Claudio è un bambino. Gioca con quella gioia lì che soltanto i ragazzini hanno nel cuore, e poi guardalo, con quegli occhi enormi che sembrano riempirgli tutto il viso e vogliono bersi il mondo intero solo perché il mondo è la cosa più grande che ci sia. Claudio arriva a Vinovo troppo presto ogni mattina, non troppo presto in assoluto, perché chi arriva troppo presto è sempre Giorgio, ma troppo presto per un ragazzo di venticinque anni con una moglie e un figlio con cui fare colazione: è come quei bambini eccitatissimi dal campo estivo che prima dell’alba svegliano la mamma perché non vedono l’ora di andare. E poi si allaccia malissimo le scarpe, tanto che persino Felipe - Felipe - lo rimprovera continuamente per la sua sbadataggine, e sta sempre lì, chino in mezzo al verde, a sistemarsi i nodi e impicciarsi le dita ogni volta che tenta di fare il fiocco. E poi arrossisce in continuazione per ogni cosa, ha le dita così magre, le spalle così sottili, e certe volte arriva agli allenamenti con un angolo delle labbra sporco di cioccolato perché è andato a mangiare il gelato con Davide subito prima. E poi non sorride, come un ragazzino paralizzato dalla timidezza. E poi. E poi c’è il modo in cui corre da Alex, al suo gol contro il Catania, facendosi spazio tra i compagni e piantandoglisi davanti e cercando i suoi occhi; c’è il modo in cui sorride, c’è il modo in cui Alex non riesce a non prenderlo per i fianchi e tenerlo lì, come se potesse fermare lui e fermare il mondo e fermare tutto in quell’unico attimo solo perché è felice, felice da morire, e a un respiro da lui gli occhi di Claudio sono grandissimi e azzurri e pieni. Come quelli di un bambino. E poi. E poi il Catania rimonta, una cosa ridicola e impensabile e umiliante e Alex vorrebbe mangiarsi tutto il campo, tutto lo stadio, vorrebbe mangiarsi le ginocchia per la frustrazione. E quando l’arbitro fischia la fine - della partita, dei sogni, di tutto, probabilmente, - Alex salta in piedi dalla panchina e sta per correre negli spogliatoi a sbattere la testa contro il primo spigolo che vede, ma Claudio è più svelto e lo raggiunge nel tunnel, lo abbraccia. Claudio. Lo abbraccia. Alex non riesce a respirare, il viso affondato contro la sua maglietta, e pensa: rettifica. Claudio non è un bambino.
Claudio è un bambino.
Gioca con quella gioia lì che soltanto i ragazzini hanno nel cuore, e poi guardalo, con quegli occhi enormi che sembrano riempirgli tutto il viso e vogliono bersi il mondo intero solo perché il mondo è la cosa più grande che ci sia. Claudio arriva a Vinovo troppo presto ogni mattina, non troppo presto in assoluto, perché chi arriva troppo presto è sempre Giorgio, ma troppo presto per un ragazzo di venticinque anni con una moglie e un figlio con cui fare colazione: è come quei bambini eccitatissimi dal campo estivo che prima dell’alba svegliano la mamma perché non vedono l’ora di andare.
E poi si allaccia malissimo le scarpe, tanto che persino Felipe - Felipe - lo rimprovera continuamente per la sua sbadataggine, e sta sempre lì, chino in mezzo al verde, a sistemarsi i nodi e impicciarsi le dita ogni volta che tenta di fare il fiocco.
E poi arrossisce in continuazione per ogni cosa, ha le dita così magre, le spalle così sottili, e certe volte arriva agli allenamenti con un angolo delle labbra sporco di cioccolato perché è andato a mangiare il gelato con Davide subito prima. E poi non sorride, come un ragazzino paralizzato dalla timidezza.
E poi.
E poi c’è il modo in cui corre da Alex, al suo gol contro il Catania, facendosi spazio tra i compagni e piantandoglisi davanti e cercando i suoi occhi; c’è il modo in cui sorride, c’è il modo in cui Alex non riesce a non prenderlo per i fianchi e tenerlo lì, come se potesse fermare lui e fermare il mondo e fermare tutto in quell’unico attimo solo perché è felice, felice da morire, e a un respiro da lui gli occhi di Claudio sono grandissimi e azzurri e pieni. Come quelli di un bambino.
E poi.
E poi il Catania rimonta, una cosa ridicola e impensabile e umiliante e Alex vorrebbe mangiarsi tutto il campo, tutto lo stadio, vorrebbe mangiarsi le ginocchia per la frustrazione. E quando l’arbitro fischia la fine - della partita, dei sogni, di tutto, probabilmente, - Alex salta in piedi dalla panchina e sta per correre negli spogliatoi a sbattere la testa contro il primo spigolo che vede, ma Claudio è più svelto e lo raggiunge nel tunnel, lo abbraccia. Claudio. Lo abbraccia.
Alex non riesce a respirare, il viso affondato contro la sua maglietta, e pensa: rettifica. Claudio non è un bambino.
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