Ok... ok... lo so che mi state odiando tantissimo e me le merito tutte, le vostre maledizioni! Però tra le feste di mezzo, il lavoro, lo studio, i MILLE gattini piccoli che pigolano in continuazione e io devo starci dietro... mi sono abbastanza dimenticata di aver scritto una fanfiction. T_T Scusatemi. ♥
Non sono riuscita a combinare un cacchio in questi giorni, fandomicamente parlando, tant'è vero che l'anonimeme delle AU storiche è finita e hanno messo su il
REVELATION POST senza che io fossi riuscita a finire e postare niente di quello che stavo scrivendo... ecco. ;_; Ma visto che ne ho presa una e ne avevo in mente un'altra, penso che le scriverò (o meglio, finirò una e vedrò se mi viene in mente qualcosa per l'altra) non appena le acque si saranno calmate. Se a qualcuno interessa, avevo preso e ho iniziato a scrivere
QUESTA e sto meditando di cominciare
QUEST'ALTRA.
E visto che oggi sono presa bene con il livejournal, mi faccio perdonare dell'assenteismo e aggiorno un po'. XD Yayyy ♥
Intanto vi posto l'ultima parte di Wrong World, che ho fatto soffrire tutti abbastanza credo. Scusatemi per l'attesa e spero che vi piaccia. ♥
Titolo: Wrong world (6/6)
Pairing: Jin Akanishi (KAT-TUN) x Tomohisa Yamashita (NewS)
Genere: AU politica, romantica (?)
Rating: NC-17 per violenza, molta violenza; non aspettatevi descrizioni accurate di scene sessuali.
Summary: Un giovane politico, dalle idee piuttosto rivoluzionarie e forse troppo ingenue, viene rapito, per evitare che “parli troppo”, proprio prima di una conferenza stampa. La sua guardia del corpo, nonché suo compagno di letto, non riesce a sopportare l’idea di averlo lontano da sé.
Warnings: Come ho già detto, davvero molta violenza. Non credo che ci siano altri warnings da fare, questo è sufficiente, no? Non immaginatevi niente di carino e confettoso, questa volta. PoV di Jin.
Commenti: Sono stata proprio tanto contenta di aver scritto questa fanfiction, mi è piaciuto così tanto. ;__; Scritta per il prompt "AU. l'uke della situazione, personaggio scomodo estremamente in vista (preferirei un politico con idee particolari/scomode etc.), viene rapito, privato della memoria e costretto a prostituirsi. vorrei che fra il seme e l'uke ci fosse un qualche tipo di rapporto, ovviamente (amicizia? compagni di letto? fiiiidanzati? *occhioni dolci*), e, soprattutto, vorrei che il seme conducesse indagini etc. in perfetto Hollywood style per ritrovare la sua dolce metà ♥ punti bonus per estremo realismo e happy ending." della meravigliosa
xnyappyallyx!
Disclaimer: Don't own.
Parte Prima. Parte Seconda. Parte Terza. Parte Quarta. Parte Quinta. Wrong World
“Jin?”
“Mh?”
“Qual è la differenza tra noi ed una vera coppia?”
“Tomohisa...”
“Non... voglio cercare di fare qualche discorso impegnato. Giuro. Mi stavo solo chiedendo... alla fine noi facciamo tutto quello che fanno le coppie. Facciamo sesso, sì....”
“Eccome, se lo facciamo.”
“...ma non solo quello. Ci baciamo quando ci vediamo. Facciamo colazione insieme, usciamo insieme, guardiamo i film, parliamo per tanto tempo... a volte lo facciamo anche dolcemente, e mi fai persino le coccole dopo che l’abbiamo fatto.”
“Non dire coccole. Le coccole sono cose da donne.”
“Non ha importanza, me le stai facendo anche in questo momento...”
“Non lo so, Pi. Non so quale sia la differenza, però... funziona bene così, tra noi. Siamo una coppia migliore di tante senza esserlo davvero. Non possiamo lasciare le cose così, senza un nome, senza legami?”
“...va bene, se preferisci così. Senza legami.”
Mi sono sempre chiesto che tipo di sensazioni dovessero provare le persone che entrano in coma.
Sarà come addormentarsi?
È vero che ci si trova ad un passo dalla morte, sono vere tutte quelle storie di persone che si risvegliano e parlano di un luogo troppo simile al paradiso, che hanno avuto la fortuna di vedere da vicino?
Sono sempre stato una persona piuttosto scettica, mi conosci benissimo.
Non ho mai creduto troppo a quelle storie, le vedevo solo come frutto delle menti visionarie di chi è stato addormentato troppo a lungo, e cercava un po’ di notorietà, non pago di quella che già avrebbe avuto per il semplice fatto di essersi risvegliato dal coma anni dopo.
Mi sembrava quasi ridicolo sentirli parlare della luce che vedevano da lontano, ma non riuscivano a raggiungere, mi sembrava ridicolo vederli con gli occhi spalancati, a palla, stanchi dall’esser rimasti chiusi troppo a lungo, mentre raccontavano di aver sentito tutto ciò che accadeva intorno a loro, ma che non riuscivano semplicemente a rispondere, come quando ci si trova in un dormiveglia di un sonno troppo pesante, o non si ha dormito abbastanza, e si fatica persino ad aprire gli occhi al suono della sveglia.
Mettevo quei racconti esattamente sullo stesso piano di quelli dei matti che sostenevano di essere stati rapiti dagli alieni, di quelli che venivano posseduti dagli spiriti di qualche lontano antenato, queste follie che una persona che non ha tempo da perdere non riesce nemmeno a prendere sul serio.
Non mi ero ritrovato in alcun luogo più simile ad un paradiso terrestre che ad una stanza d’ospedale, non avevo incontrato nessuno dei miei parenti morti e sepolti da anni che mi aveva rassicurato sul fatto che non sarebbe ancora arrivata la mia ora, nessun angelo, che mi teneva compagnia mentre attendevo di risvegliarmi.
Però il dolore, quello lancinante di tutti i posti che ero riuscito a ferirmi nel tentativo goffo di riuscire a raggiungerti il prima possibile, quello era sparito.
Forse ero imbottito di medicinali, o forse semplicemente pensavo di essere davvero morto, ma non sentivo più dolore da nessuna parte, nemmeno l’infermiera piccola e nervosa che mi infilava con poca cura un ago in vena - era l’unico mio modo di nutrirmi, bloccato in quel letto d’ospedale, e la cosa non poteva che farmi soffrire - mi aveva provocato anche il minimo fastidio, niente di niente.
Forse, ero davvero come morto.
Eppure sentivo tutto quanto, lo sai?
Dopo i miei anni di scetticismo e prese in giro, riuscivo a sentire tutto ciò che accadeva attorno a me, i fiumi di parole che i medici riversavano sui miei familiari per rassicurarli sulle mie condizioni o quelle che si scambiavano tra loro, decisamente meno rassicuranti, sul fatto che non sapevano se e quando mi sarei risvegliato.
Ero in coma, me ne resi conto dopo sin troppo tempo.
Mi sembrava stupido, stupido e frustrante, rimanere immobile in quel letto, non riuscire a rispondere né a reagire, quando in realtà mi rendevo conto di tutto ciò che mi succedeva.
