[Fanfic] Il segno del tempo

Mar 11, 2011 20:35

Titolo: Il segno del tempo
Fandom: DC Comics - Lovvoverse
Beta: namidayume
Prompt: Il tempo ci sfugge, ma il segno del tempo rimane (Baustelle, Le rane) @ levy [richiesta qui]
Personaggi: Dick Grayson, Mar'i Grayson, Bruce Wayne, Tim Drake, Helena Bertinelli, Martha Grayson, Caleb Chase, parte degli Outsiders e Susan Malloy, Bruce Grayson e altri; nominato Ibn Al Xu’ffasch, Koriand’r e il resto dell’universo.
Rating: Pg13
Conteggio Parole: 5.818 (FDP)
Avvertimenti: Comincia fluffosa e finisce angstosa, sappiatelo XD, linguaggio colorito
Disclaimer: Tutto abbastanza nostro, ma ugualmente senza lucro.
Note:
• Comincia nel 2002, alla nascita di Mar’i, finisce nel 2048. \o/ Nelle note a fondo fic, trovate eventuali indicazioni. ♥
• LA SOFFERENZA DELLO SCRIVERE CIO’, voi non avete idea.
• Prima richiesta andata. \o/ Dedicata a levy in tutta la sua monumentale interezza. XD
• Che poi, l’ho finita da un secolo e scritta relativamente in breve tempo, considerando la lunghezza immane, ma a correggere mi pesa il culo in maniera atroce. ;_; In tutto ciò, questa fic risente molto di tutti i casini che abbiamo combinato ultimamente con il Lovvo, ovvero tiene conto della nuova timeline che non è ancora online (ma lo sarà presto, giurin giuretto ;_;) e di vari eventi decisi solo di recente. A fondo fic trovate i vari riferimenti ed eventuali spiegazioni. Si tratta di dettagli, comunque, in quanto la storia portante del rapporto tra Dick e Mar’i è rimasta identica: si sa come inizia e si sa come finisce.
L’unica cosa da sapere prima è che Lena, nel 2027, durante il suo mandato da Presidente, emana un decreto che vieta il vigilantismo non registrato, ovvero vieta a pinco pallo di mettersi un costume senza avere l’autorizzazione governativa. Di conseguenza tutti i gruppi da quel momento considerati “illegali” (Titans, JLA, Infinity, ecc) vengono sciolti e certi individui considerati sospetti (ovvero gli eroi di cui Lena già conosceva l’identità, tipo Dick, Tim e compagnia) vengono messi sotto controllo (e diciamo pure minacciati \o/). È la diretta premessa dei Centri di Rieducazione, questa, yep.
• Titolo ispirato al prompt, che è ispirato ad una delle mie canzoni preferite evah. @_@


Il segno del tempo

La prima volta che Dick tiene Mar’i tra le braccia, oltre ad un indistinto calore all’interno del petto, avverte anche una terribile paura. Lei è così piccola, così fragile: un fagottino di capelli scuri e occhi grandi, con una manina che emerge dal bozzolo per stringere il suo dito.

Nel momento in cui ci riesce, nel momento in cui le loro pelli si sfiorano, Dick sa con matematica certezza che non sarà mai, mai in grado di proteggerla quanto desidera - e quanto lei meriterebbe.

*

«Il problema è,» comincia, torturando il guanto del costume che si è tolto per non ricorda più che motivo, «che sono da solo. Non so mai a chi lasciarla, non riesco a concentrarmi del tutto sulle missioni perché non sono capace di fidarmi appieno delle babysitter. Che, bada, è una cosa più da te che da me, ma comunque…» Si perde nei propri discorsi come sempre, sotto lo sguardo inquisitorio di Bruce, e si accorge di essere andato fuori strada solo quando trova il coraggio di alzare lo sguardo verso di lui e osservare la sua fronte aggrottata. «La settimana scorsa sono rimasto impegnato con i Titans per due giorni. Sai cosa vuol dire? Un padre che non torna a casa per due interi giorni! E sì, lei era in compagnia di Lian, ma è più piccola e… dio, è così piccola.» Si interrompe e respira a fondo, portandosi una mano al viso e stropicciandosi gli occhi.

La meta di quell’intero discorso, in realtà, non ha idea nemmeno lui di quale sia esattamente. Sta implicitamente chiedendo aiuto, questo è certo, ma non riesce nemmeno a immaginare quale soluzione Bruce possa offrirgli. Si sta affidando all’uomo, forse, come mille e mille volte prima di adesso ha già fatto.

«Vorresti che vivesse qui?» gli arriva infatti in risposta, in uno dei suoi soliti andare dritti al punto, ad un punto di cui nemmeno Dick conosceva l’esistenza.

Al suo esitare, al suo alzare gli occhi sul soffitto di pietra della caverna, Bruce aggiunge: «La caverna non è un posto per una bambina,» ma sembra una semplice constatazione più che un rimprovero.

«Non sarebbe mai da sola, però,» ribatte Dick, con un sospiro. «E sapreste come gestire i suoi poteri, non mi ritroverei a spiegare ai vicini perché Nancy La Babysitter è fuggita urlando con la borsa polverizzata da casa mia, l’altra notte. O a tranquillizzare la signora Byrne che Mar’i non è in negazione per la morte della madre, ma che quando dice “è volata lassù” intende, letteralmente, “è andata a vivere su un altro pianeta, perché è una principessa aliena.”» Scuote la testa con esasperazione e sembra che sul viso di Bruce compaia una sorta di sorriso.

