[Fullmetal Alchemist] La materia dei sogni 2/2

Dec 02, 2010 00:18

Fandom: Fullmetal Alchemist
Titolo: La materia dei sogni
Beta: mikamikarin + caska_langley  + beyondthetime (che più che beta sono le anime sante che hanno seguito il parto fino alla fine dei suoi giorni!*ride)
Rating: PG13
Warning: Shounen-ai, Incesto, AU
Words: 12870 (fiumidiparole )
Note: Ho iniziato questa fic quasi per sbaglio, e alla fine è approdata qua. Come al solito devo ringraziare sia chi mi è stato vicino, sia la mia immensa pazienza e voglia che mi ha portato a finirla *ride* Perché stavo per mollarla a qualche migliaio di parole e per fortuna - o sfortuna a seconda del punto di vista, alla fine sono riuscita comunque a terminarla. E quindi niente, Elricest is the way e spero che vi piaccia :**
Introduzione: Edward è uno scrittore per passione, Alphonse un diciannovenne in pieno anno sabbatico. Dopo un anno e mezzo a girovagare per il mondo, Ed torna a casa per le vacanze natalizie, portandosi un segreto che Alphonse scoprirà leggendo tra le righe di un foglio stipato nella sua borsa. La casa è un riempirsi di felicità e fiabe della buonanotte, con il ritorno del maggiore dei due, Peter Pan alla ricerca della sua Isola che non c'è. E Al capisce che in Ed, lui, non riesce a vedere solo un fratello - e tutto per colpa di un sogno strano, con pasticceri che fan piovere dolci e un Edward Pan che vuole portarlo via, a casa.

Gifter: faechan, che ha fatto un lavoro divino e io la amo da morire *W*
Link al gift: Qui \*3*/
Link alla storia: 1 | 2

Il Big Ben rintocca le due del pomeriggio, scandendo la vita delle persone riverse sulla strada. Loro due sono così piccoli in mezzo alla folla, due punti di luce tra mille ombre affamate dopo il lavoro.
“Dovrebbe essere da queste parti…” mormora Ed a se stesso, guardando il volantino rosa tra le sue mani. Ad Al sembra solo un intreccio di linee senza un senso.
Il cielo è azzurro oggi. Gli ricorda quello del suo sogno, nelle nuvole rivede lo zucchero filato. Vorrebbe allungarsi e riuscire a volare per toccarle, ma sa che se anche solo ci provasse Ed comincerebbe a prenderlo in giro. L’unica cosa che vedono le sue mani è la stoffa marrone del suo giaccone.
“Non ti sei perso vero?” chiede, alzando un sopracciglio e fissando la schiena delle persone davanti a lui, a cercare la panacea che lo liberi da quel fastidio che sente sul petto. Edward risponde, ma lui non lo ascolta.
Era un bel sogno, eppure qualcosa lo turba. C’è l’intimità di quel bacio che continua a muovergli il cuore, un rumore fastidioso che gli sfrigola nelle orecchie come la pastella delle crepes che ha preparato la mamma per colazione.
Qual è il tuo pensiero felice?
Londra gli sbatte addosso con la sua realtà e l’odore di kebab e fritto misto, cozza con la fantasia che protesta per poter entrare nella sua vita e prendere il posto di tutto quel grigiore. Edward gli batte un dito sulla spalla, e lui si risveglia come da un torpore quasi molesto. “Sì?”
“Io sono arrivato. Ti ritrovo qua quando esco?”
Alza gli occhi, guardando il palazzo. L’insegna di un hotel a cinque stelle lo stupisce, non pensava che sarebbero andati a finire lì. “Sì…” mormora.
Si guarda un po’ attorno, spaesato. Ma alla fine, pensa, non è un gran problema; ha soldi sufficienti in tasca per poter chiamare un taxi e farsi portare dove vuole, per cui…
“Ehi, ehi, cos’è sto muso lungo, eh?”
“Non ho il muso.”
In diciannove anni Edward non gli mai dato retta una volta. È lì davanti a lui che lo guarda, e prima che si aggrappi alle sue guance scuote la testa mormorando che non c’è speranza.
Un po’ ha ragione.
“Così non ce l’hai.” ride, incastrando la pelle calda e morbida di Al tra le sue dita. “Tempo due ore e torno da te, d’accordo? Hai soldi?”
“Sì, ce li ho…”
“Telefono carico?”
“Non ti sembra troppo tardi per chiedermelo? Comunque sì, tranquillo. Sono sopravvissuto senza di te per un anno e mezzo, posso continuare altre due ore! E adesso entra.” Edward ride e agita le mani, lasciandosi spingere dal fratello su per le scale. Poco prima di entrare si ferma e gli tira di nuovo la guancia, per poi sparire dietro le porte automatiche. Alphonse lo guarda attraverso i vetri, rinfila le mani aspettando che suo fratello sparisca dalla sua visuale. Gli sembra di essere un po’ tornato indietro, a quando Edward era in aeroporto e stava per imbarcarsi per l’altra parte del mondo. Aveva sul viso lo stesso sorriso, le braccia sui fianchi e l’eccitazione che lo elettrizzava.