E non è come raccontano alcune di quelle persone in televisione, non ero una specie di spettro che fluttuava nella stanza, vedendo tutto dall’esterno, in quella che chiamano esperienza extra-corporea.
Era semplicemente come se non riuscissi ad aprire gli occhi, sentivo le voci, percepivo le presenze, i passi, i fruscii degli abiti, ma non vedevo nulla, proprio come quando ero piccolo, e fingevo di essermi addormentato sul divano, per farmi portare sino a letto in braccio da mia madre.
O come quando, un po’ più grande, attendevo ad occhi socchiusi il tuo risveglio, chiudendoli poi del tutto e fingendo di dormire, per spiare nel buio dei miei occhi chiusi la tua reazione, chiedendomi se mi avresti baciato, se mi avresti guardato, o se te ne saresti semplicemente andato, senza preoccuparmi della mia presenza accanto a te.
E, a volte, sentivo dei piccoli singhiozzi, sommessi, come di qualcuno che cercava di trattenere le lacrime, ma non riuscivo a capire chi fosse, non riuscivo ad aprire gli occhi, mi sentivo solamente stringere il cuore, e la voglia di piangere premere sui miei occhi chiusi.
“Non reagisce agli stimoli. L’attività celebrale è buona, per ora, quindi c’è ancora speranza... ma non reagisce.”
“Ma... fisicamente? Come sta? A parte... a parte il fatto che non si sveglia...”
“Ha riportato diverse micro-fratture alle costole, sommate sono piuttosto serie. Il mix di medicinali e alcolici avrebbe potuto essergli letale, soprattutto considerata la quantità di sonnifero che gli era stata somministrata la notte prima, mi... sconvolge, il fatto che sia riuscito a camminare, ad arrivare sino in quella fabbrica.”
“E... lo sparo...”
“Siamo riusciti a rimuovere il proiettile, è stata una fortuna che l’abbia colpito al fianco, dritto sull’appendice. Ma ha perso molto sangue, e una trasfusione non è stata sufficiente a rimetterlo in forze, evidentemente...”
“...si risveglierà?”
“Questo ancora non lo sappiamo.”
Sentire quei medici parlare di me come se non fossi presente, mi stava lentamente facendo impazzire.
Non riuscivo a reagire, li sentivo discutere dei diversi stimoli che mi davano, a parole, a gesti, toccandomi o facendomi volutamente del male, con alcuni aghi, ma non riuscivo a far capire loro che sentissi tutto, che fossi del tutto cosciente di ciò che mi stava accadendo, semplicemente, non potevo impedirlo.
Ed ogni volta, dopo quegli stimoli fastidiosi, dicevano un numero, che evidentemente l’infermiera scriveva sulla cartella, a giudicare dal rumore della penna, dallo scatto che le faceva fare per fare uscire la punta dalla biro, probabilmente in base alle mie reazioni - reazioni che non riuscivo a comandare.
Era immensamente frustrante, ma, se non altro, io ero consapevole di non essere così grave come dicevano loro.
Sapevo che il mio coma non poteva essere irreversibile, se i miei momenti di lucidità erano così frequenti, se riuscivo a rendermi conto di tutto quello che succedeva attorno a me.
Quelli erano, tutto sommato, i momenti migliori.
Ma c’erano anche i momenti in cui non riuscivo a sentire nulla, se non un vuoto soffocante attorno a me.
Sapevo che non poteva esserci così tanto silenzio, ero in ospedale, e probabilmente le persone andavano e venivano dalla mia stanza - non solo medici ed infermieri, ma amici, parenti, le persone di cui sentivo le voci nei miei non di certo rari momenti di lucidità.
E poi, sentivo anche te.
Era passato ormai qualche giorno da quando avevo sentito quei singhiozzi sommessi, quella persona trattenere le lacrime e sfiorarmi la mano, e avevo capito che eri tu.
Eri l’unico a non fare mai domande ai medici, li pregavi solamente di lasciarti lì, accanto a me, e non volevi sentire ragioni.
Eri così ostinato, che se fossi riuscito a muovere i muscoli del viso, molto probabilmente non sarei riuscito al trattenermi dal ridere di te.
Eri ostinato come un bambino, probabilmente anche tu eri ricoverato in quello stesso ospedale, ma non ne volevi sapere di tornare nella tua stanza, per quante moine o sgridate dovessi subire da infermieri e medici.
Non sei mai stato così bravo con la dialettica, non riuscivi a girare le parole in modo che le persone si trovassero ad accettare i concetti che volevi esprimere, non sei mai stato bravo come i tuoi avversari.
Probabilmente era colpa della tua innata timidezza, ma non riuscivi a mettere in piazza le tue ragioni, riuscivi solamente a fare i capricci, probabilmente a mettere su quel broncio adorabile, per convincerli a farti rimanere con me.
Volevi rimanermi accanto ed io, io ti giuro, avrei aperto gli occhi solo per poterti guardare.
“Yamashita-san, deve tornare nella sua stanza. Non può stare qui, oltretutto l’orario di visite è finito da un pezzo, e...”
“Non vi cambierà niente, se rimango qui anziché nella mia stanza. Non prenderò freddo, prendo una coperta... e tengo la mascherina, va bene? Se ho delle malattie, non gliele attacco, devo rimanere qui.”
“Yamashita-san, non può comportarsi come un bambino... ha bisogno di riposo anche lei per rimettersi del tutto, torni nella sua stanza, la prego.”
“Non ho bisogno di così tanto riposo, sono sciocchezze! Non mi è successo niente di così grave, devo rimanere vicino a lui, io... è lui che si è preso una pallottola per me, è il minimo che io possa fare, accidenti.”
“Non ha mangiato per giorni, ed è rimasto praticamente senza vestiti addosso in un edificio gelido. È molto debilitato, deve riposare e... lei è una persona importante, Yamashita-san, insomma!”
“Appunto, sono una persona importante, lasciatemi fare quello che voglio!”
Mi sembrava di vederti, che quasi battevi il piede a terra per far valere le tue ragioni.
Però vincevi sempre tu, in un modo o nell’altro, e ti lasciavano rimanere accanto a me.
E quelli, erano i momenti in cui la mia lucidità diventava più nitida, ed erano momenti sempre più frequenti, era doloroso come tornare alla vita, era doloroso come doveva esserlo stato nascere.
Nonostante non provassi dolore quando i medici mi pungevano con degli aghi per farmi reagire o mi cambiavano la flebo, quando tu eri accanto a me, sentivo il tocco morbido delle tue dita che mi cercavano la mano, e all’inizio eri quasi restio, come se avessi paura di toccarmi - come può averne chiunque di toccare un morto.
Ma, man mano che i giorni passavano, mi toccavi con sempre più decisione, sino a stringermi la mano.
E non parlavi, rimanevi semplicemente accanto a me, forse sveglio per ore, o forse addormentandoti con il capo appoggiato sul materasso del mio letto, ma non mi lasciavi mai la mano.
E, man mano che i giorni passavano, era diventato quasi impossibile, che io ricadessi nello stato di incoscienza e vuoto mentale, dove non sentivo alcun rumore attorno a me.
Mi accorgevo del momento in cui entravi nella stanza, in alcuni momenti, riconoscevo addirittura il tuo profumo.
