[Axis Power Hetalia] Caleidoscopio - l'Aquila

Feb 26, 2014 23:17




Titolo: Caleidoscopio
Fandom: Axis Powers Hetalia
Personaggi: GerIta (LudwigxFeliciano), Spamano (AntonioxLovino); RoChu; PruCan; altri personaggi e altre coppie compariranno nei capitoli a seguire.
Rating: Arancione
Parte: 18/?
Avvertimenti: AU (Alternative Universe); Tematiche Delicate; Yaoi e Lemon (nei capitoli successivi)
Riassunto: L’equilibrio della Confederazione Siderale era garantito da tempi immemori dall’Asse, il primogenito della famiglia Vaticana Vargas; l’Asse era il cardine su cui ruotava tutto l’universo conosciuto.
Per questo quando nacquero i gemelli del signor Vargas vi fu grande timore: era risaputo che i gemelli erano uno spirito diviso in due corpi, e un ragazzo con lo spirito a metà non avrebbe mai potuto reggere il destino della Confederazione. E, per un bene maggiore, occorreva affrontare dei sacrifici: il più turbolento dei gemelli venne abbandonato a morire su un pianeta desertico.
Ma nessuno aveva considerato il legame profondo che incatenava i due fratelli.
Entrambi avrebbero fatto precipitare anche il cielo, pur di ricongiungersi con il consanguineo.
Dal diciottesimo capitolo: "Beh, Aquila, non ti resta che volare alto. Le stelle non si raggiungono stando a terra."

Note: I banner della storia sono opera di Calu-tan<3

Capitolo Diciotto:  l’Aquila

Il volto marmoreo di Kiku rimase immobile mentre la tempesta rabbiosa vomitata dal consigliere si abbatteva su di lui. Le parole sferzanti dell’uomo non riuscirono graffiare il suo viso di porcellana, né a incrinare il suo sguardo di onice.
Il consigliere infilò seccamente le mani nelle maniche, mettendo fine all’inutile conversazione.
«Non conosciamo la malattia che affligge il nostro sovrano, e non sappiamo come risvegliare il Portavoce del Sole dal suo torpore. Questo fa di te l’unico sopravvissuto tra i vertici del potere, e l’ultima immagine carismatica per il popolo. Ma questa situazione non è stata volontaria, Kiku della Settima Prefettura. Se solo uno di loro fosse cosciente, saresti immediatamente bandito dal castello. La tua incompetenza è intollerabile: hai permesso che l’incolumità del nostro regnante fosse compromessa e, con essa, quella di Chugoku. Tuttavia…» l’uomo gli lanciò lo sguardo che avrebbe riservato a un cumulo di sporcizia da stalla. «… sei l’unico in grado di ispirare fiducia nel popolo. È solo per questo che non sei stato rimosso dalla tua carica. Né tu né la... Stella Polare.»
Il consigliere gli voltò le spalle, senza nemmeno aspettare la replica che non era intenzionato ad ascoltare: qualunque cosa potesse dire quel deprecabile Samurai, non era degna del suo tempo e della sua attenzione.
La katana cantò, scivolando fuori dal fodero e solleticando la preziosa stoffa della tunica del consigliere.
«È Honda» la voce del guerriero risuonò fredda e affilata come la spada che sfiorava delicata la schiena dell’uomo. «Il nostro sovrano mi ha regalato un cognome, il giorno in cui sono stato nominato Samurai. Per rispetto al Figlio del Cielo, vi prego di usarlo, quando vi rivolgete a me.»
Il consigliere fece un passo avanti per distanziarsi dalla lama, e raddrizzò la schiena per sovrastare in altezza il soldato, il cui fisico non era cresciuto quanto le sue leggendarie capacità in battaglia; gli anni di malnutrizione all’orfanotrofio avevano lasciato la loro impronta su quelle membra acerbe.
«Il Figlio del Cielo ti aveva anche assegnato una missione, assieme al titolo e al cognome: proteggerlo. E adesso è preda di un morbo sconosciuto, contratto durante un attacco che il suo guerriero personale non è riuscito a gestire. Oserei dire che non hai rispettato i voleri del nostro sovrano fino in fondo.»
Le labbra di Kiku si asserragliarono in una linea stretta, mentre la spada tornava al suo posto. Il soldato abbandonò il consigliere senza sprecare una sola parola, e si diresse verso la stanza del Portavoce del Sole.