Per fortuna non sta andando da nessuna parte.
Da le spalle all’edificio quando si rende conto che non lo vedrà prima delle quattro e mezza, e inizia a camminare senza guardarsi troppo attorno, appuntando mentalmente qualche negozio o piazza per riuscire a tornare indietro senza troppa fatica. C’è un negozio di giocattoli, dall’altra parte della strada. Due orsi di peluche allargano le braccia a una figura snella che vola sul soffitto, legata a fili rivestiti di fiori.
Gli ritorna in mente Ed.
Senza nemmeno volerlo si sposta verso le strisce pedonali: la vetrina lo attira, ha gli stessi colori del cielo dove ha volato quella notte. Salta sulle strisce bianche - ha diciannove anni da un pezzo, eppure non ha mai perso quel vizio che sa di infanzia - e quando arriva dall’altra parte della strada corre davanti al negozio, il profumo della panetteria lì affianco che riempie l’aria. Si sente strano, con tutti quei giocattoli davanti agli occhi. C’è quel Peter Pan che lo guarda dall’altro e gli sorride, ha la mano tesa verso di lui come se lo stesse invitando a volare ancora, a perdersi e scappare dalla sua Londra grigia e fredda. Ha i capelli rossi e le lentiggini sulle guance, ma non fa molta fatica a rivederci Edward, se si concentra un po’.
Qual è il tuo pensiero felice?
Lui glielo ha chiesto mille volte, quella mattina, se qualcosa non andasse, se avesse fatto qualche brutto sogno. Ma Al aveva sorriso a denti stretti dicendogli di non preoccuparsi, che probabilmente si era solo svegliato col piede sbagliato. C’è qualcosa di sbagliato, in questa giornata - forse il cielo azzurro, forse il suo stomaco che fa un po’ male.
Sei tu.
In fondo è solo un sogno, niente di cui debba preoccuparsi davvero. Insomma, quante volte ha sentito i suoi compagni di classe vantarsi di aver fatto sesso con donne degne della copertina di Playboy, quante che si sono viste mano nella mano con la persona che più odiavano? Non è strano, fare certi sogni. E lui vuole bene a Ed, tanto, ed è palese che lui ricambi. È normale, tra fratelli.
Stringe il cappotto attorno al collo e si lascia andare all’ennesimo sospiro, nuvole di vapore che si condensano davanti ai suoi occhi. Deve assolutamente trovare qualcosa per passare il tempo, o Edward si ritroverà sul serio con un Al dal muso lungo quando uscirà dalla sua conferenza. Non ha idea di dove andare, permette ai suoi piedi di fare quello che vogliono; in fondo non lo hanno mai tradito. Vede uno Starbucks alla fine della via, ma la madre lo ha rimpinzato a dovere e non ha proprio bisogno di mandar altro giù nello stomaco. Una sala giochi, un supermarket, un negozio di antiquariato.
Vorrebbe tornare a sognare per cercare di capire. Gli basta pensarci poco tempo per tornare indietro di qualche ora e sentire il suo calore sulle labbra, per sentire le sue mani stringersi secondo la loro volontà dentro le tasche. È come se davanti a sé ci fosse un vuoto che non potrebbe mai colmare, senza di lui. Un vuoto fisico, un prolungamento del suo corpo.
Sei tu. Tu. Tu. Tu. Tu.
Tu.
La gente gli scorre affianco come un fiume in piena, lui avanza a passi pesanti, lo sguardo fisso sul marciapiede. Ripensa alla sua borsa sulla scrivania, alla carta ingiallita e tutti quei piccoli pezzi di lui sparsi dappertutto, alla fiaba della buonanotte, alle facce stupide e al solletico sulla panchina a Kenshington. Al bacio prima di dormire.
Lo hanno sempre fatto, da quando erano piccoli. Non gli è mai sembrata una cosa strana, è sempre stato scritto nella loro routine quotidiana, come quando al mattino saluta la mamma allo stesso modo. Trisha sorrideva, quando loro le mostravano il loro amore, quando si stringevano la mano e correvano, quando si picchiavano e poi subito le scuse e le lacrime riempivano l’aria e i loro visi paffuti. D’accordo, forse lui è davvero troppo attaccato a Ed, ma…
Il cuore gli batte forte in gola, e sente che vuole piangere. Non c’è una cosa che abbia senso, nella sua testa, perché tutto quello che fino a ieri gli era sembrato normale ora è totalmente stravolto, e ad ogni passo che fa sente i piedi più pesanti, e cresce la voglia di stare lì a guardare il vuoto. Vorrebbe provare a capire, eppure più si sforza e più i pensieri sfuggono.