Dovevano averti dimesso dall’ospedale, perché, alla fine dell’orario di visite, la solita manfrina sul fatto che dovessi tornare nella tua stanza, era diventato un deve tornare a casa, ma il responso rimaneva uguale, nonostante riuscissi a vincere le regole sempre meno.
Ma andava bene, perché riuscivo, piano piano, a recuperare le mie abituali funzioni.
Avevo sempre gli occhi chiusi, ma quando tu non eri con me, era quasi come se dormissi, a volte facevo addirittura dei sogni.
Quando invece eri con me, concentravo tutto me stesso sul cercare di ricambiare la stretta della tua mano, era come se rimanessi semplicemente ad occhi chiusi, ma ero sveglio, in tutto e per tutto.
Il numero che i medici stabilivano per il mio stato di coma era sempre più alto, ed era positivo, come assicuravano ai miei familiari, che tornavano ogni giorno a trovarmi - ma non spesso quanto te, nonostante ancora non ti avessero posto alcuna domanda, o almeno, non l’avevano fatto nella mia stanza.
E poi, avevi cominciato a parlare, quelle rare notti che ti permettevano di rimanere al mio fianco, stringendomi la mano e a volte appoggiando la fronte accanto alle nostre dita intrecciate, sulle coperte che sapevano d’ospedale, ma non sembrava importartene molto.
Avevi bisogno della mia vicinanza tanto quanto io avevo bisogno della tua.
“Ciao, Jin.
Come stai oggi?
Immagino... che tu stia come ieri.
Sono tornato qui anche oggi, ho pensato che la mia voce potesse tenerti compagnia.
Alcuni dei medici dicono che è una sciocchezza, ma altri dicono che, da quando vengo da te tutti i giorni a parlarti, reagisci un po’ di più agli stimoli.
Forse non servirà a nulla, ma, in ogni caso, non riuscirei a rimanere a casa da solo, a non fare niente, mi sembra... di impazzire.
Mi machi da morire, lo sai?
Forse proprio per il fatto che tu non riesca a sentirmi, riesco a dirti molte più cose, forse se tu in questo momento mi stessi guardando, me ne vergognerei a morte.
Mi hanno messo accanto due uomini della tua squadra, per proteggermi, dicono, per evitare che qualcuno cerchi di nuovo di rapirmi, o di finire il lavoro e uccidermi direttamente.
Loro non parlano mai, se non strettamente tra di loro, rimangono sempre in silenzio se io sono presente, e, quando devono guidarmi in mezzo alla folla, mi tengono per le braccia, stringendo tanto forte da farmi male.
Anche adesso sono fuori da questa stanza, e mi aspettano per scortarmi sino a casa, e poi fanno a turno per rimanere con me, in una poltrona fuori dalla mia camera da letto, con la pistola in pugno.
È inquietante, lo sai? Faccio fatica a dormire, sapendoli lì fuori con un’arma in pugno.
Mi manca, il tuo modo così particolare ed intimo di proteggermi, anche se ora sono confuso, e non sono più sicuro di volere che sia tu, quello che mi protegge.
Avevi detto che nessuno mi avrebbe mai sparato, ti ricordi?
E che tu dovevi starmi accanto solamente per fare paura alle persone, per far sì che non si avvicinassero troppo a me.
Ma adesso ho paura che ti sparino di nuovo, ho paura che possano farti del male.
E non ce la faccio.”
È vero, la tua voce mi aiutava a sentirmi ancora parte integrante del mondo, mi aiutava a sentirmi vivo, per quanto incredibilmente patetico potesse suonare.
Mi raccontavi tutto ciò che ti succedeva, non doveva essere semplice trascorrere una notte intera parlando da soli, senza alcuna risposta né garanzia che il tuo interlocutore potesse davvero sentirti, definirsi tale, quindi, per perdere tempo, ti soffermavi su ogni minimo particolare.
Era bello, però, vivere attraverso la tua voce dolce, era bello viverti in quel modo.
Avrei voluto darti un cenno qualsiasi, andavo avanti a temere che un giorno avresti dato ascolto a coloro che ti dicevano che era solamente una perdita di tempo venire a parlarmi, e non saresti più tornato.
E avevo cominciato a concentrare tutto me stesso in una sola parte del mio corpo, consapevole che non sarei mai riuscito a risvegliarmi di colpo, se il mio stato di coma era così profondo come sentivo dire dai medici - sì, cominciavo a crederci anche io, mal volentieri, ma la frustrazione che provavo nel non riuscire a dimostrare il fatto che fossi davvero vivo mi spingeva a dar loro ragione.
Cominciai a concentrarmi sulla mia mano stretta nella tua, sulle tue dita morbide che accarezzavano la mia pelle, quasi inconsciamente, sicuramente per abitudine.
A volte la sensazione di voler ricambiare la tua stretta era tanto forte e nitida che sentivo le dita muoversi, ma probabilmente era solo frutto della mia immaginazione, perché non coglievo alcuna reazione da parte tua.
Ma continuavo a concentrarmi, non riuscivo a darmi per vinto, non volevo darmi per vinto.
Ormai eri salvo, è vero, ero riuscito a proteggerti sino alla fine con l’ultimo respiro esalato per te, ma non volevo morire, non ero pronto, non ancora.
In un eccesso di egoismo da parte mia - lo ammetto - non riuscivo a fare a meno di pensare che non saresti mai stato protetto da nessun altro nello stesso modo in cui riuscivo a proteggerti io, con la stessa dolcezza ed intimità, senza che ne fossi spaventato, o che sentissi invasi i tuoi spazi.
Noi eravamo riusciti benissimo ad incastrarci l’uno nella vita dell’altro, ed in fretta avevamo creato una nostra vita, consapevoli che quella fosse una prerogativa delle vere coppie, ma con poca voglia di ammetterlo.
Poca voglia di ammetterlo probabilmente solo da parte mia, perché tu hai sempre voluto qualcosa in più, me ne accorgevo dalle due parole, dalle lacrime sottili che di tanto in tanto mi bagnavano il dorso della mano, quando vi poggiavi la fronte contro, sopraffatto dalle tue stesse parole, sussurrandomi che ti mancavo troppo, e non ce la facevi.
Non mi era chiaro cosa non ce la facessi più a fare, non volevo saperlo, non volevo scavare troppo nella mia mente per rendermi conto che il nostro rapporto a metà ti avesse fatto soffrire, volevo solamente svegliarmi, e non farti piangere mai più in tutta la tua vita.
Volevo proteggerti anche dalle lacrime, dalle lacrime che ero io a farti versare, e, più di tutto, volevo ricambiare la stretta della tua mano.
Ero io, a non farcela più.
“Uno stato di coma vero e proprio solitamente dura dalle due alle quattro settimane. Akanishi-san è in questo stato da ben quindici giorni ormai, dovremmo avere iniziato a vedere alcuni miglioramenti, ma...”
“Ma... dottore, lui non ha riportato traumi cranici, o... a cosa è dovuto il coma?”
“Non riusciamo a capirlo. Nel suo caso potrebbe essere stato un crollo del sistema nervoso dovuto all’assunzione di alcolici e medicinali, ma ritardato di molte ore. O uno shock emotivo molto forte. O tutto l’insieme.”