L’uomo scrollò la testa con disapprovazione, e fece per imboccare il corridoio quando un metro e ottanta di guerriero ben addestrato gli sbarrò la via.
Le sopracciglia brizzolate del consigliere si incontrarono in un cruccio sdegnoso. Quello straniero era un’altra delle bizzarrie apportare dal Figlio del Cielo. Lui e tutti gli altri nobili lo avrebbero volentieri raschiato via dal palazzo se non fosse stato tanto popolare tra il volgo.
Il popolo lo acclamava come “l’Aquila”. Nessuno aveva mai capito come fosse nato quell’epiteto. Alcuni ritenevano che fosse un modo per elogiare la sua capacità di arrivare sempre al momento giusto e nel posto giusto, come un’aquila che scansiona il mondo dall’alto per planare solo sulle prede più succulente. Altri ritenevano che fosse un modo per sminuire indirettamente quello che, fondamentalmente, rimaneva uno straniero: il paragone al rapace dalla vista formidabile risultava sarcastico, se associato agli occhiali che sellavano il naso del giovane.
Il consigliere lo superò in fretta, ma non abbastanza da non sentire l’affronto dell’uomo, pronunciato con quel suo accento sbiascicante.
«Il sovrano non è ancora morto. Finché il Figlio del Cielo avrà respiro, il Samurai combatterà per salvarlo. E lo farà. Vedrete.»
L’uomo esalò tra i denti un respiro tremendamente simile a “selvaggi” prima di sparire nei corridoi tortuosi del palazzo.
Una nebbia di compatimento appannò gli occhi dell’Aquila, e fu costretto a battere le palpebre per scacciarla. Provava pena per quei nobili abituati a snocciolare sentenze senza avere la minima esperienza del mondo al di fuori delle loro suntuose tuniche. Gli davano l’impressione di essere dei pesci da acquario, convinti che la loro misera boccia di vetro fosse l’oceano.
Si appoggiò allo stipite cremisi, contemplando in silenzio la scena fraterna all’interno della stanza del ragazzo di Kankoku. Il Portavoce del Sole giaceva dinoccolato sul suo trono, come una marionetta senza fili dimenticata su uno scranno troppo grande, gli occhi spaventosamente fissi e l’espressione tragicamente assente. Kiku era inginocchiato davanti a lui, le palpebre chiuse e le mani insensibili del fratello poggiate alle labbra. Le uniche cose realmente esistenti per il Samurai, in quel momento, erano le nocche ghiacciate premute sulla sua bocca e il bisogno viscerale di vedere di nuovo il sorriso spensierato del giovane. I ricordi dei bei tempi passati insieme diventavano angoscianti come fantasmi, quando si rimaneva soli. Kiku aveva paura di quegli spettri: lo avevano tormentato quando Heracles era morto, e non voleva cadere di nuovo tra le loro grinfie. Aveva tremendamente bisogno che suo fratello gli dicesse che tutto sarebbe andato bene come se fosse davvero possibile che tutto andasse bene.
«Young Soo, se solo tu potessi consigliarmi…»
L’affetto che scorreva in quelle parole non riscosse il Portavoce dalla sua immobilità; il calore dimostrato dal Samurai scivolò a fatica sulle sue membra raggelate, come una goccia d’acqua su una lastra di ghiaccio.
Kiku sussultò a malapena quando l’Aquila gli appoggiò una mano sul capo.
«La Stella Polare attende ordini» comunicò.
Il Samurai si rialzò velocemente, ricompose la sua posa militare e si preparò a una nuova giornata di lavoro. Il giovane straniero lo afferrò per una spalla, trattenendolo vicino al proprio petto.
«Posso sostituirti io, per un giorno» si offrì.
Kiku mosse pochi passi per sottrarsi a quella stretta accorata e recitò, veloce e inflessibile come una scarica di frecce:
«Hai sentito il consigliere: sono l’unica figura autorevole rimasta al momento. Chugoku non può fermarsi. E lo stesso vale per me.»
Il Samurai guadagnò velocemente l’uscita, lasciando dietro di sé solo l’eco dei suoi passi dal ritmo militare.
L’Aquila lo seguì, il cuore pesante come il piombo.
Il consigliere non avrebbe mai estrapolato la sofferenza seminata nelle profondità di quegli occhi di pietra. Nemmeno lui ci sarebbe riuscito, se il loro passato non fosse stato così simile.