“Stupido fratello…” borbotta contro il collo alto del cappotto, avanzando senza una meta.
Deve semplicemente non pensarci, non farsi influenzare da nulla, non ricordare parole di china nera o nuvole di zucchero e pensieri felici. Non vive nelle fiabe di Ed.
Purtroppo.

“Sai, una volta ho incontrato un vecchio un po’ strano, a Sidney.”
Tra le gambe di Edward, Al avverte un calore che dalla schiena si espande a tutto il corpo. È da secoli che non si sente in quel modo, è un po’ come se Edward fosse la sua coperta e lo isolasse dai mali del mondo, sono un po’ pensieri da bambino, ma in fondo va bene così. “Ah sì?” Lui annuisce, l’espressione seria sul volto.
“Diceva che la vita va presa per quella che è, e quando saremo capaci di accettarla per quello che abbiamo, allora potremo modellarla a nostro piacimento. Io credo di averlo fatto.”
“Come si fa?” e mentre glielo chiede, lo sguardo scivola sui suoi palmi bianchi, i pensieri che volano via. Gli prende la mano, la obbliga a restare tesa per poterci rimbalzare sopra con la sua, piccoli gesti della sua infanzia.
“Non lo so.” ride, andandogli incontro e sorridendo, la testa che poggia sulla spalla del minore. “Non è così intuitivo, credo. È una di quelle cose a cui pensi un giorno per caso, magari sei seduto che leggi giornale e pensi ehi, mi sento bene, credo che la mia vita sia perfetta.”
“E la tua vita lo è?”
“Adesso sì.”
Al ride, Ed alza un sopracciglio e fissa quel poco che riesce a vedere del suo viso.
“Che c’è?”
“No, no, niente. Sono felice per te.”
Ed gli abbraccia il collo, e il suo cuore si ferma. Vuole e non vorrebbe, perché ha bisogno di capire cosa sta succedendo nella sua testa. Abbassa appena lo sguardo, lo vede fissarlo, gli occhi nascosti tra le sue frange.
“La tua vita non è perfetta?”
Guarda alla scrivania, alla borsa di nuovo lì, nella stessa posizione.
Ci sei tu. Non lo so. È perfetta. È…
“Non lo so.”
Il momento di silenzio che segue è denso, pesante, ma probabilmente lo avverte soltanto lui. Edward sbuffa divertito sulla sua spalla, rimanendo immobile per pochi istanti. Quando sente la schiena di Al sollevarsi improvvisamente si rialza appena in tempo per vederlo con la mano davanti alla bocca mentre stringe gli occhi.
“Hai sonno? Vuoi dormire?”
“Magari sì.”
Si sfrega un occhio, infastidito, e quando Ed prende le coperte per disfare il letto, lui scivola dalle sue gambe e corre a nascondersi sotto, rannicchiandosi come un feto per il freddo.
“Tanto stanco?” gli chiede Edward, raggiungendolo e sorridendogli.
“Un po’.”
“Hai girato tanto?”
Al scuote la testa, chiude gli occhi mentre le mani corrono sotto il cuscino. “Ho girato un po’ in zona. C’era una libreria… ci sono rimasto un po’…” Sbadiglia ancora, il sonno improvviso che lo abbraccia. “Poi ho trovato un parco… ho comprato un po’ di grano e… c’era una bambina, gliene ho dato un po’, così ha dato da mangiare ai passerotti… era felice…” sorrise, grattandosi il naso. “Era un parco carino, andiamoci un giorno…”
Edward gli porta le coperte fino al naso, sorridendogli. “Quando vuoi, Al.”
Il più piccolo mugugna in risposta, già altrove. Sopra il tetto della sua casa c’è una stella che brilla; se allunga la mano riesce a toccarla.
La vorrebbe sulla sua testa per sempre.

Alphonse gira il cucchiaino dentro la tazza da più di cinque minuti, lo sguardo perso sulla televisione. Ha gli occhi gonfi, e Edward guardandolo non capisce se sia per il sonno o per qualche altro mistico motivo.
“Al? Si raffredda se non lo bevi.” Lui alza lo sguardo il tempo di guardarlo per qualche secondo, prima di annuire con un mormorio e tornare a guardare la televisione.
D’accordo, Al non è mai stato veloce a riprendersi dalla sveglia mattutina, un po’ come lui del resto. Ma non è normale che si perda a guardare il vuoto e non mandi giù la sua tazza di caffellatte - di solito è quello che gli da la carica. In realtà, è dal giorno prima che gli sembra strano. Lo ha visto un po’ così dal pomeriggio, quando si sono visti dopo la conferenza e aveva gli occhi stretti e arrossati, anche se poi si è giustificato dicendo che aveva davvero tanto sonno e si era annoiato senza di lui. Non gli aveva creduto tanto, comunque - e adesso ancora di meno.