“Uno shock emotivo?”
“Come di qualcuno ferito gravemente che rinuncia a lottare alla vita. Ma poi, a metà strada, sembra cambiare idea, e rimane intrappolato in una sorta di via di mezzo.”
“Lui può... sentire quello che succede, secondo lei?”
“Abbiamo molte testimonianze di persone uscite dal coma che ricordavano quasi tutto ciò che era accaduto attorno a loro, comprese alcune cure mediche. Ma ne abbiamo altre di persone che non ricordano nulla. Non possiamo sapere davvero niente di certo.”
La prima volta, era successo all’inizio di una notte piuttosto fredda.
Avevi fatto più fatica del solito a convincere il personale dell’ospedale a lasciarti con me quella notte, l’idea che le tue parole non potessero raggiungermi né aiutarmi in alcun modo si stava diffondendo velocemente, dato che, a quanto pare, non riuscivano a riscontrare alcun cambiamento in me, alcuna reazione agli stimoli.
I tuoi capricci erano riusciti a convincere le infermiere per l’ennesima volta, però, sicuramente la tua fama e la tua bellezza contribuivano di molto alla loro decisione, ma non me ne lamentavo, sapevo che, in ogni caso, non ne saresti stato nemmeno troppo consapevole.
Mi avevi preso la mano, con una carezza, e mi avevi baciato le nocche, sedendoti con un fruscio di abiti invernali accanto a me, e mi avevi scostato i capelli dalla fronte, in mancanza di qualunque altro contatto, dal momento che molto probabilmente gran parte del mio viso era coperto dalla maschera del respiratore a cui ero attaccato.
Non avevi cominciato subito a parlare, ti eri limitato ad accarezzarmi le dita, rimanendo in silenzio, forse in attesa che le persone si allontanassero da davanti alla porta chiusa della mia stanza, non potevo saperlo, ma immaginavo che non ci fosse nessun altro, oltre a te, o non ti saresti spinto sino a baciarmi le dita.
E poi, dopo qualche istante, un sospiro e le tue solite parole, ciao, Jin, come stai? e ormai mi sembrava tutto familiare come i nostri baci sulla soglia di casa tua, quando eravamo troppi catturati l’uno dall’altro per riuscire ad aspettare che la porta fosse completamente chiusa alle nostre spalle.
Avevo ricominciato a concentrarmi sulla mia mano stretta nella tua, la sensazione di sentire le mie dita muoversi nonostante probabilmente non lo facessero era perenne, ma non volevo darmi per vinto.
E all’improvviso ti eri fermato in quel tuo piccolo fiume di parole lente, quasi come se stessi trattenendo il respiro, e mi avevi stretto la mano appena più forte.
“Jin?”
Avevo cercato di ricambiare, ancora una volta.
Quella tua reazione mi aveva acceso una piccola luce di speranza, per quale altro motivo avresti dovuto fermare il tuo discorso, che in quelle notti infinite non si era mai bloccato, se non quando cadevi addormentato con la guancia appoggiata alle coperte, accanto alla mia mano?
Non potevano esserci molti altri motivi, poteva essere solamente quello, oppure, qualche peggioramento nelle mie condizioni di cui non potevo rendermi conto.
Però avevo provato a stringerti ancora una volta la mano, più forte, sentendo le mie dita muoversi, ma non riuscendo a capire se fosse o meno un’impressione sino a quando non sentii la stretta della tua mano, ed uno strano sospiro, come un singhiozzo, come se non avessi trattenuto più le lacrime e l’ansia.
“Jin...”
Mi avevi sfiorato la fronte con una carezza leggera, e le sensazioni che provavo sembravano diventare sempre più nitide.
E, se morire mi era sembrato piacevole come una liberazione, nel sentire ogni segno di dolore sparire lentamente dal mio corpo, quelle sensazioni erano dolorose, facevano male, mi facevano venire voglia di mollare tutto, e smettere di lottare.
Diventavo sempre più consapevole del mio stato di immobilità in quel letto, mi sentivo le gambe deboli, un dolore forte allo sterno, prurito, forse a causa di alcune fasciature, il fastidio che mi provocava la maschera del respiratore.
Ma non riuscivo a lasciarti andare, non quando la tua mano ricambiava con tanta forza la stretta più debole della mia, e cercai di muovere anche l’altra mano, mentre ti sentivo muoverti appena accanto a me, con un fruscio di abiti.
Ma non volevo mollare, stavo tornando alla vita, e lo stavo facendo solamente per te.
Qualche istante dopo, sentii la porta della mia camera aprirsi, riempirsi di voce, forse dovevi aver premuto il pulsante del soccorso, perché solitamente nessun medico veniva a visitarmi nel cuore della notte, facendo così tanto rumore.
“Yamashita-san? Cos’è successo?”
Ti avevo sentito trattenere il respiro, ma non mollavi la stretta della mia mano, non la allentavi nemmeno.
Le tue dita avevano formato uno strano intreccio con le mie, ma sentivo la mano lievemente sollevata dalle coperte, forse eri in piedi, ti eri agitato, ti avevo fatto agitare.
E, per qualche istante fugace, la mia mente venne attraversata dal pensiero che, in verità, non stessi affatto tornando alla vita come credevo, ma stessi morendo, e che i segnali che io avevo interpretato come positivi fossero solo uno scherzo della mia mente, e che tu non avessi percepito alcuna stretta da parte mia.
“Mi ha stretto la mano... due volte. Me la stringe... e non me la lascia... e... e non l’aveva mai fatto...”
Ed invece era vero, ero davvero riuscito a trasmetterti la mia volontà di tornare a vivere, tornare a farlo per te, perché non riuscivo ad immaginare qualcuno che riuscisse a proteggerti come avevo fatto io per tutti quei mesi - e nemmeno volevo farlo, nemmeno volevo che qualcuno potesse irrompere nella tua vita come avevo fatto io, riuscendo a cogliere la dolcezza dietro a quel tuo carattere apparentemente da ragazzino viziato, perché, al solo pensiero, mi sentivo ribollire il sangue nelle vene.
Avevo sentito le voci di quelle persone esplodere in un piccolo brusio, il fruscio dei loro camici bianchi che puzzavano di disinfettante ad indicare che si erano avvicinati di più al mio letto, circondandolo, forse cercando di farti spostare, di farti allontanare.
Tu, però, avevi stretto la mia mano con più forza ancora, tirandola appena, forse a causa della piccola distanza aumentata tra noi, per i passi indietro che ti avevano obbligato a fare.
“No, io rimango qui. Con lui. Lui... si sta svegliando vicino a me, se mi allontano, magari non... non gli va più...”
“Yamashita-san, non funziona esattamente così, lei non... non dovrebbe rimanere qui, dobbiamo fare alcuni test, sentire il battito cardiaco, e...”
Avevi avvolto la mia mano con entrambe le tue, sentivo il calore quasi assente dei tuoi palmi, avevi freddo, o forse erano quei brividi dati dall’ansia, dall’anticipazione, dalla paura o dalla speranza.
La stessa sgradevole sensazione del mal di pancia che ci coglieva da piccoli, quando non riuscivamo a capire cosa ci sarebbe successo di lì a poco, perché gli adulti non ce ne volevano parlare.
