Si sorrisero, senza parlare.
Tolte le scarpe entrò in casa, si svestì, si fece una doccia veloce e indossò il suo pigiama.
Entrò nel letto con movimenti felini, muovendo piano le coperte, stringendolo forte a sé.
-Ciao- disse piano.
-Ciao- rispose lui. Dalla voce si sentiva che stava sorridendo.
-Scusa se ho fatto tardi anche oggi…-
-Sei così preso da questo caso, posso capire…- rispose lui, accarezzandogli i capelli ancora umidi per la doccia -Avrei potuto aspettarti più a lungo, ma mi era venuto sonno e sono andato a letto presto…- si giustificò.
-Hai fatto bene, anche tu ti stanchi molto, ultimamente…-.
Una breve pausa, durante la quale abituò gli occhi al buio e l’udito al leggero fruscio del vento e della pioggia fuori dalla finestra della stanza.
-Hai mangiato?- gli chiese poi.
-Io sì, tu?- rispose, mentre le loro mani si incontravano, facevano incrociare le dita.
-Anch’io… anche se la nostra dieta non è molto equilibrata, non trovi? Faccio fatica a prepararmi pranzo e cena… quando sono preso dal lavoro, lo sai, dimentico tutto il resto-.
Lo sapeva, in effetti.
Sapeva che quando l’ispirazione artistica lo prendeva, era capace di stare a digiuno anche per giorni, finché essa non cessava. Finché l’opera non era conclusa.
Lo sentì sbadigliare e, ridacchiando, lo strinse di più a sé, chiudendo gli occhi.
-Buonanotte, Toshi…- gli sussurrò ad un orecchio, il sonno che già si stava impadronendo di lui, lentamente, a partire dalle gambe e risalendo per il corpo.
-Buonanotte, Nino- gli rispose, accompagnandolo nel mondo dei sogni.
Ohno Satoshi era il suo ragazzo.
Aveva 27 anni e faceva l’artista. Il suo laboratorio era la cantina della loro casa, una villetta molto piccola in un quartiere di periferia della grande Tokyo. Come persona, era un tipo particolare: eccentrico, fra le nuvole, smemorato.
Tutta la sua attenzione era rivolta alla propria arte, alle proprie opere. Il suo mondo aveva schemi a parte, disposizioni che solo lui poteva capire, e nessun’altro.
Era molto innamorato del detective, ma molte volte anche questo sentimento, come tutti gli altri, era messo da parte di fronte all’istinto primario di creare, disegnare, dipingere, fare. Come metteva da parte cibo, acqua e riposo per non togliere tempo da dedicare all’arte, così spesso si dimenticava delle presenza di altre persone, cose…
Non che lo facesse per cattiveria, era solo abitudine. Una volta giunta l’ispirazione, non c’era nulla al di fuori dell’arte, come se attorno a lui si creasse una bolla opaca che lo estraniava da ogni cosa.
Il detective questo lo comprendeva molto bene e non osava mai scavalcare questo “istinto artistico” con le proprie pretese. Quelle poche volte che Satoshi tornava sulla terra, era pronto ad accoglierlo fra le sue braccia e accudirlo prima della sua immediata ripartenza per il mondo ultraterreno dell’arte. Il loro rapporto consisteva principalmente in questo.
Ninomiya Kazunari, detto Nino, era invece un detective di 25 anni.
Il suo studio si trovava un po’ più in centro rispetto alla loro casa, per questo ogni mattina si svegliava presto e la sera rischiava di tornare tardi. Il traffico di Tokyo imponeva il suo ritmo.
Da due mesi lavorava ad un caso, senza successo. L’ispettore di polizia che gli aveva mandato quella mail era un suo grande amico, ed era stato lui ad informarlo del caso.
Si svegliò verso le 6 del mattino e restò fermo immobile nel letto, abituato a risvegliare lentamente ogni parte del corpo e della mente. Il tatto notò subito che Toshi l’aveva già abbandonato per raggiungere la cantina. Si stiracchiò lentamente, ritmicamente e si fece qualche domanda per riconoscersi:
Chi era, cos’aveva mangiato la sera precedente (niente, aveva chiaramente mentito al suo ragazzo), che lavoro faceva, chi era Mary (la sua segretaria immaginaria, ovvio), a che caso stava lavorando.