“Al?” lo richiama, e stavolta è come se suo fratello si risvegliasse dal torpore, scuote appena la testa prima di guardarlo di nuovo. “Il caffellatte.”
“Ah, sì. Scusa, è che mi interessava il programma.”
Lui gli sorride e si allunga per dargli una pacca sulla spalla, e finalmente Al alza la tazza per bere. “Wah, è freddo.”
“Io te lo avevo detto.”
Lui gli abbozza un sorriso, prima di fissare intensamente la bevanda che si muove lenta nella ceramica. Sospira e manda giù tutto d’un colpo. L’espressione che fa quando riappoggia la tazza sul tavolo è più che eloquente. “Tonto, te l’avrei scaldato.”
“Ma no, ma no.”
Ed lo osserva senza commentare: lentamente Al poggia il braccio sul tavolo, la mano sorregge la sua testa mentre sbadiglia e ritorna a guardare la televisione.
Qualcosa non torna.
“Al…?”
“Sì?”
“Va tutto bene?”
Tre parole stupide, e lui si mette dritto sulla sedia, perdendo improvvisamente tutto l’interesse verso la televisione. “Sì, perché? Ho solo un po’ sonno, adesso mi sveglio.” Ed riesce a sentire le sue spalle che schioccano, mentre stira le braccia all’indietro. Sospira, rassegnato, e si alza.
“D’accordo, d’accordo.” Forse il suo tono è poco convinto, perché prima che sparisca per andare al bagno Al gli dedica uno sguardo perplesso.
Quando torna, Al sta guardando di nuovo la televisione, una mano che sfrega contro gli occhi.

È una giornata insolita. C’è qualcosa di strano che gli ruota attorno, e l’unica cosa che vorrebbe fare è scacciarlo via e non pensarci da qui all’eternità. L’aria profuma del suo deodorante, disturbata dal rantolio leggero che produce mentre dorme nel lettone, lui di nuovo alla finestra a giocare con il tubo del telescopio.
Stanotte lo ha sognato di nuovo, ma non volavano più. Stavano nello scantinato della loro vecchia casa, sentiva ancora la voce di suo papà che cantava allegramente You are my sunshine a Trisha mentre lui stringeva le mani di Edward al buio. Erano bambini, e lui piangeva, il cuore che gli batteva nelle orecchie e faceva male al petto. Nei suoi sogni ultimamente Ed è sempre quello che sorride, quello che lo stringe e porta via i problemi, che sembra non avere paura di quello che c’è davanti a loro. Lui invece non fa che far ruotare i suoi pensieri attorno a qualcosa che ha forma solo nella sua mente, e da nessun’altra parte. Edward brilla e vola nutrito dai pensieri felici, lui si rotola nella polvere dei suoi stessi vaneggi. Stanotte gli ha detto che vuole andare via con lui, dall’altra parte del mondo. Lui gli ha risposto di sì stringendosi sul suo petto, ma quando ha aperto gli occhi Edward gli dava le spalle dall’altra parte del letto.
Si sente un po’ stupido. C’è qualcosa che non va nel suo cervello, qualcosa che nella sua mente prende la forma di una condanna e nel suo cuore di un qualcosa senza il quale non può vivere. L’unico motivo per cui ha resistito fino a quel momento senza di lui è che è stato lontano per tanto tempo.
Occhio non vede, cuore non duole.
Si perde oltre gli alberi, oltre l’orizzonte lontano. Ci sono cose che un essere umano non può fare, su questa Terra. Non si può uccidere, non si può rubare, non si può tradire. Non si può amare il proprio fratello.
Non si può amare il proprio fratello.
Sbatte la mano contro la fronte, ridendo sottovoce. Si sente la stupidità fatta persona, cellule malate che circolano nel suo sangue facendolo ammattire. Si chiede perché abbia dovuto realizzare una sciocchezza simile adesso, quando tutto andava bene.
La tua vita non è perfetta? C’è Edward che gli sorride, Edward che gli rimbocca le coperte, Edward che gli prepara il caffellatte, che lo prende in giro. C’è la mamma, c’è Nana che è sempre felice, ha soldi a sufficienza per non morire di fame, ha un tetto sopra la testa. Cosa c’è di imperfetto nella sua vita? Un neo, minuscolo, a cui potrebbe non badare per non intaccare la sua felicità perfetta da famiglia perfetta.
Edward nel sogno gli stringeva le mani così forte che aveva quasi sentito dolore. La voce di suo padre rimbombava nell’aria, la canzone andava avanti e lui cresceva, ma Ed restava sempre bambino e gli diceva che tutto sarebbe andato bene. Va sempre tutto a finire bene, lo insegnano le fiabe, le favole.