«Possiamo provarci,» dice allora l’uomo, annuendo. «Ma se la cosa non funziona…»

«La riprenderò con me e cercheremo un’altra sistemazione, sì,» conclude per lui, senza poter evitare di sorridere al suo indirizzo. Si sente più leggero, adesso, come se trovare quella soluzione abbia risolto gran parte dei suoi problemi.

«Dick,» chiama ancora Bruce, la voce seria e priva di emozioni proprio quando più dovrebbe contenerne. «Potresti tornare a vivere a Gotham. Sarebbe la cosa migliore per starle il più vicino possibile.»

Una richiesta simile, Dick se l’aspettava. Abbassa lo sguardo e scuote la testa, mentre risponde. «Lo sai che a Gotham per me non c’è posto. È casa, lo è davvero, ma… ho bisogno di New York, Bruce.»

L’uomo annuisce, probabilmente già consapevole di quali sarebbero state le sue parole. Dick torna a guardarlo negli occhi e aggiunge: «Ma non la sto lasciando, non voglio che tu faccia il padre al mio posto. Ti chiedo solo di proteggerla, per il resto ci sarò sempre per lei, credimi. Ci sarò sempre.»

Di nuovo, Bruce annuisce: «Allora va bene così.» Il fatto che nella sua voce non ci sia alcun dubbio, tranquillizza Dick molto più di quanto facciano le proprie stesse promesse.

*

Vivere a Villa Wayne a Mar’i piace tantissimo. Si diverte a giocare in cortile, correndo e volando finché non ha più fiato, costringendo Jim a starle dietro; ama nascondersi nei lunghi corridoi e attendere che Tim venga a trovarla e adora quelle rare volte in cui le viene concesso di scendere nella caverna per fare compagnia al nonno, con la promessa, però, di non lasciare la mano di Alfred o di non allontanarsi da sola.

Fino al compimento dei suoi sette anni, tuttavia, i suoi giorni preferiti rimangono quelli in cui suo padre viene a prenderla. A volte si comportano come persone normali e vanno al Luna Park o ai giardini pubblici, dove mangiano gelato e lanciano pane alle anatre; altre volte Dick la porta alla Torre Titans e lì incontra Lian, Iris, Jai, Cerdian e Robert e trascorre interi pomeriggi in compagnia loro e degli zii. In occasioni più rare, Dick le fa indossare una mascherina blu uguale alla sua e, con il nonno, scendono nella caverna dove lei può lanciare sfere di energia a dei bersagli.

Poi ci sono i giorni ancora migliori, in cui, oltre a sua padre, viene a prenderla anche la mamma in vacanza da Tamaran e Mar’i è certa che se li ricorderà sempre tutti, quelli, anche quando sarà grande.

Dopo i sette anni, tuttavia, i giorni del genere perdono un po’ di lucentezza, ai suoi occhi, diventano meno meravigliosi. Quelle che iniziano ad acquistare sempre più peso sono le volte in cui il nonno accetta di allenarla, in cui la porta giù nella caverna e le insegna come colpire un nemico, come difendersi, come lanciare le sue sfere di energia in modo che distraggano, ma non uccidano. Sono le mattine in cui ha appena fatto colazione e il nonno è ancora seduto al suo computer, ad analizzare un caso che gli fa corrugare la fronte e stringere i pugni, e Mar’i siede al suo fianco guardandolo bere caffè, aspettando che giunga alla conclusione a cui, lei lo sa, prima o poi giungerà di certo.

Il suo giorno preferito in assoluto, decide nel suo nono anno di vita, è quello in cui il nonno le dà il permesso di vestirsi da Robin e seguirlo di pattuglia.

*

Riesce chiaramente a sentire le urla attraverso il passaggio dietro l’orologio a pendolo lasciato aperto, mentre è accucciata su se stessa sul pavimento, poco distante.

«Quattro anni fa l’ho anche capito. Era un’emergenza e piuttosto che lasciarti da solo mi ci sarei vestito io, da Robin,» sta dicendo suo padre, la voce distintamente alterata. «Ma adesso! Adesso! Ha solo tredici anni, dannazione.»

La replica del nonno, Mar’i non riesce a coglierla alla perfezione, ma le sembra qualcosa molto simile a: «Mi sembra che tu fossi persino più piccolo quando hai iniziato.» Questo, ovviamente, fa infuriare Dick ancora maggiormente.

«Non farlo, non tirare in ballo me! Sai benissimo che la situazione era diversa e Mar’i…»

La voce di Bruce, questa volta, sembra abbassarsi ulteriormente. Mar’i percepisce solo: «…se pensi che possa tenerla segregata nella caverna…», perché l’eventuale seguito della frase è coperto dai passi di Tim che scivola accanto a lei e le si siede al fianco.

«Non stanno litigando davvero,» le dice l’uomo, sorridendo. «Fanno così praticamente da quando li conosco, finché non si convincono che l’altro ha ragione e torna tutto come prima.»

Lei ricambia il sorriso, ben cosciente di quanto quella descrizione si avvicini alla realtà. Poi l’espressione svanisce e viene rimpiazzata da un broncio. «Ho paura che non mi facciano più essere Robin,» sospira. «Tu lo sai, zio, quanto è importante per me.»

Tim le appoggia una mano sulla testa e l’accarezza, annuendo. «Lo sanno anche loro. Tuo padre è solo preoccupato e sta cercando di proteggerti.»

«Non è più tempo che papà mi protegga,» fa appena in tempo a dire Mar’i, prima che Dick compaia nel varco che porta alla caverna. Tim si alza, accenna un «Vi lascio soli» e si allontana lungo il salone.

Mar’i guarda verso suo padre in attesa, come se stesse per ricevere un’importante sentenza. L’uomo sospira e le porge una mano per aiutarla a rimettersi in piedi.