Solo chi aveva udito il proprio mondo crollare in pezzi poteva riconoscere lo stridio di un’anima in frantumi.

***

Il ricordo della sua prima missione era vivido nella sua mente come se il suo cuore lo irrorasse di nuova vita a ogni battito
Ricordava le divise tutte uguali, le facce tutte uguali, le espressioni tutte uguali. Tutto era grigio e senza vita, come se i soldati fossero morti nel momento stesso in cui avevano indossato la propria uniforme. Solo uno era diverso da tutti gli altri: un soldato che si sentiva ancora vivo, e aveva voglia di dimostrarlo sorridendo contro il grigiore del mondo.
Lo stomaco di Alfred si era contratto in modo bizzarro: guardare quell’uomo era come vedere il proprio riflesso allo specchio - un riflesso rivestito di carne, con un nome diverso dal suo e i capelli lievemente più lunghi-, entrambi intrepidi soldati di Britannia che non avevano ancora voglia di dichiararsi concime per le margherite.
Si era immediatamente avvicinato a lui, e avevano fatto amicizia in poco tempo. Si chiamava Matt, e si era arruolato qualche anno prima.
Il ricordo più intenso che aveva di quell’uomo era il discorso che avevano fatto insieme sull’eroismo.
«Come mai sei entrato nell’esercito?» gli aveva chiesto una volta Alfred.
La striscia di carne conficcata sul suo spiedino rudimentale si era quasi carbonizzata mentre Matt pensava a una risposta convincente.
«So sparare, so combattere. E ci sono tanti demoni, là fuori, pronti a divorare chiunque non sappia fare altrettanto. Penso che sia giusto che io li sconfigga per proteggere chi non è in grado di difendersi da solo.»
«Quindi ti sei arruolato per salvare le persone.»
La faccia di Alfred aveva scintillato più del fuoco lì vicino, mentre elogiava il collega più anziano. Matt aveva sgonfiato le spalle in un sospiro greve, e aveva ammesso, con una certa vergogna:
«No. Mi sono arruolato per uccidere i demoni.»
«Ma tu hai detto…»
«Non riusciamo a salvare tutti, Alfred. Anzi, raramente riusciamo davvero a salvare la gente. La maggior parte delle volte arriviamo troppo tardi, o i nostri sforzi non sono sufficienti.»
«Ma, allora, qual è lo scopo di un soldato?»
Matt aveva osservato con tenerezza quel ragazzino che fissava il suo grezzo spiedino con un cruccio quasi comico. Invidiava la prima fase dell’adolescenza, in cui si aveva ancora la sensazione di poter afferrare i sogni. Ben presto anche quel piccoletto dal labbro imbronciato avrebbe scoperto che le utopie non crescevano sull’albero della vita, e, se lo facevano, erano su rami troppo lati per essere raggiunti dagli esseri umani.
«I soldati uccidono i demoni. E cercano di prevenire altri massacri» aveva cercato di calibrare Matt.
Alfred non era parso per nulla soddisfatto da quella risposta approssimativa. L’altro aveva spostato la carne - che ormai aveva assunto il colore e la consistenza della suola di uno scarpone - dal fuoco, e aveva tentennato, sperando di soddisfare la sete di speranza del giovane:
«Gli eroi. Gli eroi salvano la gente.»
Gli occhi blu di Alfred tornarono a gareggiare con il fuoco per luminosità. Il ragazzo si era spostato verso di lui, curioso come un animale che sente l’odore di una traccia inesplorata.
«E come si diventa eroi?»
«Oh, devi fare molte cose difficili» Matt aveva agitato vagamente lo spiedino nell’aria, mentre elencava: «Devi salvare tutti, nessuna esclusione. Devi perdonare chiunque ti faccia un torto, e difendere i deboli anche quando la situazione appare disperata. E, soprattutto, devi mantenere un cuore puro e rimanergli sempre fedele.»
«Questo è facile!» aveva declamato Alfred, gonfiando il petto con orgoglio.
Matt aveva scosso mestamente la testa.
«No. Quella è la parte più difficile. Il mondo conosce mille modi per contaminarti il cuore.»
Ipocrisia, invidia, opportunismo. Matt aveva visto i lati peggiori degli esseri umani durante tutti quegli anni. Non riusciva più a credere che le persone di cuore esistessero ancora.