Si alza e chiude la finestra, tremando di freddo. Vorrebbe andare in salotto e guardare la televisione, ma Edward sotto le coperte è come una calamita a cui non può dire di no. Cammina in punta di piedi, scavalca Nana che dorme ai piedi della sua parte di letto. Si muove piano perché non lo vuole svegliare - se lo vuole godere così, assente dal resto del mondo, così può stringerlo e immaginare quello che gli pare. Eppure gli basta toccargli la spalla, scivolare sul suo braccio sotto il piumone per sentire le lacrime accumularsi sugli occhi e rotolare giù per le guance.
Lui lo ama, lo ama davvero tanto.
Ritrae le mani non appena si sente singhiozzare, affonda il viso nelle mani per coprire qualsiasi rumore. Vorrebbe poggiare la testa sulla sua schiena, svegliarlo e farsi coccolare, ma non vuole spiegare - non può. Non saprebbe cosa dirgli, nemmeno volendo. La verità è che il mio mondo non è perfetto perché sono innamorato di te.
Quando sente il fruscio delle lenzuola affianco a lui trattiene il fiato. Vede attraverso le lacrime il viso assonnato del fratello, gli occhi aperti a fatica. “Al… che c’è?” chiede stanco, mordendosi un labbro per non sbadigliargli in faccia. Lui scuote la testa, troppo concentrato a non singhiozzare come una bambina.
Edward accoglie il silenzio, allunga le braccia e lo invita a cercare un po’ di pace dentro di sé. E Alphonse non riesce a dire di no - perché stupidamente Ed è la causa e la cura del suo male.
“Va tutto bene” è l’unica cosa che sente, mentre stringe gli occhi per non far uscire più le lacrime. La sua mano gli accarezza la testa, le sue labbra baciano la sua fronte, e lui si ripete che è uno stupido, perché è protetto da suo fratello, e niente deve fargli male.
Perché va tutto bene.

È un giorno particolare, la vigilia di Natale in casa loro. L’aria si profuma di zenzero e cioccolata, le luci che avvolgono le travi della loro casa rimangono accese per tutta la giornata. Sotto l’albero i regali sembrano i suoi frutti, le carte d’oro che brillano a intermittenza a ritmo di Santa Claus is coming to town.
Edward guarda Alphonse e si sente sollevato, mentre lui si allunga per appuntare le ultime decorazioni. Non gli ha voluto dire nulla, di qualche sera prima, ha tenuto tutto chiuso nella bocca e non gli ha permesso nemmeno di provare a capire cosa sia successo nella sua testolina. Ma in fondo, adesso sorride. Magari era solo un momento no. Gli piace, quando Al è allegro, pensa che l’unica cosa per cui è tornato a casa sia vedere il suo volto sorridere.
Gli ruba il nastro dorato da una mano, avvolgendocelo.
“Adesso ti consegno, pacco dono!”
“Ma smettila!”
Cerca di uscire dal groviglio ma fallisce, e scoppia a ridere. Trisha li guarda dalla cucina e si sente felice. Edward sa di avere fatto la cosa giusta, tornando a casa, se ne rende conto ogni volta che sente quel suono meraviglioso rimbombargli nelle orecchie.
Come diavolo ha fatto l’anno scorso?
“Che stupido.” Esclama Al, liberandosi dal nastro per metterlo al collo di Ed. “Adesso ti strozzo.”
Trisha scompare di nuovo dietro la porta della cucina.
Le canzoni si susseguono, si ripetono, loro cantano e si decorano - fiocchi in testa, palle rosse nei fianchi o sul naso. “Sono Rudolph.” dice Edward. “Montami.”
Alphonse gli da uno schiaffo e scappa via dandogli del pervertito. Ogni anno funziona così: la casa si riempie di gioia frivola, di una felicità che quasi rende stupidi. Edward lo segue per tutta la casa, invitandolo a non affaticare le gambe e a salirgli in groppa quando preferisce. È quasi paradossale che al loro ritorno in cucina, Al sia sopra la schiena di Ed, a stringergli il collo e ridere. Quando rilassa la testa sulla sua spalla, è in quel momento che si sente davvero a casa.
“Tu sei Peter Pan.” Gli dice con la stessa intensità di un sospiro. Ed si ferma e volta appena la testa, vedendo solo il suo naso.
“… come scusa?”
“Peter Pan. Sembri sempre un bambino, perché sei sempre felice.” Edward solleva lo sguardo al soffitto e sorride, scuotendo la testa. “E poi voli.”
“Volo?”
“Sì, ma solo nei miei sogni.”
Le braccia di Al gli si stringono ancora di più attorno al collo, il bacino che si muove appena per chiedergli di tenerlo più stretto. Edward lo porta in giro per casa, va dalla mamma che prepara la cena, esce fuori sul balcone per guardare il cielo.
Peter Pan.
Se fosse vero, sarebbe già altrove, a non preoccuparsi di tornare in un posto a cui è troppo legato. Stringe la presa attorno alle gambe di Al, lo vuole sentire contro per imprimerselo nella mente, in caso la voglia di scappare lo abbracci di nuovo e lo porti via da casa. Il cielo azzurro e meraviglioso, l’aria piena dell’odore dei dolci che Trisha ha preparato appena sveglia. Non c’è nessun motivo per non voler restare, anzi. Ha un motivo più che sufficiente, la risposta a tutte le domande che si è fatto prima di tornare.
