[Supernatural] In a perfect world you'd still be here (7/11)

Nov 27, 2011 01:08

Titolo: In a perfect world you'd still be here
Fandom: Supernatural
Personaggi: Dean Winchester, Sam Winchester, Castiel, Death, Michael, Lucifer, Mary Winchester, OMC, OFC, presenza minore di Bobby Singer
Pairings: Michael/Lucifer, Dean/OFC (diciamo... più o meno XD)
Rating: PG
Genere: AR (Alternative Reality), drammatico, angst
Parte: 7/11
Warnings: lieve linguaggio, accenni di incesto slash tra due angeli, spoiler fino alla fine della 6° stagione
Warning SPOILER sulla trama: Character death (sort of, la morte è solo temporanea)
Note: Post 6x22, inizio alternativo della 7° stagione.
Scritta per il bigbangitalia insieme alla mia adorata soulmate arial86.
Riassunto: Per riportare l’ordine nell’ormai irrimediabile anarchia causata dai Winchester negli equilibri di vita e morte, Death prende una drastica decisione: intervenire personalmente nel passato, modificando gli eventi. Le conseguenze riscrivono l’intera esistenza di Dean e Sam, creando una realtà alternativa in cui i due fratelli sono cresciuti vivendo una vita normale, completamente ignari dell’esistenza del soprannaturale. A 32 anni, Dean vive con sua moglie e i suoi due bambini, sereno seppur con il ricordo doloroso di suo fratello, morto quattro anni prima. Ma lo spirito di Sam, dilaniato dai ricordi della sua vera vita, ora vaga nel tormento. E mentre Dean, tra déjà-vu e ombre del passato, scopre l’esistenza di un mondo fatto di fantasmi, medium e cacciatori, qualcuno si sta muovendo in segreto per rimettere ogni cosa al suo posto.
Disclaimer: Caroline, Richard e i pupetti sono roba nostra, su tutti gli altri personaggi non deteniamo alcun diritto, per fortuna per loro e purtroppo per noi. Non ci guadagniamo niente se non il piacere di soffrire e far soffrire. ♥
Masterpost: QUI

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Far away, long ago
Glowing dim as an ember
Things my heart used to know
Things it yearns to remember
(Once upon a December - Deana Carter)

SAMUEL WINCHESTER
MAY 2, 1983 - APRIL 29, 2007
BELOVED SON AND BROTHER
REMEMBERED FOREVER

Delicati fiori di campo adornavano la tomba. Dalla spessa cornice d’ottone, Sam sorrideva senza guardare verso l’obiettivo, quel suo sorriso timido che gli disegnava un dolce accenno di fossette sulle guance. L’innocenza di un bambino sul volto di un ragazzo.
Dean si soffermò sulla fotografia e arricciò le labbra in un'espressione piena di nostalgia e tristezza. Era stato lui a sceglierla.
“So che probabilmente non ha molto senso per me venire qui,” sospirò. “Tu mi sentiresti ovunque mi trovassi, vero, fratellino?”
Lasciò che il silenzio gli rispondesse per un istante.
“Ho paura, Sam,” ammise poi. “Mi sento un po’ come Will Smith, te lo ricordi? Sei mesi fa sapevo che i fantasmi non esistevano, due giorni fa sapevo che gli angeli erano solo immaginari marmocchi sovrappeso con pannolino e boccoli, e stamattina sapevo che mamma era una donna normale che aveva vissuto una vita normale.” Abbozzò una pallida risata amara, ricordando il periodo lontano in cui non faceva che citare pezzi di quel film[1], e quanto la cosa annoiasse Sam. “Ho paura a chiedermi cosa saprò domani...”
Si passò una mano sul viso, in un gesto stanco e amareggiato.
“La verità è che sono un disastro di fratello maggiore, Sammy,” continuò, scuotendo appena la testa. “Non te l’ho mai detto, ma fin da quando eravamo piccoli avrei voluto essere... non lo so, il tuo ‘eroe’ suppongo. Un po’ megalomane, vero?” sorrise tristemente. “Ma non sono mai riuscito a fare granché per te. Non ne hai mai avuto bisogno, sei sempre stato in gamba, molto più di me.” Socchiuse gli occhi, un velo lucido a coprirli. “E ora che mi stai chiedendo aiuto, io...”
Una lacrima gli cadde dalle ciglia, e Dean restò in silenzio. Rivide quel ragazzino timido e studioso, con cui scambiava scherzi e prese in giro e a cui non aveva mai rivelato che a volte, d’improvviso e senza nessuna ragione, lo cercava con lo sguardo, solo per assicurarsi che stesse bene, come se da ogni angolo potesse spuntare qualche pericolo mortale. Ricordava ancora la notte in cui Sam aveva compiuto sei mesi. Dean aveva quattro anni e aveva fatto i capricci per tutta la sera, perché per qualche ragione aveva deciso che quella notte doveva assolutamente restare a dormire nella stanza del fratellino. John alla fine lo aveva sgridato e mandato in camera sua, ma il mattino dopo lo avevano trovato nella cameretta di Sam. Era sgattaiolato di nuovo lì dentro e aveva dormito nella culla assieme al neonato, tenendolo tra le braccia, e i loro genitori non si erano accorti di nulla perché per la prima volta da quando era nato, Sam non aveva pianto per tutta la notte.
Man mano che il fratello minore cresceva, era stato sempre meno difficile per Dean nascondere quell’irrazionale istinto protettivo, fino a lasciarlo lentamente sbiadire quando Sam se n'era andato da Lawrence per il college. Adesso, all’improvviso, si sentiva di nuovo come quel bambino di quattro anni, ma stavolta il suo non era un capriccio insensato, stavolta qualcosa di terribile stava davvero succedendo al suo fratellino, e lui non si stava dimostrando capace di proteggerlo.
“Non so che cosa fare, Sammy,” sussurrò, con voce spezzata. “Dimmi... dimmi che cosa devo fare...”
Si coprì gli occhi con una mano e non disse più nulla. Attorno a lui, l’aria immobile del primo pomeriggio si sciolse per un solo istante in una brezza gentile e gelida, che scivolò sull’erba e sul suo viso. Come una carezza.
Nuvole scure iniziarono a coprire il cielo verso est, mentre la macchina di Dean si allontanava dal cimitero di Stull e da Lawrence.