La risposta di Alfred fu di quanto più lontano dall’umano e vicino all’eroico avesse mai udito.
«Il mio cuore è solo mio. E solo io posso decidere se voglio che sia inquinato o no» Alfred aveva strappato un pezzo di carne stopposa e l’aveva masticata con forza, come per rimarcare le sue parole. «Vedrai» biascicò a bocca piena.
A Matt sarebbe piaciuto vederlo scintillare nelle sfere degli eroi, ma non poté farlo. I demoni attaccarono a sorpresa il villaggio in cui erano alloggiati, e le strade si tinsero di sangue e di morte.
Urla, scoppi, ruggiti, mescolati in un vortice nauseante. E, in quella confusione polverosa, la cruda immagine del corpo di Matt, e della porta che gli inchiodava una gamba al suolo. I suoi compagni correvano veloci di fianco a lui, senza nemmeno guardarlo. Se si fossero fermati ad aiutarlo, i demoni li avrebbero divorati, e ogni soldato sapeva che dieci vite valevano più di una. Ma per un eroe ogni vita valeva più della propria: Alfred si fermò, e cercò di liberare il suo amico.
Le sue orecchie non recepirono le urla accorate di Matt, le sue mani non si accorsero di come le schegge della porta divelta le stessero martoriando. Le uniche cose che ricordava di quell’inferno di caos e panico erano il braccio che lo aveva afferrato per lo stomaco, trascinandolo via, e le labbra di Matt che si muovevano a formare un ringraziamento.
Matt non versò nemmeno una lacrima, nel vedersi abbandonato al proprio destino. Alfred lo fece per lui; pianse finché i suoi occhi non diventarono rossi come i suoi palmi feriti e sanguinanti.
«Era il suo primo giorno» sentì un soldato vicino a lui che lo giustificava con un superiore. «Prima o poi si abituerà a queste cose.»
Alfred inghiottì un boccone di muco e amarezza, disgustato. Le labbra tremarono in un respiro malfermo, frustato dalla rabbia che gli incendiò le parole.
«No. Io non mi abituerò.»
L’intera divisione si voltò, sconvolta da quell’ammutinamento solitario. Alfred inalberò il mento, tremante di un’emozione sconosciuta e potente: la sentiva propagarsi dal midollo alle ossa, avvertiva il cuore che la pompava frenetico nelle vene, facendogli ribollire il sangue. La sua anima entrò in risonanza con quella vibrazione terribile, che fece fremere le sue parole con una furia maestosa:
«Nessuno può ammaestrarmi il cuore. Io non voglio diventare un soldato che uccide i demoni. Voglio diventare un eroe che salva la gente.»
Per quanto lodevole, per le orecchie di ferro dell’esercito quella dichiarazione equivaleva a un atto di tradimento.
Il giovane Alfred fu quindi allontanato con disonore e abbandonato su Chugoku, il primo pianeta sulla loro rotta, e le navi Britanniche ripartirono senza di lui.
Sistemò gli occhiali, rimboccò le maniche e inghiottì le lacrime. Non si fece intimidire dal terrore che vide serpeggiare negli occhi della gente al suo passaggio: i suoi lineamenti, su quella terra, erano stampati sui libri di storia di fianco alla scritta “oppressori”.
Erano trascorsi secoli dalla guerra sino-britannica, ma gli orrori di quelle battaglie erano passati dalla bocca dei superstiti alle orecchie dei successori, che le avevano poi impresse su carta e cantate nelle ballate belliche.
Alfred non abbassò mai le spalle nonostante i continui bisbigli che strisciavano sulla sua schiena, e non piegò la testa sotto la pressione del pregiudizio. Era un eroe, e glielo avrebbe dimostrato.
Cominciò salvando la piccola Lin. La madre lo guardò carica di sospetto, come se lo avesse visto gettarla dentro il pozzo e non tirarla fuori da esso. La bambina provò di avere il cuore più grande di tutti gli adulti presenti: si sporse verso il giovane dalle braccia della madre e appoggiò un bacino su quelle guance ancora sporche di acqua limacciosa.
Poi aveva salvato un adolescente da una carrozza in corsa, aveva messo in fuga un pericoloso lupo, aveva contribuito alla costruzione di un sistema per l’irrigazione dei campi, aveva consegnato innumerevoli criminali alla giustizia.