E quel motivo è sulle sue spalle.
“Quanto sei scemo.”
“Sei tu che funzioni in modo strano.” Ribatte, e poi gli da un colpo affettuoso sulla spalla. “Dai Rudolph, torniamo dentro.”

Quando la notte cala sulle loro spalle, Trisha li abbandona con un bacio sulla fronte e sparisce dietro la porta, lasciandoli soli a rotolarsi tra le carte dei regali. Edward rigira il suo libro nuovo tra le mani, una raccolta di fiabe e favole con una dedica in prima pagina - Magari così la smetti di inventare storielle di secondo ordine e diventi bravo anche tu. L’orologio rintocca le due di un venticinque dicembre senza neve, il cielo pulito e una falce di luna calante che illumina miseramente la stanza, aiutata dal fuoco davanti al quale i due fratelli sono seduti. Alphonse sospira, sfogliando l’album di cartoline mai spedite scritte da Ed durante i suoi viaggi - “Te ne ho spedite tante, queste sono quelle che ho dovuto tenere da parte per quanto morivo di fame. Invece che spedirle le ho conservate, così non devi preoccuparti nemmeno di trovare un posto dove conservarle”, aveva riso mentre lui scartava il pacco. Sono l’uno accanto all’altro, le loro ombre rilassate sulle poltrone alle loro spalle. Ed ogni tanto attizza il fuoco, lo lascia scoppiettare. Lo guarda e si perde per qualche secondo a osservare le scintille, nascono tra la legna e muoiono sulle pietre del camino, in un piccolo cumulo di cenere. Sposta il viso, osserva Al il tempo di vederlo brillare alla luce del fuoco, e gli sembra dannatamente caldo. I capelli sulle spalle, la coda di lato che prende la luce delle fiamme e la irradia ad ogni ciocca, persino le guance sembrano irradiare calore. Vorrebbe renderlo minuscolo e portarselo del cuore. Deve accontentarsi di avercelo affianco, però. Alza le spalle e ride di sottecchi, tornando poi al suo libro. Gli piace, sapeva che Al non lo avrebbe deluso; in fondo lo conosceva meglio lui della loro mamma.
Quando sarebbe ripartito, avrebbe ripreso in mano la sua storia. Quella su cui conta per dire a suo fratello che ci sono mille modi diversi per amare una persona, e il suo è proprio quello più sbagliato e giusto allo stesso tempo. A volte vorrebbe che Al ricambiasse. Ci sono davvero momenti in cui chiude gli occhi e stringe i pugni, e la testa rimbalza sulla scrivania ripensando alle stesse parole, come una formula magica, un incantesimo che ancora non si è avverato - fa’ che ricambi, fa’ che ricambi, fa’ che ricambi. Sospira, giocando con le pagine del libro, guardando la copertina e perdendosi nelle fate, rileggendo la dedica più volte per imprimersela nella memoria. Da quando è bambino ha sempre voluto vivere in un mondo fiabesco, un po’ per allontanare i cattivi pensieri - il padre che era scappato di casa,la mamma che piangeva, Al che piangeva di notte e lui che doveva fargli da troppe cose. Adesso vorrebbe viverci soltanto per non dover pensare al resto del mondo, per portarselo via e tenerlo con sé per sempre, e non dividerlo con nessuno. Se fosse davvero Peter Pan, lo prenderebbe, adesso, e poi seconda stella a destra e il resto si sa.
Guarda le lettere di cui le pagine sono impregnate, senza leggere davvero. Chiude gli occhi e respira il profumo della carta, quell’odore che ha sempre amato, che gli è sempre rimasto in testa anche quando libri da leggere non ne aveva. Gira le pagine in cerca delle figure, delle cornici che decorano ogni titolo e si chiede se anche lui, prima o poi, farà qualcosa di simile.
Dovrebbe dimenticarselo, Al. Almeno, per come lo vede lui. Non dovrebbe dar spazio a certi pensieri, sarebbe meglio soffocarli sul nascere e vivere tranquillo senza problemi se non quelli che tutti devono affrontare, prima o poi. Però anche se ci prova non ce la fa. Al non è dentro il suo cuore, è tutto intorno. Lo stringe forte e non se ne vuole andare - riesce persino ad immaginarlo, unghie che affondano nella carne e piedi che si agitano nel vuoto per non farlo avvicinare.
Sorride, fissando una pagina bianca.
E poi solleva lo sguardo, attratto da un rumore umido, fastidioso.
“Al?” Era troppo preso dai suoi pensieri per accorgersi che suo fratello sta continuamente fregando gli occhi con il palmo della mano. Gli si avvicina gattonando, abbandonando il regalo sul tappeto e allungando le mani sulle spalle di Alphonse. “Ehi? Che succede? È Natale, dovresti sorridere.”