«Immagino non ci sia nulla che possa dire o fare per permetterti di cambiare idea, vero?» domanda, con uno sguardo che le dice che la risposta, in realtà, la conosce già benissimo.

Mar’i scuote la testa. «Indosserò i tuoi colori!» esclama, come se quello fosse un incentivo sufficiente ad ottenere la sua approvazione. Riesce tuttavia a farlo sorridere e a Dick non resta che abbracciarla, tenerla stretta per un po’ e aggiungere: «Sarai grandiosa.»

*

«Lui?! Tra tutti, lui?!»

Mar’i leva gli occhi al cielo e sospira, ad un passo dall’esasperazione. «Sì, papà, proprio lui.»

«Ma tra tutti i ragazzi possibili…! Perché non Robert, invece? Perché non… ok, non Cerdian e Jai, ma… il figlio di Jesse? È davvero un bravo ragazzo, sai.»

«Papà,» sospira ancora Mar’i, in un tono sempre più definitivo, «non farò felice una delle tue ex nemmeno sotto tortura. E Robert?» si interrompe e ridacchia in un modo che preoccupa Dick molto più della sua precedente affermazione. «Tu non dici sul serio.»

L’uomo scuote la testa, allontanando le ultime domande che gli sono sorte e tornando al punto fondamentale. Si appella alla logica e, ancor meglio, alla famiglia. «Ma il figlio di Bruce! È… praticamente mio fratello.»

Mar’i sospira pesantemente e si eleva in tutta la sua altezza da quattordicenne per fronteggiarlo, le mani portate ai fianchi in un modo che la fa pericolosamente assomigliare a sua madre. «Papà!» esclama, lasciando emergere tutto il fastidio che prova. «Lo conosci da due anni appena, come puoi anche solo pensare di considerarlo un fratello senza nemmeno un legame di sangue?!» Poi si calma, incrocia le braccia al petto e, lanciandogli un’occhiata che implicitamente lo sfida a contraddirla, aggiunge: «E comunque anche io detesto Helena, ma non mi pare che tu l’abbia lasciata appena te l’ho fatto sapere. Quando rinuncerai a lei, io rinuncerò ad Ibn.»

Quella frase è chiaramente destinata a mettere del tutto fine alla discussione. Dick scuote la testa e, com’era prevedibile, si arrende. «D’accordo, d’accordo,» dice, facendosi scudo con le mani. «La vita è tua e decidi tu.»

Tutto ciò che gli rimane da fare, dopo, è forzarsi ad accettare che Mar’i stia crescendo e sperare che Ibn al Xu’ffasch non le faccia tanto male quanto teme.

*

Il funerale di Bruce è ciò che più gli fa realizzare il peso del tempo che è trascorso. Non riesce ad evitare di ripercorrere gli anni, i momenti spesi insieme - quelli belli e quelli meno belli -, tutti i modi in cui l’uomo c’era per lui e i modi in cui lui c’era per Bruce.

Più di tutto - più che a Tim, Ibn, Selina - guarda a Mar’i e alla rigida fissità che la contraddistingue. Dick non ha registrato nemmeno una risata provenire da lei negli ultimi mesi ed è qualcosa di tanto strano, stonato, che gli pare irreale. Gli sembra che quel tempo, quello stesso tempo che gli ha, infine, tolto Bruce, abbia anche contribuito a trasformare e segnare sua figlia.

Dopo la cerimonia, quando la Villa si riempie di tutte le persone che gli volevano bene, vede Mar’i rintanarsi su uno dei balconi. Le spalle rigide, lo sguardo rivolto lontano e le labbra serrate in una linea sottile: Dick registra facilmente ogni elemento del suo dolore, mentre le si avvicina.

Senza dire nulla, le appoggia le mani sulle spalle e le bacia i capelli. Al suo contatto, Mar’i si irrigidisce: non è più la bambina che gli correva incontro appena lui metteva piede nel cortile della Villa, non è quella che lo chiamava a tutte le ore del giorno solo per raccontargli di uno dei complimenti che Bruce le aveva fatto. Per la prima volta da quando l’ha tenuta in braccio dopo la sua nascita, Dick sente della distanza tra loro - una distanza cruda, tagliente: uno strappo.

Cerca di non badarci; forza un abbraccio e Mar’i appoggia la testa sulla sua spalla, lasciandosi andare per un attimo. «Andrà meglio,» le promette, probabilmente cercando di convincere anche se stesso, di non sentire il vuoto all’altezza del petto.

Mar’i si irrigidisce nuovamente e, con un gesto brusco, si libera dalla sua stretta. Quello che vorrebbe sentirsi dire al momento non lo sa nemmeno lei; immagina che una dimostrazione di affetto le farebbe bene, una promessa di vicinanza, un semplice “vieni a stare da me per un po’”. Sa che se gli confessasse come sta, se gli dicesse davvero: «Mi sento così sola», lui impiegherebbe meno di un istante a farle quella proposta, ma a suo padre ha smesso di confessare cose il giorno in cui ha iniziato a mostrarsi forte per non farlo preoccupare, per non causargli senso di colpa.

Così, semplicemente, lo fissa negli occhi e rivela ciò che ha imparato negli ultimi anni. «No, papà,» afferma, «andrà peggio. Sempre peggio.»

Come sospettava, l’uomo non trova nessun argomento per convincerla del contrario.

*

La voce di Mar’i, dall’altro capo del telefono, gli fa capire immediatamente che qualcosa sia successo. «Vengo a stare da te per un po’,» lo informa lei, diretta e senza nessuna richiesta nel tono, come se fosse qualcosa che avessero concordato tempo addietro.

Nonostante tutto, nonostante la distanza e le telefonate sempre meno frequenti e i silenzi sempre più pressanti, Dick sorride realmente contento replicando: «Ti aspetto.»