Aveva scalzato il mosaico di preconcetti che gli avevano fissato addosso un tassello per volta, finché la gente non era finalmente riuscita a vedere Albert, e non lo “straniero di Britannia”.
Tutto il suo corpo era diventato una papilla gustativa quando per la prima volta una signora gli aveva portato degli onigiri in segno di ringraziamento: quei chicchi di riso gli erano sembrati la cosa più gustosa che avesse mai assaggiato. Era la spezia della vittoria a renderli così squisiti.
Quegli anni erano stati un susseguirsi di piccoli e grandi successi, e poteva vantarsi giustamente di aver rispettato i canoni dell’eroe: aveva mantenuto un cuore puro ed era rimasto fedele ai suoi principi, perseguitando i malfattori e salvando gli innocenti.
L’appellativo “l’Aquila” era sorto spontaneamente: non si sapeva chi fosse stato il primo a pronunciarlo ma tutti lo conoscevano, come fosse se stato generato dalle strade della città. L’ex-soldato di Britannia si era inorgoglito per quell’epiteto: essere paragonato a un rapace così nobile era un grande onore, e si sarebbe impegnato affinché l’Aquila volasse sempre più in alto.
Il pallido sole di marzo osservò Alfred mentre si imbatteva nel suo destino. Alcuni pericolosi criminali erano stati condotti alla loro città per essere giustiziati tramite impiccagione. Erano i fautori della strage nella Piazza della Pace, in cui avevano perso la vita numerosi innocenti, per la maggior parte studenti. I familiari delle vittime erano in prima fila, vestiti di bianco e con una furia cieca negli occhi affogati di lacrime: bramavano di vedere quegli uomini penzolare dai cappi, e allo stesso tempo sapevano che la loro morte non gli avrebbe restituito i loro figli.
Perfino il Figlio del Cielo era presente: per quella tragedia era stato dichiarato il lutto nazionale, e i drappeggi del Palazzo erano stati incupiti in un nero funereo dal Portavoce del Sole in segno di cordoglio.
I criminali sfilarono lungo la stretta passatoia che li avrebbe portati alla loro ultima meta. Il tempo sgroppò come un cavallo imbizzarrito quando quella stasi si ruppe: i polsi nerboruti dei criminali furono improvvisamente liberi dalle catene, e spalarono brutalmente la folla per guadagnare la libertà.
L’Aquila non fece in tempo a spiccare il volo che un guizzo bianco pose fine a quel putiferio. La folla ebbe solo l’impressione di una piuma di luce che fluttuava con una grazia spietata tra la folla, aprendo eruzioni di sangue con un sibilo argentato. Quell’apparizione durò solo pochi secondi. Quando finalmente il tempo riprese a scorrere normalmente, la piazza si rese conto che l’esecuzione non sarebbe più stata necessaria: i criminali giacevano al suolo, esangui, ognuno colpito una sola volta in un unico punto vitale. Heracles gocciolava sangue per terra, e qualche spruzzo cremisi aveva insozzato la divisa immacolata del Samurai e il suo viso latteo.
Alfred aveva sentito i polsi tremare, a quella vista. Quell’uomo, più piccolo di lui di tutta la testa, era la personificazione della dignità guerresca: aveva il volto fermo, ma non assente, gli occhi solidi eppure in movimento, l’animo saldo e vibrante al contempo. Era la bellezza contraddittoria e terribile della battaglia che riviveva in quei lineamenti d’acciaio.
«Mi dispiace per non aver permesso al boia di fare il suo dovere» si scusò cortesemente il giovane, scrollando la katana prima di pulirla velocemente su un panno e tornare al fianco del sovrano.
I più malevoli avrebbero detto che aveva pedinato il Samurai tutto il giorno finché non lo aveva finalmente trovato da solo; Alfred preferiva dire che aveva fatto un appostamento mirato per non perderlo d’occhio.
Seguire assiduamente l’incaricato ufficiale alla sicurezza del regnante e pensare di non essere scoperti era come pretendere di guadare un fiume e uscirne asciutti. Alfred avvertì le spade che il guerriero aveva per occhi trafiggerlo non appena mise piede nella sala da the. Il Samurai era seduto a un tavolo, schiena dritta, gomiti stretti e la testa appena inclinata in un’esternazione di aspettativa. Alfred impiegò qualche secondo per capire di essere l’oggetto di quell’attesa.