“No, io rimango qui. Lui non... mi lascia, io rimango qui.”
Avevo sentito dei sospiri rassegnati, probabilmente non ti stavi facendo una buona fama all’ interno dell’ospedale, imponendo al personale che stava semplicemente cercando di fare il proprio lavoro i tuoi capricci, sicuramente consapevole che non avrebbero avuto il coraggio di negarti qualche richiesta, soprattutto se era così apparentemente innocente come il rimanermi accanto.
Avevano comunque continuato ad affollare il capezzale del mio letto, mi sentivano il polso, sfioravano la mia mano libera cercando di monitorarne i movimenti e le reazioni, mi pungevano le braccia con il solito ago sottile, ma in quel momento, a differenza di tutte le altre volte, riuscivo a sentire dolore, tanto da spingermi a ritrarre le braccia con piccoli scatti, deboli, sicuramente, ma i medici e gli infermieri ne sembravano soddisfatti.
“Bravo ragazzo... proviamo a staccare il respiratore.”
La voce profonda e rassicurante del medico mi raggiungeva da troppo vicino, forse mi stava osservando, o forse mi puntava contro una luce di qualche tipo, non riuscivo a capire se fosse solamente una sensazione.
Sentivo la mia bocca che veniva liberata dal peso di quell’aggeggio, un peso sul petto nel momento in cui i miei polmoni avevano ricominciato a funzionare autonomamente, un dolore forte, ma quasi piacevole, dell’aria che avevo bevuto tutta d’un fiato.
La luce era vera, vivida e fortissima, e sagome bianche e sfocate affollavano la stanza, non sarei nemmeno riuscito a capire dove fossi, se solo non fossi stato sveglio per tutti quei giorni.
“La pupilla è vigile. Risponde agli stimoli dolorosi. Le funzioni vitali sono stabili senza l’ausilio dei macchinari. Responso medio - alto sulla scala di Glasgow.”
Chiusi immediatamente entrambi gli occhi, non appena il medico smise di tenermi la palpebra aperta e mi fu permesso di farlo, quella luce accecante mi dava fastidio, mi faceva male.
Non riuscivo a capire alla perfezione tutto quell’ammasso di termini medici, ma le mie condizioni erano in miglioramento, questo, almeno, riuscivo a capirlo.
“Sta strizzando gli occhi...”
Era la tua voce, sentivo il tuo sguardo fisso sul mio volto come una carezza, così dolce e confuso come lo era il tono della tua voce in quel momento, forse non riuscivi a capire con esattezza la situazione in cui ti trovavi, ma non abbandonavi l’intreccio delle nostre dita, mi stringevi, ti aggrappavi quasi a me, accarezzando la mia mano come se bastasse quello a ridarmi del tutto la vita.
E forse, sai, bastava veramente solo quello.
“È un buon segno, se la luce gli ha dato fastidio. Sta riprendendo coscienza, forse il processo sarà lento, ma è rimasto in coma meno di venti giorni, si riprenderà. Non ci resta che aspettare.”
La luce mi faceva male, non riuscivo ad aprire gli occhi, e faticavo a muovere gli arti, ma ero sveglio, e avrei potuto fare quei movimenti in qualunque momento, se mi fossi sforzato.
Il semplice fatto di poterti dimostrare quanto tenessi alla tua presenza cercando la tua mano, stringendola, non lasciandola più andare, mi faceva sentire meglio, e, anche quando la maggioranza dei medici erano usciti dalla mia stanza e ti avevo sentito sederti nuovamente sulla sedia accanto al mio letto, non avevo smesso di stringerti, per dimostrarti che ti volevo accanto a me.
“Hoshino-san, avvisi per favore i familiari che Akanishi-san si è svegliato.”
Una breve risposta in assenso ed i passi che si allontanavano di un’altra persona, avevo sospirato, ed un istante dopo avevo sentito la tua mano sulla fronte, a scostarmi i capelli ancora una volta, forse non ne avevo realmente bisogno, ma ti piacevano, i miei capelli.
L’ho sempre saputo.
“Yamashita-san, forse sarà inutile dirle che dovrebbe lasciare la stanza... quindi le dico direttamente di premere il pulsante di emergenza in caso di qualche cambiamento, sono di turno tutta la notte.”
Non avevo sentito la tua risposta, conoscendoti avevi semplicemente annuito, preferendo evitare di parlare se non nei casi in cui non fosse strettamente necessario - come quando dovevi cercare di far capire che non volevi abbandonarmi, che volevi rimanermi accanto, qualunque cosa avrebbero cercato di dirti per farti desistere.
I miei occhi chiusi tornarono a rilassarsi, qualcuno doveva aver spento la luce, e la mia stanza doveva essere tornata nella penombra dei lampioni e della notte, e sì, in quel momento, potevo cercare di aprirli.
Non ci ero mai riuscito prima, e la sensazione era stranissima, nonostante fossi vigile ormai da giorni interi, non ero mai riuscito ad aprire gli occhi, a muovermi, a dare un cenno delle mie condizioni, sino a quella sera.
E sentivo che avrei potuto spingermi oltre, quella sera, accanto a te, mentre muovevo le dita tra le tue mani, per farti sentire la mia presenza.
Cercai di prendere un respiro profondo, mentre sentivo il letto muoversi appena sotto il tuo peso, ti eri seduto accanto a me, posandoti l’intreccio delle nostre mani su una gamba, forse guardandole, forse piangendo.
La gola mi bruciava, e mi faceva male, era secca come se non bevessi da molto tempo, e probabilmente sapevo che era vero, a rigor di logica dovevo essere stato alimentato e dissetato tramite flebo per settimane.
Cercai anche di aprire gli occhi, e facevano male, bruciavano.
Per qualche secondo mi chiesi se un bambino che nasce prova le stesse sensazioni di inadeguatezza e bruciore, oltre alla volontà così forte di tornare nel calore di quell’incoscienza in cui si trovava prima della nascita - ma sicuramente, un neonato aveva molti meno motivi di me per venire al mondo, io avevo te, ed era il motivo più grande a cui riuscissi a pensare, in quel momento.
Provai ad aprire gli occhi ancora una volta, bruciavano, e non vedevo niente di più che ombre scure e sfocate, ma vedevo.
Vedevo te, il tuo sguardo basso sulle nostre mani giunte, i tuoi capelli morbidi, la tua nuca, i contorni sfocati di quel viso che non mi era mai sembrato così bello, nonostante riuscissi a distinguere a fatica i tuoi connotati.
“...i...”
Non riuscivo a parlare, ciò che voleva essere il tuo nome era solamente una vocale pronunciata con voce roca, come un rantolo, ma era riuscita ad attirare la tua attenzione.
Ti eri voltato verso di me, avevi gli occhi lucidi, e pieni di lacrime pronte ad esplodere, mi avevi baciato le dita, mi avevi sfiorato il viso.
“Sono qui... Jin, sono qui... mi vedi?”
Solo un’altra vocale, un sì, un no, qualcosa di incomprensibile persino a me stesso, però ti vedevo, la tua figura appannata si stagliava quasi, nella nebbia dei miei occhi sfocati, ma era abbastanza.