Immagina che quell’incontro, indipendentemente dalla causa, possa essere qualcosa di positivo per loro, possa costituire una pausa da quell’allontanamento che sembra ormai inevitabile. Forse, potrebbe anche invertirne la marcia.

Quando si trova davanti sua figlia, tuttavia, ogni sua rosea aspettativa svanisce. Mar’i ha gli occhi gonfi di chi non ha fatto altro che piangere nelle ultime ore e il modo in cui gli si getta tra le braccia, afflosciandosi come se avesse appena compiuto una lunga traversata, gli stringe il cuore.

Si rivela inaspettatamente gentile con Helena, persino, accetta con un sorriso un po’ offuscato la tazza di tè caldo che la donna le offre e lascia che suo padre l’abbracci, le accarezzi i capelli e commenti: «Io lo sapevo che da Ibn non sarebbe derivato niente di buono, Mar’i, lo sapevo.»

Lei non lo corregge; non dice che non solo non è derivato niente di buono da Ibn, ma nemmeno dai suoi migliori amici, non dice che si sente sempre più sola, non dice che lui, suo padre, le sembra l’ultima cosa che le rimane. Ripete che resterà nel suo appartamento per un po’, il tempo di schiarirsi le idee, e poi si sposta verso la stanza preparata per lei - la stessa che occupava quand’era piccola - chiedendo di restare sola.

Lui, i mille problemi che sua figlia si porta cuciti addosso, tenta di non vederli, di non tenerli troppo in considerazione. Semplicemente aspetta che sia lei a volergliene parlare, con pazienza.

*

Mar’i non è più una bambina e Dick, spesso, fatica a ricordarselo, fatica a tenere traccia di tutti i cambiamenti che sono avvenuti in lei con il passare degli anni. A volte, la vede sorridere in quel modo particolare e gli sembra ancora la sua piccolina; altre, il suo sguardo si tinge di una sfumatura nera, un’ombra fitta che non gli lascia vedere attraverso, e non riesce a scacciare la sensazione di avere a che fare con un’estranea.

Eppure quella rinnovata convivenza dà ad entrambi la sensazione di ritrovare un certo equilibrio, qualcosa che assomiglia alla possibilità di non sfuggirsi davvero, non del tutto. Dick forse sopravvaluta la situazione, la accoglie con eccessivo entusiasmo e non si rende conto di quanto in realtà sia fragile.

Quell’equilibrio, infatti, va in pezzi nel momento in cui gli annuncia che Helena è incinta.

Mar’i rimane immobile, batte le palpebre un paio di volte e gli chiede di ripetere. Lui si accorge della diversità nell’atteggiamento, sa che qualcosa di terribile sta per succedere perché un altrettanto terribile presentimento gli si adagia nello stomaco. Comunque dice: «Avremo una bambina, ha appena passato il terzo mese,» e sorride, perché il pensiero di Martha semplicemente lo fa sorridere.

La ragazza nota quel sorriso, nota la gioia nei suoi occhi e non può evitare di provare una vergognosa amarezza, in risposta. Il suo primo istinto è quello di alzarsi e uscire il più in fretta possibile da lì, perché se era andata da lui era per avere un posto che potesse essere suo, per sentirsi accettata, voluta, unica. Di certo non per vederlo amare qualcun’altra, non per sentirsi messa da parte - di nuovo.

Ancora immobile, con una durezza che non è capace di evitare, commenta: «La affiderai a qualcuno, immagino.»

Dick, una risposta del genere, un po’ se l’aspettava. Abbassa lo sguardo e si passa una mano tra i capelli, colpevole, mentre tenta per l’ennesima volta di convincersi di aver fatto la scelta giusta, circa vent’anni prima. «Beh, sai,» comincia, esitando, «ho imparato dai miei errori e non voglio più commetterne. Immagino di poterci riuscire, adesso, con Helena presente e tutto. Possiamo essere una famiglia, insieme a te.»

La speranza nella sua voce non la sfiora nemmeno; di quelle parole Mar’i registra solo la prima parte e non riesce ad andare oltre, non riesce a liberarsi da quel senso di abbandono che ultimamente sembra deciso a soffocarla. Scatta in piedi e sbatte le mani sul tavolo. «È questo che sono stata per te? Un esperimento?! Un tentativo?! Adesso che sai come funziona sei pronto per essere il padre dell’anno?»

Che le cose siano precipitate, Dick se ne rende conto troppo tardi. «Mar’i, no, non è questo che--» tenta di dire, ma lei si allontana di fretta ed esce dalla cucina. Il suo «Me ne vado!» gli arriva tagliato a metà dal suono della porta d’ingresso che sbatte.

La successiva notizia che ha di sua figlia - nonostante i ripetuti tentativi di contattarla o di convincere Caleb a fare da mediatore - è che è stata arrestata per omicidio e Dick non vuole crederci. Non vuole davvero crederci.

*

Nel buio della camera da letto, Dick si appoggia i gomiti sulle gambe e si prende la testa fra le mani. La voce di Helena, quasi monocorde dalla rabbia, gli riferisce le notizie che si stanno diffondendo a New York su torture e maltrattamenti all’interno dei cosiddetti Centri di Rieducazione. Ad ogni parola della donna, lui affonda sempre di più, chiude gli occhi, li stringe forte e poi li riapre di colpo sperando di svegliarsi dall’incubo. Non succede mai.