Sul campo da gioco, Dean aveva impegnato i ragazzini della sua squadra in una partita d’allenamento. Li guardava correre, distrattamente, senza dar loro le usuali indicazioni né spronare chi non si impegnava a dare il meglio. Probabilmente, in quel momento non avrebbe riscosso molta credibilità nel rimproverare qualcun altro circa la mancanza di concentrazione.
Le voci di Mary e dell’angelo Castiel continuavano a risuonargli in testa in un turbinio incessante. Gli parlavano di vite segrete, di ossa cosparse di sale e date alle fiamme. Della sua famiglia e di come non sarebbe dovuta esistere. E poi, improvvisamente, ogni altro pensiero spariva per un istante, e c’era solo la voce di Sam a sussurrare il suo nome piangendo nel buio, c’erano il suo volto e il tocco freddo e disperato della sua mano.
Qualcuno lanciò un grido d’esultanza, la voce di un bambino. Dean alzò lo sguardo e vide il piccolo Matt venire abbracciato dai suoi compagni dopo aver segnato un goal. Il ragazzino incontrò il suo sguardo, sorrise fiero, iniziò a correre nella sua direzione. Dean restò immobile mentre i suoni e le immagini che lo circondavano sembravano dilatarsi  e mescolarsi, fino a formare null’altro che una cornice sfocata attorno a quel bambino che veniva verso di lui...
E d’un tratto, quel bambino era diventato Sam. Dean si guardò intorno. Si trovava ancora sul bordo di un campo di calcio, ma non più il suo e non più a Mission. Era il campo di una scuola, in una città di cui era certo di conoscere il nome, eppure non riusciva a ricordarlo. Un Sam di circa undici anni correva verso di lui, i riccioli bagnati di sudore, un sorriso felice sul volto, e Dean sapeva che il motivo era che la sua squadra aveva appena vinto una partita contro quella di un’altra scuola. Sam lo raggiunse e lo abbracciò, strappandogli un verso di disappunto.
“Sei sudato da far schifo, Sammy!” protestò Dean, ma senza allontanarlo. Sam si scostò ridendo, poi i suoi occhi assunsero un’espressione ansiosa che il ragazzino tentò inutilmente di nascondere.
“Papà è ancora arrabbiato?”
Dean sapeva che John era arrabbiato, sapeva che suo padre aveva discusso con Sam perché era contrario al fatto che fosse entrato nella squadra, perché era una distrazione che gli portava via troppo tempo, e lui aveva un’altra cosa molto più importante a cui dedicare tutte le sue energie. Ma non riusciva a ricordare di cosa si trattasse.
“Gli passerà,” rispose soltanto, con tono tranquillo, perché Sam in quel momento era felice e lui voleva che lo restasse il più a lungo possibile. Perché Sam non era mai felice.
Il fratellino abbassò lo sguardo, annuì e sorrise, un sorriso più malinconico, consapevole e rassegnato. Non era così ingenuo. Ma quando risollevò il viso verso Dean, i suoi occhi erano pieni d’affetto.
“Grazie per essere venuto a vedermi, Dean,” mormorò, con sincera gratitudine.
Dean non rispose, o forse sì, forse gli aveva risposto di andarsi a fare una doccia perché puzzare di sudore rovinava l’atmosfera di quel momento da femminucce, e Sam non se l’era presa perché sapeva che era semplicemente il suo modo di dirgli che era tutto okay. Forse era andata così, ma non ne era certo, perché attorno a lui tutto stava tornando a confondersi in una densa nebbia, e qualcuno lo stava chiamando, da chissà dove, da chissà quanto...
“...-oach! Coach! Sta bene? Ci risponda!”
Dean sussultò e si guardò attorno, spaesato. Era seduto sul terreno, circondato dai bambini della sua squadra, impauriti per averlo improvvisamente visto alzarsi dalla panchina, muovere qualche passo e poi lasciarsi andare a terra, dove era rimasto immobile con lo sguardo fisso nel vuoto per quasi un minuto. Con le dita che tormentavano il cordoncino attorno al suo collo, Dean li ascoltò cercando di non lasciar trapelare nulla, assicurando loro che si era trattato solo di un lievissimo mancamento, che aveva semplicemente del sonno arretrato e che stava bene, e soffocando il bisogno di urlare che no, cazzo, non stava affatto bene, perché quello che aveva appena vissuto non era neanche lontanamente definibile come “déjà-vu”, era una fottuta allucinazione in piena regola! E la cosa che più lo terrorizzava era che, pur essendo consapevole che niente di quello che aveva visto fosse mai avvenuto, per un attimo non era stato così. Per un attimo era stato tutto così reale che gli sembrava davvero che Sam si fosse appena staccato da lui, e che l’eco del suo abbraccio gli vibrasse ancora addosso.
Forse, alla fine, era impazzito del tutto.
La voce di Castiel gli risuonò ancora nelle orecchie. “Questa vita, questa realtà, non sono le tue.”
Forse era impazzito o forse, peggio ancora, non lo era.