Lui ride, le mani premute sugli occhi e la testa che si agita in diniego. “Sto bene.”
“Al, per favore.” Gli prende i polsi e con un po’ di forza li allontana dal viso, e incrocia gli occhi arrossati, le lacrime che stanno in bilico, pronte a ruzzolare giù. “Non dire cazzate.”
“Ed davvero, non è il caso di…” Tira su col naso, fissa il fuoco senza riuscire a guardare l’altro. “Non è il caso di parlarne adesso.”
Il maggiore sospira, alzando le spalle. Gli lascia le braccia e gli si siede accanto, obbligandolo a poggiare la testa sulla sua spalla. Al singhiozza, stringe le labbra tra i denti per non scoppiare in un pianto patetico. Edward gioca con le ciocche dei suoi capelli, in disordine sulle spalle. Le attorciglia tra le dita e le abbandona, e continua affondando le dita e lasciandole scivolare, baciando suo fratello sulla tempia. “Al…”
Lui guarda il camino e lascia che gli occhi facciano il lavoro sporco per lui. Respira piano, molesta l’orlo della maglietta e conta finché ce la fa, per non pensare a niente, per allontanare i pensieri - è Natale, la mamma dorme, i regali sono stupendi, Edward ti amo e non ho idea di che pesci prendere.
“È colpa mia.” dice all’improvviso il più piccolo, sollevando le braccia per poi farle cadere sulle cosce incrociate. “Sono io, tu non c’entri niente. Sono io il problema, non tu. Non sei neanche la causa. Sono io la causa. Perché non so farmi gli affari miei e-“
“Al, che diavolo stai dicendo?”
“Ho letto.” Edward solleva un sopracciglio, piega la testa di Nana quando tenta di capire cosa le stia accadendo attorno. “I fogli dentro la tua borsa.”
“Ah.”
Si sente abbastanza stupido, sia per la risposta stupida, sia perché non riesce davvero a capire cosa-
Ah.
“Mi dispiace.”
“Ma no, Al, di cosa… non sono nulla di speciale, anzi.” Tenta di dissimulare, di soffocare l’ansia che lentamente sta prendendo possesso dei suoi nervi - non pensava che avrebbe capito solo con quegli stralci, sono le prime cose che ha scritto mentre andava via di casa, quelle che si porta sempre appresso per potergli dare ogni giorno una forma migliore, per renderla perfetta.
Alphonse si strofina gli occhi, sembra un bambino che si è appena fatto male a un ginocchio. Tenta di guardarlo, di girare la testa e trovare il suo sguardo, ma si blocca e si limita a guardare il fuoco, le ombre delle cose davanti a loro che ballano.
“Io non… non ci avevo mai pensato, prima. Non ci avevo mai dato peso, non ce n’era bisogno, era tutto normale e… lo so che non dovevo leggere, mi dispiace, davvero, non volevo-“
Si interrompe di colpo, affondando il viso tra le mani. La schiena trema sotto le mani di Edward, e lui vorrebbe dirgli qualcosa, qualunque cosa, purché smetta di essere così diverso dal solito Alphonse. “È un problema?”
“No, non è un… non lo so, in verità. Per me non…” prende fiato, e finalmente riesce a guardarlo. “Io ci ho pensato in questi giorni, tanto. Pensavo fosse suggestione, pensavo fosse colpa delle tue storie, ma poi ho pensato a tutte le cose che ci sono state prima di quella pagina, e a quanto mi sia sentito solo senza di te, ed è normale, perché insomma, abbiamo sempre vissuto insieme, non potevo non sentirmi solo. Però insomma, sei mio fratello, non il mio fidanzato!” Edward scuote la testa e gli sorride, grattandogli la nuca. “Insomma… io ho letto e non lo so, è stato come un pugno nello stomaco.”
“E sono solo un paio di pagine, pensa se avessi letto quando avresti dovuto.”
Geme appena dopo aver finito di parlare, Ed, ridendo tra i denti mentre Al gli da continuamente gomitate sul fianco. “Cretino. Quello che voglio dire è…”
Si sente stupido, perché vorrebbe dirglielo in faccia, urlarglielo contro, e invece si blocca quando sente le parole formarsi sulla punta della lingua, restare in bilico per cadere e infrangersi nelle orecchie del fratello. Il fuoco scoppietta e gli brucia gli occhi, e di nuovo vede tutto sfocato.
Eppure non è così difficile. Gioca con la lingua dentro la bocca, cerca un modo qualunque per fargli capire cosa vuole dirgli, per comunicargli i suoi sentimenti come lui ha fatto con quelle pagine. “Vorrei tornare indietro a quando… a quando darci baci e dormire insieme nello stesso letto era la norma, e nessuno poteva dire o fare niente perché eravamo piccoli.” Ride, mentre con i palmi delle mani si asciuga le lacrime. “Vorrei che Peter Pan esistesse davvero, così ci porterebbe via e non cresceremmo più. Ma mi sa che non si può, eh?”