«Devo fare qualcosa. Devo assolutamente fare qualcosa.» Si alza e compie alcuni passi al lato del letto, i pugni stretti lungo i fianchi. «Dobbiamo salvarli-- dobbiamo--»

«Dick.» La voce di Helena è uno schiaffo mirato che lo costringe a fermarsi, a tornare a ragionare. «Non possiamo. Non puoi. Non puoi indossare il costume, non puoi riunire la tua squadra, non puoi nemmeno uscire da questo cazzo di appartamento, senza una condanna.»

Lui chiude gli occhi nuovamente e prende un respiro profondo. Lascia che le sue parole lo riportino alla realtà più cruda, quella dell’impossibilità di ogni azione; il suo sguardo, così come quello di Helena, si posa sul lettino in cui Martha dorme serenamente, ignara di ogni pericolo.

«Te la ricordi la minaccia che ci hanno fatto?» domanda nuovamente Helena. Dick annuisce, senza trovare la forza di parlare. «Ti giuro su Dio che se la metti in pericolo sarò io a spararti una pallottola in testa e non il Governo.»

L’uomo si passa le dita sugli occhi, li stropiccia e mormora, «Mi dispiace.» Poi si dirige verso la finestra e, attraverso le tende, osserva i cecchini appostati sui palazzi vicini - pronti a sparare a vista nel caso in cui Nightwing compaia su un tetto - e la pattuglia in borghese giù in strada - che ha il compito di controllare chiunque esca dal palazzo e gli assomigli anche vagamente.

«Vorrei solo che non pensasse che non sto facendo nulla per salvarla. Vorrei solo…» lascia cadere la frase nel vuoto, alla ricerca delle parole giuste, dei sentimenti giusti, della forza giusta.

Il fruscio di lenzuola e i passi alle sue spalle gli dicono che Helena si è alzata e si sta avvicinando, così smette di tentare. Lei gli appoggia le mani sulle spalle, scivola tra le sue braccia e lo stringe per qualche momento, poi si allontana quanto basta perché lui la guardi in viso. «Ora ascoltami,» ordina e, tenendolo per mano, lo accompagna al letto facendolo sedere accanto a sé.

«Nel mio giro nei bassifondi non ho raccolto soltanto brutte notizie,» riprende quando lo sguardo di lui è tornato lucido e attento. «Pare che qualcosa si stia smuovendo, che chi è riuscito a sfuggire al Decreto, chi è riuscito a tenere nascosta la propria identità, si stia organizzando e mediti un attacco.»

Nota la speranza accendersi nei suoi occhi e forza un sorriso incoraggiante, fiducioso. «Se questo è vero - e sono quasi certa che lo sia -, riusciranno a tirare fuori Mar’i e tutti gli altri da lì. La rivedrai presto.»

Dick annuisce e si china a baciarle la fronte, aggrappandosi a quella speranza come se ne andasse della propria vita.

*

Fuori dai Centri, Mar’i è una donna forte che sta mettendo su famiglia, è un’eroina con una propria squadra che sembra non temere nulla, assolutamente capace in quello che fa e nella gestione degli Outsiders. È una donna che non ha bisogno di lui, che ha trasformato la distanza dalla famiglia nella fonte del proprio coraggio.

In quella che Dick si è costruito con Helena e Martha sembra non volerci assolutamente entrare, nonostante i suoi sforzi; se ne tiene all’esterno, evita i suoi tentativi di riconciliazione, si limita a freddi incontri di cortesia, quando non riesce proprio ad evitarlo.

Gli errori che l’hanno condotto a questo punto, Dick li conosce fin troppo bene - sa che avrebbe dovuto starle più accanto, essere più dalla sua parte, comportarsi da padre e non da amico, tenerla in considerazione, giungere a compromessi, dirle più spesso quanto l’ama, dirle più spesso quanto è importante per lui, dirle più spesso “scusa” - e sa che faranno sempre parte dei suoi fallimenti, delle cose che non è riuscito a sistemare. Sa che il silenzio dietro cui Mar’i si è nascosta rappresenta la sua punizione personale e sente di meritarla completamente.

*

«Hai visto mio padre?»

Caleb non si sorprende del sentirle pronunciare una domanda del genere. Ha ormai capito da tempo di essere incapace di nasconderle qualsiasi cosa di qualsiasi genere, così semplicemente annuisce e dice, «Mi ha chiesto di te, come ogni volta.»

L’informazione a Mar’i non risulta affatto nuova. Annuisce quasi distrattamente e, se Caleb non la conoscesse bene quanto la conosce, potrebbe pensare che non ha sortito in lei alcun effetto. Invece nota con facilità il pugno chiuso posato sulla sua coscia, la fronte leggermente aggrottata, e sa quanto il solo nominare Dick l’abbia turbata.

Va a sedersi accanto a lei sul divano, le prende quella stessa mano stretta a pugno e la tiene tra le proprie. «Vuoi parlarne?»

Mar’i gli lancia un’occhiata rapida, poi torna a fissare il televisore e scuote la testa. Non districa la mano dalla sua presa, tuttavia, e l’uomo sa che è solo questione di tempo prima che i suoi muri cadano.

«È che vederlo riporta a galla troppe cose. Troppi ricordi, troppe sensazioni,» ricomincia infatti la donna senza guardarlo, dopo qualche istante. «Fa male.»

Caleb stringe la sua mano più forte e annuisce, dice che la comprende.

«A volte vorrei davvero tornare da lui,» replica Mar’i, stringendosi nelle spalle. «Ma poi penso che sono successe troppe cose, che non mi capirebbe. Penso che non mi abbia mai davvero capita, sai,» sospira.

«Anche lui vorrebbe che le cose fossero diverse,» afferma il suo compagno. È una frase che ha già ripetuto in diverse occasioni ed è qualcosa che la donna conosce alla perfezione, ma che comunque non le basta. Tace ancora, per tornare a parlare dopo qualche ulteriore motivo, spostando la mano che lui non le sta tenendo sulla curva sempre più evidente della propria pancia. «Gliel’hai detto?» domanda.