Non sarei mai riuscito a distinguere una lacrima in quella nebbia di rinascita, se non avessi già saputo alla perfezione qualunque cosa di te - il modo in cui trattieni il respiro quando qualcosa ti stupisce, il modo in cui lo abbandoni in un sospiro tremulo quando invece ti commuove, i movimenti impacciati delle tue mani, quando stai piangendo.
Avevo capito che stavi piangendo senza che riuscissi a vederlo con chiarezza, ma le tue dita che tremavano sulla mia guancia mi parlavano sin troppo chiaramente della tua commozione.
Mi avevi sfiorato le labbra screpolate, reprimendo l’ennesimo singhiozzo.
Volevo baciarti, ma non sarei mai riuscito a fartelo capire.
“Non parlare... va bene? Io... rimango qui con te. Tutto il tempo che vuoi. Tu... riprenditi con calma.”
Mi piaceva ascoltare la tua voce dolce.
Avevi ricominciato a parlare, di tutto, con la voce rotta dal pianto leggero e le nostre mani legate.
Mi accarezzavi il viso, mi guardavi, piangevi più forte nei momenti in cui mi sforzavo di sorridere, ed in quelli in cui ti stringevo la mano per comunicarti una risposta che non riuscivo a dirti a parole.
Mi sarei addormentato ad occhi aperti, solo per poter continuare a guardarti per sempre.
L’isterismo dell’andirivieni nella mia stanza nei giorni successivi al mio risveglio - o, meglio, al giorno in cui avevo finalmente riaperto gli occhi - mi sfiancava.
I medici non facevano altro che farmi test su test per controllare le mie funzioni vitali e le mie capacità cognitive, mi mandavano in giro per l’ospedale a fare radiografie e tac di ogni tipo, probabilmente temevano che avrei riportato alcuni danni permanenti al cervello.
Venne fuori che il mio stato di coma era stato indotto da qualcosa di diverso dal mix letale di alcolici e medicinali che avevo assunto, di cui trovarono poca traccia nel mio sangue, dato che avevo rigettato tutto in quel parcheggio davanti alla fabbrica.
Era qualcosa di cui si sentiva parlare poco, un probabile shock, una rinuncia fisica a mantenermi sveglio e vigile, per qualche motivo che mi era ancora del tutto estraneo.
Era stato un coma voluto più dalla mente che dal fisico, mi spiegarono, e fu quello il motivo per cui riuscii a recuperare tutte le mie funzioni in pochissimo tempo, dato che non avevo bisogno di una vera e propria riabilitazione, quanto più di una ripresa, di un ritorno alla vita dopo un lunghissimo sonno.
Non ti avevo più visto dalla notte del mio risveglio, non erano passati che pochi giorni solamente, certo, ma ormai mi ero abituato ad averti accanto a me tutte le notti, e non riuscivo a fare a meno di pensare che per qualche motivo non ti andasse ti affrontarmi da sveglio.
Per fortuna appresi dalla piccola televisione che mio fratello mi aveva portato in camera, che l’edificio dove si trovava il tuo appartamento era stato preso sotto assedio dalla stampa, decine di giornalisti erano in attesa di pettegolezzi, da quanto era trapelata la notizia del risveglio dal coma della guardia del corpo che ti aveva salvato la vita, e con cui si diceva avessi sviluppato un rapporto sin troppo intimo.
Non potevo saperlo, ma pare che al momento della nostra uscita da quella fabbrica abbandonata, insieme alla polizia fossero accorsi anche moltissimi giornalisti, forse aspettando uno scoop su un salvataggio sensazionale, ed ottenendo invece le tue lacrime disperate sul mio corpo ferito, troppo disperate, perché fossero rivolte ad un uomo il cui lavoro consisteva nel morire per te.
Mi faceva male sapere che involontariamente il nostro comportamento ti avesse spinto ad essere segregato in casa, lontano da me, mi faceva male saperti con persone che non sarebbero mai state in grado di proteggerti da tutti quei giornalisti, in caso avessi voluto uscire di casa.
Non appena riuscii a recuperare quasi completamente l’uso della parola - nonostante la mia voce sembrasse più roca, forse stanca, o come se fosse sempre stata usata molto poco - cercai un modo di mettermi in contatto con te, e fu mia madre stessa a dirmi che avrebbe pensato lei ad un modo per fartelo sapere.
Sai, dicono che le madri di certe cose capiscano tutto al volo - e lei, di noi, secondo me aveva capito tutto sin dall’inizio.
Molto probabilmente aveva capito tutto anche da prima di me.
I miei ritmi avevano ricominciato ad essere più simili a quelli di un essere umano che a quelli di un animale in pieno letargo, di notte dormivo, sonni profondi ma troppo agitati, sognavo, e al mio risveglio non ricordavo nulla.
Avevo anche ricominciato a mangiare, non dipendevo più esclusivamente dalla flebo per potermi nutrire, nonostante quei piccoli tubicini continuassero a portare nel mio braccio medicinali di cui la maggioranza delle volte nemmeno conoscevo la funzione.
Provavo uno strano disinteresse verso le mie condizioni fisiche, avrei quasi preferito non svegliarmi mai del tutto, se il mio stato di veglia non aveva fatto altro che allertare la stampa sulla tua vita privata, impedendoti di venire da me.
Ero quasi certo che il personale dell’ospedale temesse l’ennesimo colpo di testa, da parte mia, perché venivo sorvegliato costantemente notte e giorno, da qualche infermiera che in alcuni casi rimaneva nella mia stanza, fingendo di controllare le flebo e la cartella clinica, altre rimaneva all’esterno, pochi passi fuori dalla porta, non potevo vederla, ma sapevo bene che era lì, sentivo la sua voce di tanto in tanto, scambiare qualche parola con le colleghe che correvano da una camera all’altra.
Probabilmente temevano che sarei scappato di nuovo, come la prima volta che ero stato ricoverato, non capivano che non avrei comunque avuto alcun motivo per farlo, ora che sapevo che tu eri al sicuro, anche se lontano da me.
Non ne avrei nemmeno avuto la forza, in verità.
Non era ancora passato nessuno della mia squadra in ospedale, non sapevo quale fosse la mia posizione in quel momento, non ero nemmeno in condizioni di cercare di ritrattare le eventuali decisioni che potevano essere state prese durante le due settimane in cui ero rimasto in coma, preferii aspettare.
Ma ogni notte, finito l’orario delle visite, non facevo altro che sperare di sentire la tua voce dolce in quei capricci ai quali ormai avevo fatto l’abitudine, che insistevi con le infermiere perché ti lasciassero rimanere accanto a me.
E un po’ lo sapevo di essere un illuso, non ti avrebbero mai lasciato uscire per farti correre da me, non ti avrebbero mai dato in pasto ai giornalisti in quel modo, non in quel momento, in cui la tua notorietà era addirittura aumentata, dopo il rapimento, e non si poteva certo dire che si trattasse di una fama del tutto positiva.
Mi sbagliavo, evidentemente.
Era sera tardi, mia madre e mio fratello mi avevano salutato da poco, senza lamentarsi eccessivamente per la mia pochissima voglia di parlare, forse imputandola al risveglio ancora troppo recente dal coma, ma avevano entrambi cercato di farmi mangiare qualcosa del disgustoso pranzo precotto che l’ospedale insisteva nel chiamare cibo.
