PiX.1 - Snapshots

Sep 24, 2009 12:48




Ciao, piccirilli. Ce l'ho fatta. Non sono completamente soddisfatta del risultato, ma posto ora o tacerò per sempre XD
Buona lettura.

Dopo l' intro della volta scorsa...


Trip Fontaine, “Snapshots”




Pix cammina per la strada col naso in aria, a volte. Le piace sentire il sole sulla nuca, la pioggia sulla faccia, il vento tra i capelli e nessun pensiero nero ad artigliarle il cervello.




Però ci sono altre volte. Altri giorni, quelli black and blue - color livido, color paranoia - in cui magari i raggi in aria sono uguali, l’atmosfera vibra lo stesso, ma lei no. Sono le volte in cui la gabbia della memoria si spalanca di botto, uno scricchiolio dei cardini, un sussulto al vecchio lucchetto arrugginito, e tutto quello che non è mai riuscita a ricordare per intero riaffiora con violenza.




E’ allora che le cedono le gambe dall’angoscia mentre una pioggia di istantanee mentali le insegna la paura. E’ allora che la rabbia se la mangia, per reazione, e gioca a fracassare molotov di birra e stracci contro i muretti dietro la scuola e contro le macchine parcheggiate maniacalmente lungo i vialetti. E’ allora che tremante decide di devastare la sua lucidità innata come se sapesse che morirà domani. Perché un giorno domani verrà. Tanto vale farsi trovare pronti. E vaffanculo.




Io la conoscevo, Pix. Con me è stata quello che non era stata mai. Mi ha fatto il regalo più grande, l’unico possibile. Senza sputi. Senza insulti. Con infinito amore. Quello aveva, Pix. Quello e il suo soprannome del cazzo, perché un nome vero, beh, in certi posti costa troppo. E con la crisi che c’è, meglio essere il folletto di qualcuno che uno zero calciato sul marciapiede da chiunque. Ma tanto che ti frega.




Magari si chiamava Christine. Magari, in un giorno qualunque di un mese qualunque dell’inizio ridicolo degli anni Novanta - la data non importa, non c’è scadenza, solo ricordi, e la gastrite ti verrà lo stesso - un’ostetrica l’ha tolta dalla culletta sporca e deposta in un caldo bandolo di frasi di circostanza e luoghi comuni tra le braccia di qualcuno che la preferiva Sylvia, Justine, Lala, Elaine. Patricia. Nora. O magari no. Magari già allora era un fagottino di dolore, piccolo fardello di responsabilità e pena per qualcuno che non aveva la minima intenzione di riconoscersi l’onere - ma aveva ripiegato su di lei in lutto per, che so, l’amato cocker spaniel.




Questo Pix non l’ha mai detto, comunque. Non lo sapeva, forse, o non voleva saperlo. Quello che condivideva certe notti, quando scendevamo a fissare il lago, oppure davanti alla vodka da due soldi che recuperavo io al negozio, era poco. Era molto anche, perché apriva la sua testa e la riversava nella mia - ma era poco, tutto sommato. Quello che so lo caccio fuori, ma come è cominciata - chi sia il colpevole, chi abbia osato tirarla giù dalla sua nuvola verde in mezzo a questo mare di merda che l’ha accolta così male - io questo proprio non lo so. Scusami.




Aveva un piano. Mica sempre: con lei era così, c’erano mattine di proposte e parole e fiumi di progetti esilaranti e folli e poi pomeriggi morti di rabbia di fame di sonno di noia di ansia di voglia di vomito e lacrime. Era difficile seguirla sempre, ma io l’ho fatto - a ogni impennata, a ogni dondolio.




Lei sorrideva, alla fine. Mood swings, si dice, per gli sbalzi come i suoi: perché il suo umore era sull’altalena, sempre.




E’ morta il ventisette aprile di quest’anno, sotto una pioggia battente.




O forse è lontana, con un altro nome e un nuovo piano, in una città diversa da certi posti, e vive e ride e corre e sogna. E spera, fedele al suo colore.




Ma per me è morta quel giorno, il giorno del legno marcio e delle assi scricchiolanti, il giorno del sangue in fondo alle scale, il giorno in cui ho perso due denti e l’equilibrio e il nome. Perché io ce l’avevo, quello. April. Ha. Che fottutissima ironia. Chi è che ride, adesso?




Ma tornerà a prendermi un giorno - me l’ha promesso.

Ogni giorno guardo fuori e aspetto l’ora matta, quella in cui lei parlava e io ascoltavo e poi la merda intorno sembrava puzzare di meno, sembrava meno merda; l’ora nostra, l’ora in cui verrà - e ogni giorno le tre dopo mezzanotte diventano le quattro, le cinque, le sei. Albeggia. Piango. Ed è ora di un’altra pasticca del cazzo. E alla fine muoio un po’ anch’io.

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