«Sì.»

«E…?»

«Ha risposto che avrebbe preferito saperlo da te.»

Mar’i non dice più nulla; rimane in silenzio e torna a guardare il film come se quella conversazione non ci fosse mai stata. Un tempo, per qualcosa del genere, avrebbe sicuramente pianto.

*

Ha pensato a lungo se essere lei a dargli la notizia o mandare qualcun altro al suo posto. Il desiderio di non vederlo - soprattutto non per annunciargli quello - le preme forte nello stomaco, ma alla fine Mar’i si fa forza e chiede a Susan di accompagnarla all’appartamento del padre, ancora con l’uniforme da poliziotta addosso.

«È meglio se aspetto in auto,» le sorride l’amica, quando accosta esattamente di fronte al portone del palazzo. Mar’i ha l’istinto di dirle di no, di salire con lei perché non è certa di farcela da sola, ma alla fine desiste e si limita ad annuire.

È la prima volta che risale quelle scale e suona quel campanello, da quando se n’è andata anni prima, e il gesto la riporta inevitabilmente indietro a quel tempo. Non è facile e non è bello, soprattutto quando ad aprirle la porta è Martha.

La ragazza le rivolge uno sguardo sospettoso, con un sopracciglio sollevato, ma si fa subito da parte e dice: «Entra, te lo chiamo subito.»

Mar’i va verso la cucina come se fosse pratica del posto - e lo è, perché non è cambiato assolutamente nulla - e Dick compare alle sue spalle poco dopo.

L’espressione sul suo viso è di gradita sorpresa, ma c’è un’ombra in fondo ai suoi occhi, come se non si aspettasse nulla di buono da quella visita, non in fondo. Lei decide di tagliar corto, così che il tutto duri il meno possibile.

«Mamma è morta,» annuncia. «Lei e Ph’yzzon sono stati vittime di un colpo di Stato.»

Lo stomaco le si attorciglia nel pronunciare quelle parole e, dal modo in cui lo sguardo di Dick cambia, dalla sua mano tremante che si muove verso una sedia per scostarla e lasciarsi cadere su di essa, può dire che anche lui si sente nello stesso modo.

Stringe i pugni, facendosi forza. «Il colpevole è stato preso e giustiziato,» continua, come se stesse annunciando una notizia che non la riguarda appieno. «E domani io e Nick partiamo per Tamaran, ci sarà il funerale e voglio esserci.»

Dick si porta le mani al viso e ve lo nasconde dietro. «Kory,» sussurra dolcemente, come se solo con quel nome lei potesse sentirlo. Lo stomaco di Mar’i si attorciglia di nuovo ed è solo nel desiderio di non piangere davanti al padre che trova il coraggio di proseguire.

«Se vuoi venire,» mormora, «nella navicella c’è ancora posto. Potresti avvisare anche…» gli zii, «il resto della tua vecchia squadra.»

Dick annuisce, «Sì, ci sarò, ci saremo di certo. Lasciami solo il tempo di chiamarli e…» la sua voce sfuma in un silenzio disperato e poi i suoi occhi finalmente si sollevano e incrociano quelli della figlia. «Mar’i,» sospira e fa per alzarsi e andarle incontro. La volontà di abbracciarla lei gliela legge addosso, ma quello non potrebbe davvero sopportarlo senza scoppiare in lacrime.

Leva una mano, bloccando il suo gesto a metà, e dice, «No. Sto bene. Sto…» malissimo, «bene.»

Suo padre la fissa senza crederle per un lungo momento, ma non prova di nuovo a toccarla. «Adesso scusami, devo andare. La mia collega mi sta aspettando di sotto,» la sente dire e accoglie la scusa, il suo bisogno di andarsene, senza fare nulla per fermarla.

Solo quando Mar’i è già uscita dalla cucina per dirigersi verso l’ingresso, Dick trova il coraggio di muoversi e, affacciandosi sulla soglia, chiederle: «Porterai anche lui?»

Mar’i si ferma e si gira a guardarlo da sopra una spalla. «Sì, certo.»

«Ha solo cinque anni, non credi che affrontare un viaggio del genere sarebbe…»

«Mio figlio è forte,» lo interrompe la donna. Non gli lascia modo di dire altro, raggiungendo la porta in ampi passi. «Ci vediamo domani,» lo saluta e in un attimo è uscita ancora una volta da quella casa.

*

Non voleva andarci. La notizia della morte di suo zio è stata già troppo difficile da affrontare, già un pugno nello stomaco; rivedere Villa Wayne le avrebbe fatto solo peggio ed era da quando Ibn l’aveva salvata da quello stupido Starro che aveva il terrore di guardarlo negli occhi.

Era stato Bruce ad insistere. «Hai tutto il diritto di andare a quel funerale senza temere un bel niente,» le aveva detto, il solito tono sicuro a cui sembrava impossibile ribattere. «Tim Drake è stato la tua famiglia molto più di quanto sia stato la loro.»

Mar’i aveva annuito ed è per quelle parole che adesso si trova lì, la mano di Caleb stretta nella sua e quella di suo figlio appoggiata su una spalla. Questa volta, davanti alla funzione religiosa, non si sforza nemmeno di trattenere le lacrime.

Dopo, Dick non può evitare di andare da lei, gli occhi a sua volta arrossati - perché non è giusto che li abbia visti morire tutti, non è giusto -, ma a fermarlo c’è lo sguardo di Bruce.