Nessuno accendeva più la luce nella mia stanza, intuendo che potesse dare fastidio ai miei occhi non ancora del tutto abituati a rimanere aperti per lungo tempo, ed ero avvolto in quella penombra fatta di lampioni deboli e sole che tramonta.
Guardavo il soffitto bianco, indeciso sul se volessi lasciarmi ricadere in quei sonni pesanti e agitati in modo da far passare più velocemente il tempo in quelle mura che mi erano diventate troppo strette, con la speranza di riuscire ad accelerare la mia guarigione.
“Scusi... mi scusi, l’orario delle visite è finito, non può entrare in quella stanza a meno che non sia un parente...”
La voce dell’infermiera nervosa che era stata messa a controllare che non tentassi un’altra fuga mi aveva distolto dai miei pensieri senza un fine, ma, quella che aveva veramente attirato la mia attenzione, era la tua voce.
“Io sono un parente... oh, be’, no, non lo sono, ma sono venuto qua di notte per settimane, non si ricorda di me? Sono Yamashita, devo vederlo, devo parlargli...”
Mi ritrovai a sorridere, i muscoli del viso facevano quasi male, in quel movimento che non ero più abituato a fare.
Mi mancavano, i tuoi capricci.
“Mi dispiace, Yamashita-san, ma le devo chiedere di allontanarsi. Akanishi-san ha bisogno di molto riposo per recuperare al meglio...”
“Oh, andiamo. Non gli darò fastidio, sono sicuro che sarà contento di vedermi. La prego. Non rimarrò molto. La prego.”
Potevo quasi vedere le tue belle labbra imbronciate, l’ultimo tentativo per riuscire ad intenerire la persona che ti trovavi davanti - non te l’ho mai detto, ma probabilmente avresti dovuto usare di più il tuo fascino e la tua bellezza, della tua dolcezza.
Non tutti sono sensibili come me ai tuoi sguardi dolci.
“Vado a parlare con Miyajima sensei, è il medico che ha in cura Akanishi-san. Gli chiederò cosa... cosa devo fare. Lei rimanga qui.”
Evidentemente l’infermiera che mi avevano messo di guardia non aveva mai avuto a che fare con te prima di quel momento, se pensava davvero che sarebbe bastato il pensiero che fosse andata a parlare con il medico che mi aveva in curo a mantenerti fuori dalla mia stanza.
Ti vedevo annuire, nella mia mente, inchinarti lievemente in segno di rispetto, aspettando quei pochi secondi che sarebbero serviti alla donna per percorrere tutto il corridoio e svoltare l’angolo, prima di aprire la porta della mia stanza.
E così avevi fatto, la maniglia che si inclinava e tu che entravi velocemente, richiudendola alle tue spalle in pochissimi istanti, mantenendo lo sguardo basso, non del tutto certo di voler immediatamente vedere cosa ti avrebbe atteso in quel letto di ospedale.
Ma ero io, Pi, ero solamente io.
“Pi...”
Il suono di quell’unica sillaba sembrò scatenare in te una serie infinita di emozioni.
Riuscì a catturare la tua attenzione, avevi sollevato immediatamente lo sguardo su di me, forse ti eri aspettato di trovarmi addormentato, per quel motivo te la stavi prendendo con comodo, prima di avvicinarti al mio letto.
Avevi gli occhi lucidi, quasi increduli, quel sorriso tremante sulle labbra che non sapeva bene il motivo della propria esistenza, e forse non lo sapevi nemmeno tu, ancora non avevi capito se fosse lecito o meno sorridere.
Avevi sospirato, era a metà tra un respiro troppo forte ed una risata nervosa, e ti eri distaccato di un passo dalla porta, lasciato che quel sorriso illuminasse di più il tuo volto - eri dimagrito, mi sembravi stanco.
“Jin... allora... allora è vero, riesci di nuovo a parlare...”
Ti avevo sorriso, quel sorriso doloroso che non facevo da troppo tempo, che mi tendeva le labbra e mi faceva male, quasi da farmi temere che mi avrebbe rotto la pelle - ma non mi interessava, avevo bisogno di farlo, di sorriderti.
“Ma certo, stupidino. Non sono mai state così gravi le mie condizioni.”
E mi conoscevi sin troppo bene, hai sempre saputo che ho la tendenza a minimizzare tutto quello che mi succede, e forse per quello ti era sfuggita quell’altra mezza risata, mentre ti avvicinavi a me ancora di un passo, incerto, come se non sapessi davvero cosa ti era permesso fare e cosa no, ora che ero sveglio, e cosciente.
Avevo capito che aspettavi un cenno da parte mia, ed avevo allungato una mano verso di te, l’altro braccio era ancora immobilizzato dalla flebo, e cercavo di non rischiare di muoverlo troppo, sapevo che da quel lato del mio corpo avevo già una ferita da arma da fuoco ed un paio di costole rotte, era meglio evitare di sforzarsi.
Tutta la tensione che vedevo in te si era sciolta, ed avevi mosso quegli ultimi passi che ci separavano più velocemente, prendendomi la mano, stringendola, sedendoti sul mio letto, accanto a me.
“Ce ne hai messo di tempo, Pi.”
Non mi bastava più, quel contatto, non mi bastavano i tuoi occhi e le nostre mani, avevo bisogno di te.
Ti avevo lasciato la mano, ignorando il tuo sguardo confuso, e avevo cercato i tuoi capelli, accarezzandoli, spingendoti ad appoggiarti alla mia spalla, sul lato del mio corpo ancora sano.
Avevi resistito per poco tempo, e ti eri abbandonato a me, chiudendo gli occhi e sospirando, stringendo con una mano un lembo di quella specie di vestaglia da ospedale che avevo addosso.
Volevo smettere di parlare, volevo solamente sentire il peso del tuo corpo addosso al mio, anche se qualche fitta lievissima di dolore mi dava l’allarme del non stare facendo una cosa troppo intelligente, ma mi piaceva, mi calmava.
Mi era mancato da morire il profumo dei tuoi capelli, ed avevo chiuso gli occhi anche io, accarezzandoli, sospirando.
“Scusa, Jin... io... volevo venire prima, ma non mi lasciavano uscire di casa, dicevano che era... pericoloso, sai, per la mia reputazione. Sono scappato via.”
Avevo aperto appena un occhio, ricordandomi improvvisamente quanto fosse stato difficile per me tenerti sotto controllo prima che il nostro rapporto si approfondisse in quel modo, eri una persona importante, ma ti rifiutavi di far sì che la tua vita fosse soggiogata dai tuoi doveri.
E avevo sospirato di nuovo, forse avevo scosso la testa, ma non riuscivo a non sorridere.
“Sei... scappato? Vuoi dire che sei arrivato sino a qui senza le tue guardie del corpo?”
Non riuscivo a vederti con chiarezza in viso, ma potevo quasi percepire il broncio leggero sulle tue labbra, mentre annuivi, e ti stringevi di più a me, tornando in un istante quell’adorabile ragazzino troppo dolce e un po’ viziato - viziato da me, più che altro, perché non ammetterlo.