Si disse che era il momento buono per fare ordine non solo nella sua memoria, ma anche in quel poco che era riuscito a ricostruire di quello stupido caso.
Una donna era stata trovata morta due mesi prima nella stanza 305 dell’albergo Sheraton di Tokyo. Indossava un vestito da sera nero e con sé non aveva nulla che potesse identificarla: documenti, carte di credito o simili. Non aveva borse né oggetti personali: giacca, ombrello,
cappello, telefono cellulare. Sembrava che fosse apparsa dal nulla nella stanza, senza passare per la hall. Infatti la stanza era stata prenotata ad un nome falso per l’intera serata con l’obbligo di essere liberata per le 12 del giorno successivo, ma nessuno si era presentato a richiedere le chiavi.
Le chiavi, tuttavia, erano state ritrovate appoggiate sul comodino della stanza, di fianco al cadavere. Sparite dal quadro alla reception, chissà come mai, forse nel pieno della notte.
Anche dopo l’autopsia e l’analisi completa della stanza, non erano state ritrovate tracce di impronte digitali neppure attorno al collo della donna, morta per strangolamento, dove apparivano chiari solo i segni inequivocabili della stretta. Nemmeno le impronte digitali della donna erano state ritrovate, cosa che faceva pensare che non aveva toccato nulla, neppure la porta per entrare nella stanza.
Si rigirò nel letto e ne uscì lentamente, dirigendosi subito in cucina per una veloce colazione, dopo aver fatto tappa in bagno.
Com’era possibile tutto quello?
Chi l’aveva uccisa? Come aveva fatto? Com’era entrata lì quella gente, la donna e l’uccisore, sempre se fosse stato una persona sola? La hall era sorvegliata, nessuno aveva notato l’arrivo di quella donna, figuriamoci di essa accompagnata da una o più persone! E il mancato ritrovamento di impronte o tracce faceva pensare che erano arrivati lì fluttuando, o erano apparsi nella stanza! Com’era possibile che nessuno si fosse accorto di una donna morta che fluttuava dentro un albergo diretta alla stanza 305?
No, stava divagando.
Certamente non aveva fluttuato, nonostante l’immagine mentale poteva soddisfare alle richieste del caso. Gli scherzi di una mente ancora assonnata.
Fece colazione, si lavò, si vestì e prima di uscire chiamò il suo amico ispettore.
La segreteria telefonica gli chiese gentilmente di lasciare il suo messaggio: -Scusa se non ti ho risposto ieri sera, avevo già fatto tardi. Per la birra ci sono, facciamo alle 8 al Sakura Sake. Te la ricordi la strada? Al caso continuerò a lavorarci, giusto per abitudine. Non sono uno che molla facilmente, ho solo bisogno di tempo per rifletterci. Saluta la famiglia-.
Chiuse la porta di casa con le chiavi e scese in cantina, per assicurarsi che Toshi fosse lì.
Era lì, ovviamente, e stava già lavorando al tavolo, piegato su una forma per modellare della plastilina. Lo vide alzare la testa al suo ingresso e si stupì del fatto che l’avesse sentito arrivare.
Doveva essere in un momento di pausa dal vortice artistico.
Si sorrisero a vicenda.
-Buongiorno- disse piano.
-Buongiorno- rispose Satoshi. Si pulì le mani in uno straccio e lo raggiunse sulla porta.
Sì, sicuramente l’ispirazione l’aveva momentaneamente abbandonato, sennò non avrebbe mai messo da parte l’arte per andare a salutarlo. Forse la mattina ci metteva un po’ ad ingranare.
-Metticela tutta per quel caso- disse alzando il pollice.
Nino fece lo stesso gesto e disse: -E tu con le tue bellissime opere-.
Poi si ricordò e gli chiese: -Stasera vuoi venire al Sakura Sake con me? Ci incontriamo con Toma. Ti porto un po’ fuori, che ne dici?-.