Ha cominciato a guardarlo in quel modo quando aveva solo otto anni. È un’occhiata che significa disprezzo, rancore, ma anche sfida, come se, ogni volta che lo vedesse, fosse sul punto di dirgli: «Vediamo chi vince.»

La posta in palio, Dick non ha idea di cosa sia, né è certo che, se mai quella sfida verrà esplicitamente lanciata, lui la coglierà e l’affronterà - lasciarlo vincere, al momento, gli sembra la soluzione più opportuna: è sangue del suo sangue, dopotutto.

Il ragazzo gli va incontro, abbandonando il fianco di sua madre, poco prima che lui riesca ad avvicinarsi davvero. «Lasciala stare,» gli ordina, fissandolo negli occhi con un ghigno di sottile scherno ad increspargli le labbra. «È già abbastanza sconvolta.»

Dick sente il bisogno di giustificarsi. «Volevo solo salutarla,» replica.

«Se avesse voluto salutarti sarebbe venuta lei da te, non credi?»

Prova pena per lui, Bruce, in un modo tanto evidente che Dick non può fare altro che notarlo e prenderne coscienza. La frase gli scava un buco nel petto e lo porta a pensare: ha ragione. Abbassa lo sguardo e, annuendo, replica: «Potresti dirle che se vuole parlare sa dove trovarmi?»

«Non mancherò,» sbuffa Bruce ed entrambi sanno benissimo chi ha vinto. L’uomo ritorna sui propri passi, raggiungendo Helena e Martha, abbracciando sua figlia - l’altra sua figlia - e tenendola stretta per un po’.

Quando Bruce si affianca nuovamente a sua madre, lei gli domanda: «Cos’ha detto?»

Lui le porge il braccio, lascia che lei glielo prenda e, stringendole la mano, risponde: «Nulla. È solo un gran vigliacco.»

«Non parlare così di tuo nonno,» lo ammonisce Mar’i, ma, con la voce ancora rotta dal pianto, è un rimprovero privo di forza.

*

Capisce subito che c’è qualcosa che non va non appena mette piede nella pasticceria. Meg, Josh, Ramsey, Mark e Danielle sono tutti seduti ad un tavolo, il locale deserto, e i loro occhi si spostano immediatamente su di lei nello stesso istante in cui varca la soglia.

«Che succede?» chiede, il respiro che già le viene meno. Dietro di lei, la porta si apre di nuovo e una signora di mezza età fa il suo ingresso; Ramsey ringhia: «È chiuso,» e la donna torna sui propri passi senza osare ribattere. Poi l’uomo si alza e, prendendo le chiavi da Danielle, va a chiudere la serratura.

«Che succede?» ripete Mar’i. Si dice di andare a sedersi con loro, ma non trova la capacità di muoversi; il suo primo pensiero va a Bruce, che non vede da un paio di settimane, e inizia silenziosamente a pregare che non gli sia successo niente.

Ramsey le appoggia una mano sulla spalla e la spinge leggermente in avanti, riuscendo a farla muovere e a farla sedere accanto a Margareth. La donna le prende la mano, la stringe e dice: «Si tratta di tuo padre e della sua compagna, Mar’i.»

Il mondo le crolla addosso. Comincia strenuamente a riflettere: Caleb non ha accennato a nessuna malattia, quando si sono visti qualche giorno prima, non le ha lasciato intendere niente che potesse prepararla a questo. Incidente? Non se ne parla, Dick Grayson non sarebbe mai morto in un incidente. Così la conclusione è semplice, quasi elementare.

«Chi è stato?» soffia fuori, debolmente.

Meg abbassa gli occhi, Danielle ha un fremito e si stringe nelle spalle. Mark e Ramsey si guardano e si avvicinano istintivamente l’uno all’altro; Josh si passa una mano tra i capelli, espira e finalmente lo dice: «Bruce.»

Certo, pensa Mar’i, ovvio. «Bruce,» ripete, guardando un punto imprecisato della stanza e annuendo.

«Non sappiamo se c’è lo zampino della Luthor,» riprende Mark, debolmente. «Aelita ha detto che sembrava essersi preso una sbandata per la figlia, Wendy, ma…» si interrompe, incapace di continuare.

Ramsey finisce al suo posto: «Ma Dick e Helena si erano ritirati da una vita, non avrebbe nessun senso.»

Mar’i scuote il capo. Nella sua testa è tutto tremendamente chiaro, tutto perfettamente spiegabile; emettere a voce quelle parole, però, non è facile. È certa di star tremando, quando finalmente riesce a dire: «Non l’ha fatto per lei. L’ha fatto per me.»

Nessuno sa cosa replicare.

*

«Cosa ci fai qui? Cosa cazzo ci fai qui?!» L’urlo di Martha le scava a fondo nel petto, come se ciò che le è rimasto intatto del cuore le fosse stato preso e spappolato in un pugno. Mar’i rimane immobile, incapace di ribattere. Si stringe maggiormente al braccio di Caleb, quasi a proteggersi, e resta lì a sentirsi colpevole e meritevole di quegli insulti.

«Non hai nessun diritto di partecipare al suo funerale!» Martha fa un passo in avanti, dando l’impressione di volerla colpire, ma Jack e Catherine le compaiono ai fianchi e la trattengono. «Basta, smettila,» l’ammonisce il ragazzo e lei lo ignora.

A voce più bassa, riguadagnando un minimo di calma e compostezza, per quanto la rabbia e le lacrime le permettano, afferma: «Te lo ammazzo, quel pezzo di merda di tuo figlio, se me lo trovo davanti. Te lo ammazzo.» Suona come una promessa e Mar’i ne è tristemente consapevole, ma non trova la forza di ribattere niente; Martha, infine, lascia che Jack le passi un braccio attorno alle spalle e si allontana con lui e Catherine.