Si sente sciogliere quando le mani di Ed gli pizzicano le guance, prima che scivolino sui fianchi. Poggia la testa sulla sua spalla e si lascia andare, perché ha nel cuore così tante sensazioni che cominciano davvero a pesare troppo.
“Possiamo restare bambini per sempre.” E la voce di Ed serpeggia nella sua testa, si impossessa del cuore e del cervello. Bacio sulla fronte. “Possiamo stare vicini e toccarci e darci affetto senza che nessuno ci guardi o ci giudichi, se lo vogliamo.” Al cerca il suo braccio, affonda le dita nella stoffa calda del suo pigiama. “Se c’è una cosa che ho capito stando via di casa, è che voglio continuare a viaggiare e vedere posti nuovi, cercare l’ispirazione ovunque, scrivere di qualunque cosa su questa Terra.”
Al abbassa lo sguardo, mordendosi il labbro. Si sente un egoista, perché non vuole che Ed vada via di nuovo; è l’ultima cosa che vorrebbe fare, agitare la mano per salutarlo mentre parte per chissà dove. Quando suo fratello lo stringe per le guance e lo obbliga a guardarlo negli occhi si sente strano. È tutto un mescolarsi di sensazioni diverse - vorrebbe guardarlo, vorrebbe parlare, vorrebbe nascondersi sotto le coperte e non uscire più.
E poi, Ed lo bacia. Senza preavviso, senza dirgli una parola. Forse si aspettava il permesso, un po’ come quando nei film di terza categoria non si da mai spazio alle parole - o se ne da decisamente troppo.
È come nel sogno. Gli occhi gli si stringono quasi involontariamente, stringe così forse il braccio del fratelli che ha paura di fargli male, eppure non può farne a meno perché se poi succede di nuovo? E se apre di nuovo gli occhi e si ritrova catapultato in una realtà che non vuole? Si sente sciogliere in mezzo allo stomaco. Sente le gambe rammollirsi, la testa farsi leggera.
Quando smettono, Edward gli bacia le palpebre e gli da il permesso di guardarlo e la sicurezza di trovare lo stesso identico scenario.
“Vieni con me.”
L’unica cosa che riesce a fare il più piccolo è saltargli al collo e scoppiare in un pianto liberatorio. Non ha fiato per rispondere, la gola è secca e fa male ad ogni singhiozzo, ma in fondo va bene così.
Ed non sta andando via. C’è tempo.

“… Lui lo prese per mano, socchiudendo gli occhi. - Il tempo passa per tutti, tranne che per i morti. Il resto del mondo continua a girare senza sosta, come se si rincorresse da solo. Noi che stiamo sopra e continuiamo a vivere, siamo obbligati a seguirlo. Assecondare il ritmo della natura, svegliarci col sole e andare a dormire con le stelle. I giorni in cui non si vorrebbe esistere arriveranno, ci saranno quelli pieni di lacrime, quelli in cui non si potrà fare a meno di ridere ed essere felici di qualunque cosa. Tutto cambia, ma noi restiamo. Quello che c’è qui - e gli prese le mani e gliele strinse forte al petto, il cuore che martellava contro le loro dita. - Quello che c’è qui non cambierà. Perché nel cuore il tempo non ha altro effetto che far maturare i sentimenti, farli crescere, proteggerli. E fidati, perché io sarò il tuo tempo e i tuoi pensieri, stringerò il tuo cuore tra le mie mani, ovunque sarò. I chilometri che ci separeranno non mi fanno paura, noi saremo più forti. L’Isola che non c’è non esiste, è scritto nel suo nome. Ma io posso essere la tua isola che non c’è. Dentro di me potrai nasconderti e curarti, aspettare tempi migliori. E io ti amerò per sempre.-“
I capelli di Alphonse brillano tra le sue dita come lunghe spighe di grano, la luce del tramonto canadese che colora la stanza di un rosso brillante. Le labbra appena umide brillano, assieme alle ciglia dorate. Dorme, il suono del suo respiro riempie la stanza, e lui si sente inebriato: il suo corpo si rigenera, diventa più forte.
Gli scosta i capelli dalla fronte, abbandonandoci sopra un bacio. Vorrebbe svegliarlo, tra poco è ora di cena, ma è uno spettacolo così incantevole che si sentirebbe in colpa. E quindi lo lascia lì, sul suo grembo, a recuperare le forze, a sognare posti ancora più lontani, stelle che brillano in un cielo pastello.
Chiude il libro e lo poggia sul comodino, lasciandosi andare ad un sospiro. È l’ennesimo di un’infinità di giorni.
Accarezzandogli la testa, sa che durerà per sempre.

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