Ohno annuì immediatamente -Mi va assolutamente! Vieni a prendermi a casa?-
-Alle 7 sarò qui, mia principessa-
-Con il cavallo bianco?-
-E la spada al fianco- confermò.
Satoshi lo abbracciò ridendo, lo baciò leggermente sulle labbra.
Salì sulla sua macchina bianca (il cavallo bianco… eheh…) e mise in moto. Lo sguardo gli cadde sul pacchetto di malboro che si era dimenticato sul sedile al fianco del guidatore la sera prima. Ma non lo toccò: voleva che il bacio del suo ragazzo gli durasse a lungo sulle labbra e lo accompagnasse in quella nuova, lunga giornata di lavoro.
Arrivato nel suo studio provò, come ogni mattina, ad aprire le finestre sul cielo grigio di Tokyo e, come ogni mattina, non ci riuscì. Maledette vecchie finestre! Riaprì la porta dello studio per salutare Mary, che arrivava sempre un po’ dopo di lui.
“Buongiorno, Mary”
“Buongiorno, capo. Dormito bene?”
“Benissimo, tu?”
“Altrettanto”
“Impegniamoci nel lavoro anche oggi!”
“Sì, capo!”
Dialogo mentale senza una grinza, il cervello ancora un po’ assopito iniziava a carburare. Restava il fatto che Mary non esisteva, ma questo faceva parte di un altro caso.
Ascoltò i messaggi in segreteria mentre sistemava un po’ l’ufficio.
Il terzo gli sembrò interessante e si fermò ad ascoltarlo, fissando il telefono nero sulla sua scrivania. Diceva:
“Ciao! Sono io, Masaki Aiba. Ti ricordi? Frequentavamo le medie insieme, eravamo entrambi nel club di basket. Non riuscivo a crederci quando ho letto sul giornale che fai il detective e stai lavorando al caso dello Sheraton! In ogni caso… volevo dire… forse ho degli indizi che ti possono servire. Cioè, non ne sono sicuro… ecco, io *bip*”
“Fine del messaggio” disse l’elegante voce della segreteria.
Tipico di quel cretino di Aiba occupare troppo spazio nei messaggi, pensò. Certo che se lo ricordava. Fin troppo bene…
Il quarto messaggio lo sorprese anche più del primo:
“Sono sempre Aiba. Ti va di incontrarci stasera alle 7:30 alla stazione di Shibuya? Ti porto in un locale che conosco lì vicino. Rispondi al seguente numero: 32… è il mio, salvatelo pure in memoria, ne! Che bello, sembra una riunione di amici dopo tanto tempo! A riguardo, è da circa 10 anni che mi sono sempre scordato di dir *bip*”
“Fine del messaggio” disse spazientita la voce della segreteria.
Come previsto il quinto messaggio era:
“Sono sempre Aiba. Vabbeh, te lo dico stasera. Se vieni. Ma spero di sì. Conferma, ne! Mi raccomando! Vieni, dai. Ciao, a stasera!”
“Fine del messaggio” sospirò sollevata la voce della segreteria, contenta di non aver sentito di nuovo il *bip* che segnala quando un messaggio è troppo lungo.
Quel cretino di Aiba…
Chiamò in fretta Toma per rinviare la birra al giorno dopo e chiamò Satoshi per dirgli che sarebbe passato alle 6. Lo trovò in casa.
-Dove andiamo?- chiese Ohno -Da un’altra parte?-.
-Sì, è un incontro con un mio vecchio amico delle medie, non ci crederai mai… piuttosto, che ci fai in casa?- domandò stupito.
-Oggi non sono molto ispirato- sbuffò il suo ragazzo.
Come avrebbe voluto essere a casa a coccolarlo… quando non era ispirato, il suo ragazzo era piccolo, triste ed indifeso.
-Torno alle 5, così stiamo un po’ insieme- concesse, con un sorriso.
La voce di Satoshi sembrò migliorare: -Ti amo tanto, grazie-.
-Ti amo anch’io-.
Salutò e chiuse la telefonata.
Sotto con le indagini.
Commenti sempre graditi! ^^