Lei si guarda intorno; la stretta di Caleb non le dà il coraggio che vorrebbe e muoversi è ancora difficile. Registra inconsapevole tutti i presenti, la loro distanza imbarazzata, come se non sapessero cosa fare o come avvicinarla; c’è Lian, ci sono Robert e Cerdian, Iris e Jai: ricorda ancora con calore l’abbraccio in cui l’hanno stretta poco prima, ma ora Mar’i non ha la forza di affrontarli e loro non riescono a trovare le parole giuste per farlo - probabilmente perché non ne esistono.

Quando Donna Troy arriva e, senza badare al resto dei presenti e al loro disagio, alle loro domande, alle loro accuse implicite, l’abbraccia, scusandosi per l’atteggiamento di Martha come se fosse colpa sua, Mar’i non riesce a fare altro che stringersi a lei e scoppiare a piangere.

*

Mentre la bara viene calata nella fossa di terra, Mar’i pensa a suo padre.

Il primo ricordo che ha di lui risale al giorno della partenza di Koriand’r. Lei aveva iniziato a piangere quando la donna era diventata niente più che un puntino luminoso nel cielo, nonostante le rassicurazioni e le promesse, e Dick l’aveva presa in braccio. Allora gli aveva allacciato le braccia al collo e aveva stretto forte, mentre il padre le sussurrava all’orecchio: «Ci sono io, piccolina, ci sono io. Non ti lascio.»

Ricorda che la paura era scomparsa, a quelle parole, e che era subentrata una certa calma, una certa sicurezza.

Protetta come allora, nel resto della sua vita, Mar’i non si era sentita più e adesso che suo padre è morto ha l’assoluta certezza che mai succederà di nuovo.

Note parte seconda:
• Tutti i Titans!genitori shippano i rispettivi figli con Robert, sia messo agli atti. XDDD
• Dick e Caleb Chase si conoscono perché, essendo entrambi a NY, si sono già incontrati precedentemente nelle rispettive identità di Nightwing e Vigilante. Per Caleb, Dick è stato una specie di mentore e gli è molto legato. ♥
• Helena Bertinelli non fa parte delle persone controllate dal Governo, perché si è ritirata già nel 2022 e ciò permette a Lena di non considerarla ulteriormente una minaccia. Questo le permette, durante il 27-28-29 di girare più o meno liberamente per la città, ed è lei, infatti, ad entrare in contatto con Caleb, Ramsey, Mark e Katy, che stanno appunto fondando il Movimento di Liberazione.
• Dopo quel pezzo lì, a proposito, doveva esserci una scenetta con Mark travestito da fattorino della pizza che va a dire loro che il Movimento sta per entrare in azione e di non preoccuparsi. XDDD L’ho tolta perché c’entrava poco col tema generale, ma sappiate che è successo davvero. XD
• La vita di Martha era stata minacciata, comunque, yeppa.
• Caleb è bello. ♥
• Non so se è già stato detto altrove o se si è capito comunque, ma Susan Malloy sarebbe la nipote di Gannon Malloy. E’ una poliziotta come lo zio e, quando anche Mar’i entra nel DP di NY, le viene affidata come partner. Le due diventano migliori amiche e Susan entra a pieno titolo nel circolo degli Outsiders. ♥
• Koriand’r e Ph’yzzon (che sarebbe il padre di Nick, cioè lui) vengono uccisi su Tamaran nel 2036.
• Anche dopo tutto questo tempo, e dopo che si è rivelato meno pericoloso di quanto credessi all’inizio, Bruce Grayson continua a terrorizzarmi tutte le volte che lo scrivo. \o/
• Tim Drake muore nel 2045, per cause assolutamente naturali. T_T Anyway, il riferimento allo Starro riguarda quando avviene due anni prima, nel ’43, quando l’Injustice League infetta la sede della JLA con degli Starro modificati da Leonard che prendono il controllo dei membri e si diffondono a macchia d’olio. Ibn riesce a liberare Mar’i da quello che la controlla poco prima che faccia del male a Jai West (e poi va beh, con Zachary Jr. trovano la cura e tutti vissero felici e contenti tranne qualcuno). <-- ci siamo auto-plagiate, sì. XDDD
• Non odiate Martha. T_T Qui non emerge quanto sia epica e lovva e amabile, perché è altrettanto impulsiva nelle sue reazioni. ç_ç Dice le peggio cose a Mar’i, ma loro due non si sono mai capite, non hanno mai avuto un terreno di confronto e, soprattutto, Martha in quel momento odia Bruce tantissimo, mi pare chiaro il perché.
• Che poi, il funerale di Dick non si esaurisce di certo in quanto ho scritto. T_T Avrei voluto raccontare di più, ma anche in questo caso sono stata costretta a tagliare, perché se no uscivo fuori traccia alla grande. \o/ Anyway, una di queste scene riguardava Helena e Tim Wayne che si avvicinano a Mar’i e, soprattutto, una riappacificazione tra Mar’i e Helena (che dopo quanto ha visto fare a Selina la capisce più di chiunque altro). Era bellaaaa! T_T Prima o poi spin-offerò.
• Bon, credo sia tutto. Scusate se le note sono quasi più lunghe della fic, ma ho l’ansia che una virgola passi incompresa!!!! *_*"
• *fugge*

autore: cialy, pg: caleb chase, cronologia: 2043/2049, cronologia: 2023/2030, pg: bruce wayne, pg: helena bertinelli, cronologia: 2031/2042, * fic, pg: tim drake, pg: bruce grayson, pg: mar'i grayson, verse: lovvoverse, pg: dick grayson, pg: martha grayson, cronologia: 2000/2016

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