Niente musica stasera

Jul 31, 2008 17:35



Esattamente tre anni fa che papà se ne andava. Andava dove, poi? Questo modo di dire non l'ho mai capito...
31 luglio.
Non voglio appesantirvi la giornata...
Mi limito a postare questo racconto, nemmeno mio, bensì di vivi00. Lo lessi qualche annetto fa e non ho mai trovato nulla di meglio per esprimere questo specifico ricordo di una... vita che sfugge.

Niente musica stasera

Il padiglione è il 4Q
Ultimo in fondo, a sinistra, dopo le scale.

Nel corridoio d’ingresso incrocio una ragazza, passeggia abbracciata al fidanzato. Si tengono stretti. Noto che lei è in camicia da notte, anche se sopra indossa una giacca di lana, con la cerniera. Dalla gonna le spuntano però dei tubi di plastica trasparente che finiscono in un sacchetto di carta, che porta nell’altra mano. Sembra una coppia reduce dallo shopping, lei ha occhi innamorati e uno sguardo felice, che mi colpisce. Parlano fitto e mi passano accanto senza vedermi.

Davanti agli ascensori si accalca una folla di visitatori. Molti, me compresa, hanno uno sguardo smarrito. Scrutano cartelli, frecce, indicazioni. Labirinti di corridoi si affacciano sull’atrio maestoso, lucido di marmo e di targhe di bronzo con impressi i nomi dei benefattori. Opulenza e sfarzo mascherato di rigore.

Salgo al quarto piano con un ascensore stranamente angusto. Qualche sorriso di circostanza e poi le porte di metallo ci sputano nei corridoi verde mela. Verdi le pareti, verde il pavimento di linoleum, che attutisce i passi. Qualche degente cammina lentamente, uomini, perlopiù anziani, in pigiama di flanella e pantofole marroni. I passi strascicati. Qualcuno ha al fianco una specie di attaccapanni per la flebo, con le rotelle. Qualcun altro un sacchetto di urina al fianco. C’è odore di disinfettante e di malattia. Malgrado il verde, le piante e le stampe alle pareti.

Anch’io cammino lenta, mentre scruto i numeri sulle porte, 402, 404, 410, 430.
La stanza è la 432.
Respiro profondamente prima di varcarne la soglia, e atteggio la mia maschera a un sorriso. Mi sono truccata velocemente, in auto, nella coda della tangenziale. Un po’ di matita verde intorno agli occhi, un tocco di fard sulle guance. Per ingannarlo. Per mostrarmi serena, bella, positiva.
Però i muscoli fanno fatica a rispondere e ho paura che il mio sorriso somigli a una smorfia.

Entro.
La stanza è a due letti. Due donne sedute affianco alla finestra mi danno le spalle. Si voltano e mi salutano in modo discreto. E altrettanto discretamente ricambio.

Sta dormendo.
Riconosco la tuta azzurro pallido, il colore dei i suoi occhi, e i mocassini ai piedi del letto. Ha sempre rifiutato le pantofole, e il pigiama, che trova poco dignitosi. I suoi indumenti sono la cosa più simile di lui. L’unica che riconosco senza sforzo.
Il corpo no, non gli appartiene, non è più il suo. Uno scheletro di 50 chili, gambe che sembrano braccia e braccia che non sembrano più nulla. Solo i denti sembrano cresciuti in quel suo volto smagrito dalla mancanza di carne e dalla sofferenza.

Papà.
Apre gli occhi e mi sorride. Ritrovo l’azzurro pallido e un lampo di gioia, che lo illumina per un istante.
Sei già qui?
Sì, ho fatto presto.

Parlo, parlo, parlo a ruota libera per impedirgli di rispondere. Non può farlo se non con grande fatica. Respira a stento e non vuole che io lo percepisca.
Papà.
Mettiamo in scena un teatrino ormai usurato. Racconto dell’ufficio, invento anedotti, uso parole rassicuranti. Scherzo.
Intanto i muscoli del mio viso si stanno irrigidendo, tra le mascelle un morso mi limita i movimenti, o almeno così mi pare. In bagno mi controllo allo specchio. Il verde attorno agli occhi mi dà un’aria spiritata. I capelli mi sembrano in disordine, e li rassetto velocemente con le mani.
Non miglioro di molto il mio aspetto. In ogni modo il sorriso c’è ancora e se non tendo troppo le labbra sembra quasi naturale. Quasi.

Ritorno nella stanza mentre entra un’infermiere, cinese forse, con occhiali dalle lenti molto spesse.
Senza una parola comincia a montare strani tubi e contenitori vuoti vicino al letto di mio padre.
Vorremmo chiedere spiegazioni, sapere cosa sta facendo, perché.
Invece tacciamo entrambi, io, lui e l’infermiere.
L’operazione è macchinosa, il carrello è pieno di strani marchingegni, che osserviamo con occhi spaventati. Sempre in silenzio.

Venga, dice d’un tratto l’infermiere.
Venga con me in bagno che devo rasarle le ascelle.
Ha peli sul petto?
No. No, dice lui. E intanto si alza lentamente, quasi trasparente in quella tuta troppo grande, che non sembra sua.
Vai, mi dice.
Vai, che è tardi.
Ci vediamo domani.
Domani. E sorretto dall’infermiere cinese si avvia verso la porta del bagno.

Gli mando un bacio con la mano. E lascio la mia carezza sospesa nell’aria.
Domani.
Il corridoio verde si riappropria dei miei passi e li spegne dolcemente.

Fuori, il traffico è ancora sostenuto. Piove. Una pioggia lieve ma già fredda.
Nella solitudine dell’abitacolo abbandono la mia carezza sul volante dell’auto.
E come per magia si deposita sul suo viso scarno e la sua mano, ancora bella, la ricambia.
Mi lascio cullare dal fruscio dei tergicristalli mentre torno verso casa.

Niente musica, stasera.

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