Il cielo coperto rumoreggiava sopra le strade di Mission e rendeva pallida e opaca la luce del tramonto.
A pochi isolati da casa, la station wagon rallentò, fino a fermarsi davanti alla luce rossa di un semaforo. Dean si passò una mano sul viso, scuotendo impercettibilmente la testa, quasi sperasse che angosce e paure potessero scivolarne via come granelli di polvere. Il semaforo pedonale aveva iniziato il suo conto alla rovescia, e lui si lasciò ipnotizzare dal geometrico disegno digitale dei numeri. Il silenzio lo circondava, ma per un istante ebbe la sensazione di un bisbiglio appena percettibile, alla sua sinistra. Si voltò, lo sguardo che cadeva sulla sgargiante vetrina di un negozio. Continuò a fissarla come se un misterioso istinto gli impedisse di staccarsene. Quando si rese conto che il semaforo era scattato e che le auto dietro di lui stavano protestando a colpi di clacson, accostò al marciapiede e spense il motore.
Se gli avessero chiesto il perché, non avrebbe saputo cosa rispondere. O meglio, avrebbe semplicemente risposto qualcosa di assolutamente privo di senso, come “sapevo di doverlo fare”. Sapeva di doversi fermare, di dover scendere dall’auto e dover entrare in quel negozio. E sapeva cosa cercare.
Quando, poco più tardi, rientrò a casa, Caroline lo salutò con un sorriso che immediatamente si spense di fronte all’espressione corrucciata del marito.
“Caroline, so che negli ultimi giorni le cose sono state strane... be', più strane del solito,” cominciò lui. Adesso la cosa più importante era tranquillizzare sua moglie e convincerla a fare quanto stava per chiederle. Doveva essere certo che, se qualcosa fosse andato storto, la sua famiglia non si sarebbe trovata in pericolo. “Ti spiegherò tutto,” assicurò, in qualche modo già consapevole che quella promessa si sarebbe rivelata una bugia, e odiandosi per questo. “Ma ora devo chiederti un favore.”
Caroline lo fissò, dubbiosa e preoccupata. “Quale favore?” chiese, e solo allora si avvide della busta che Dean teneva in mano. Sembrava contenere una piatta scatola rettangolare. “Quello cos’è?”
Dean scosse la testa. Si avvicinò e le posò una mano sul braccio, quel gesto a metà tra una stretta e una carezza che faceva quando cercava di rassicurarla.
“Non ora. Ti prego, giuro che non sono pazzo, ma... ho bisogno che per stanotte tu prenda i bambini e vada a casa dei tuoi genitori.”

Note:
1. Dean si riferisce al film Men In Black (1997) e a una frase rivolta al protagonista Will Smith: "Millecinquecento anni fa, tutti sapevano che la terra era il centro dell'universo; cinquecento anni fa, tutti sapevano che la terra era piatta; e quindici minuti fa, tu sapevi che la gente era sola su questo pianeta. Immagina cosa saprai domani..."

Capitolo 8 →

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