E mi era quasi sfuggita una risata, di quelle lievi per paura che possano fare male al cuore, mentre ti colpivo la nuca con un colpo leggerissimo, prima di tornare ad accarezzarti i capelli, ad occhi chiusi.
“È pericoloso. Quando dovrai andare via, dobbiamo avvisare che ti vengano a prendere...”
“Devo proprio andare via?”
E mi avevi strappato l’ennesimo sorriso, sei sempre stato bravissimo a ribaltare il mio umore con una parola ed un gesto appena più gentile, e, più passavano i secondi in cui ti tenevo stretto a me in quel modo, più mi sembrava che solo in quel momento stessi davvero tornando alla vita, più mi sembrava ridicolo il fatto che non avessimo mai voluto dare veramente un nome alla nostra relazione.
“No. No, non devi.”
Avevo appoggiato le labbra contro la tua fronte, mentre ti stringevi di più a me, non era da noi essere così vicini senza lasciarci trascinare dalla passione, dall’innegabile attrazione fisica, ma, fortunatamente, anche noi ci rendevamo conto di quanto quello non fosse il momento adatto.
Ero rimasto in silenzio, ad accarezzare i tuoi capelli e godermi il tuo respiro lento contro il mio collo, consapevole che tanto saresti stato tu il primo a prendere la parola, succedeva sempre, quando rimanevamo in silenzio l’uno addosso all’altro.
Non ti dispiacevano i nostri momenti di silenzio, non erano mai imbarazzanti, però li usavi sempre per scomporre i nostri comportamenti, per analizzarli, per poi venire fuori all’improvviso con qualche domanda che sicuramente ci avrebbe messo in crisi, obbligandoci a renderci conto di quanto le cose tra noi si fossero fatte serie.
Ma, in quel momento, non mi preoccupava, mi credi?
“Ne, Jin... mi sei mancato. Mi sei mancato da morire.”
Mi piaceva, la tua voce, quando eri così dolce.
Non la alzavi mai, rimaneva un sussurro basso, consapevole che tanto fossimo così vicini che avrei sentito anche un solo sospiro, contro il mio collo ancora caldo del sonno lungo settimane da cui mi ero svegliato da pochi giorni.
Ti avevo accarezzato i capelli, la schiena, non avevo detto niente, mi ero limitato a posare ancora una volta le labbra contro la tua fronte, ad occhi chiusi, in silenzio.
“Ho avuto così tanta paura... non avrei saputo cosa fare, senza di te. Sei... stato uno stupido.”
In un altro momento, probabilmente avrei cercato di alleggerire la tensione, di ritorcerti contro quella presa in giro per cercare di farti ridere, di farti dimenticare i discorsi troppo seri.
Ma in quel momento non ci riuscivo, non ne avevo la forza - forse perché quel discorso era troppo serio, troppo reale, perché potessi dimenticarmene.
“Pensavo che l’avessi capito... quando ti ho detto che non volevo più che fossi la mia guardia del corpo. Pensavo che avessi capito che non voglio che tu muoia per me. Perché l’hai fatto, Jin?”
Non avevi alzato la voce, però quel sussurro basso era lievemente rotto dall’ombra di un pianto che ti stava per esplodere dagli occhi, ti sentivo tremare sul mio petto, nel mio mezzo abbraccio.
E non avevo mai avuto paura di guardarti negli occhi, l’avevo sempre adorato, riuscire a specchiarmi nelle tue iridi scurissime e trovare tutto di te, e tutto ciò che pensavi di me, e non vedere mai nulla di negativo.
Ma quella volta, avevo avuto paura, di ciò che avrei trovato.
Mi ero morso le labbra, allontanando lievemente il viso dal tuo, guardando il nulla che riuscivo a scorgere al di là della finestra, lampioni, finestre di edifici pieni di vita, i rumori della notte.
“Non sarei mai più riuscito a guardarmi allo specchio, se non avessi nemmeno cercato di salvare l’uomo che amo.”
Era stata la prima frase che avevo detto per intero, senza prendere fiato, senza sentire la mia voce spezzarsi o arrochirsi a causa delle mie condizioni.
Avevo sentito il mio cuore tremare, come mai mi era successo prima, e mi ero dato dello stupido, mille volte, per essermi reso conto solo in quel momento di ciò che provavo per te.
Non avevo mai ammesso prima a me stesso che quei sentimenti potessero essere così profondi, non avevo avuto modo di prepararmi all’impatto che quella frase avrebbe avuto su di me, piuttosto che su di te.
Ero riuscito a cogliere impreparato persino me stesso.
“Jin...”
E non riuscivo ancora a guardarti negli occhi, ti eri sollevato lievemente, mi guardavi, ed io guardavo altrove.
Avevo paura, lo sai?
Non so di cosa potessi avere paura, a rigor di logica mi sarei dovuto rendere conto da ormai troppo tempo di cosa era davvero diventato il nostro rapporto - ma avevo paura.
Sino a quando non sentii le tue dita sottili sulla mia guancia, il modo gentile in cui mi obbligavi a guardarti di nuovo, ad incontrare i tuoi occhi, scuri, lucidi, pieni di qualche sentimento talmente bello da sfuggire alla mia comprensione, pieni di un sorriso che non ti appariva sulle labbra, ma era lì.
Eri bellissimo, e non lo eri mai stato così tanto.
“Ripetimelo... per favore...”
Avevo sorriso, avevo appoggiato la fronte contro la tua, ti avevo stretto a me.
E non avevo più paura.
“Io te l’ho già detto una volta... ora tocca a te.”
Ero riuscito a farti ridere, piano, contro le mie labbra, e mi sembravano passati secoli dal nostro ultimo bacio, sai?
Secoli dall’ultima mattina in cui ci eravamo svegliati insieme, secoli da quando rimanevi per ore nudo tra le mie braccia a ripassare i discorsi che avresti fatto a quella maledetta conferenza stampa, secoli da quando fingevamo di essere solo due semplici amici che si concedevano qualche beneficio ogni tanto.
“Non c’è bisogno che io te lo dica... stupido. L’hai sempre saputo...”
Era vero, ma non volevo stare a ricercare nella mia mente l’ennesimo futile motivo per cui avevo sempre rifiutato di rendermene conto.
Non quando tutto ciò che dovevo fare era annullare quella distanza tra noi, e baciarti, dopo tutti quei secoli.
E quando ci eravamo separati, ci eravamo guardati negli occhi per altri momenti infiniti, esattamente come la sera di quel nostro primo bacio, mentre mi rendevo conto di quante cose mi fossi sempre rifiutato di dirti.
Ero persino riuscito a farti arrossire, a farti abbassare lo sguardo con quella timidezza che non avevi più mostrato davanti a me, ma mi piaceva da morire.
“Perché mi guardi così? Sono... distrutto, lo so, non dormo da giorni, e...”
Ti avevo zittito con l’ennesimo bacio, tu, e la tua mania di non renderti conto di quanto fossi incredibilmente perfetto.
Ed io, che non te l’avevo mai detto prima.
“Sei bellissimo, invece. Non sei mai stato bello come adesso.”
Ed un altro sorriso, quel sorriso per cui avrei fatto di tutto - per cui già avevo fatto di tutto.
fine.
Spero vi sia piaciuta! ♥