«Ho notato il suo inseguimento» il soldato parlò con calma adamantina, mentre gli indicava la sedia di fronte a sé. «Ma non ho notato intenti bellicosi. Deduco quindi che non mi stai seguendo per uccidermi o per ferire il sovrano. Tuttavia, i miei sensi deduttivi non sono abbastanza affinati da permettermi di capire cosa tu voglia da me, nello specifico.»
Alfred si sentì improvvisamente fuori posto di fronte a quella scultura umana. Il Samurai sedeva con una compostezza impeccabile, come se fosse nato in quella posizione austera, e lo fissava con la calma di chi sa di poter sistemare qualunque inconveniente con la propria superiorità fisica e intellettuale. Al contrario, Alfred non riusciva a stare fermo su quella sedia troppo rigida o ad avere la stessa aura affascinante e intimidatoria. In fondo, erano un mito forgiato dalle sfere regali e un eroe sorto dai fanghi popolari.
Nonostante l’abissale divario tra loro, Alfred racimolò la sfrontatezza necessaria per chiedere al Samurai:
«Mi alleni, per favore.»
Un sopracciglio si arcuò, indeciso se deriderlo con discrezione o valutare seriamente quella richiesta. Si livellò di nuovo in un’espressione neutra quando le labbra si aprirono per formulare:
«Per quale motivo?»
«Vorrei combattere anche io come lei.»
«Cioè in che modo?»
«Con la stessa velocità, con la stessa precisione. Colpendo solo i colpevoli e salvando gli innocenti…»
La parte finale della frase sfumò nel delicato scroscio del the versato nelle due tazze. Il Samurai appoggiò il corpo panciuto della teiera sul tavolo, si servì di un lungo sorso e rispose.
«Lo stai già facendo, mi risulta. Ti chiamano l’Aquila, non è così?»
«Voglio fare di più!» Alfred quasi si morse la lingua; non aveva alzato la voce più di tanto ma, se paragonato al tono pacato dell’altro, aveva praticamente urlato. Rimase qualche secondo in silenzio mentre le parole udite per la prima volta tanti anni prima si cristallizzavano sulla sua lingua.
«Voglio diventare un eroe che salva le persone.»
«Perché?»
Non si aspettava una domanda così diretta, né così immediata.
Alfred fissò il liquido scuro nella sua tazza. Il passato si ripresentò come un’allucinazione sulla superficie nera del the: la porta crollata sulle gambe di Matt, e la terribile rassegnazione con cui lo aveva guardato mentre lo portavano via, sapendo che non si sarebbero visti mai più…
«Perché nessuno dovrebbe morire senza poter dire addio.»
Quell’ultima frase sembrò destare l’interesse del Samurai; una minuscola scintilla crepitò per un istante all’interno delle sue iridi d’ebano. Il giovane sorbì di nuovo il suo the, appoggiò la tazza e lo fissò con un sottile velo di curiosità sul viso.
«Questo è un buon motivo.»
Si alzò dal tavolo con eleganza marziale, e Alfred si sentì di nuovo inadeguato per il modo grossolano in cui si separò dalla sedia. Per essere un eroe non importava essere aggraziati, per cui non aveva mai dato troppa importanza ai suoi gomiti che atterravano puntualmente sul tavolo durante il pranzo o al modo in cui colava sulla sedia quasi fosse senza ossa. Cominciava a pentirsi di quella sua disattenzione all’etichetta: accostato al Samurai, pareva un sacco di tela che tentava di assomigliare a un drappo di seta.
Il giovane lo aspettò finché non ruzzolò fuori dal locale.
«Cosa vedi?» fu l’inaspettata domanda che gli rivolse.
Alfred equilibrò gli occhiali sul naso, e osservò lo spazio intorno alla ricerca di una risposta soddisfacente. I negozi effondevano un piccante odore di cibo e spezie, l’acciottolato schioccava sotto le scarpe della gente, il vociare delle famiglie scrosciava dalle finestre semiaperte delle case. Ma non trovò la risposta nel profumo di cucina, e nemmeno nel marciare sulle strade; seguì lo sguardo del soldato, appuntato su un cielo nero come le sue iridi.
«Non ci sono stelle» notò.
«Su Britannia ci sono?» Kiku non distolse lo sguardo dalla volta celeste inanimata, mentre lo interrogava.
«Sì» confermò Alfred, disturbato da quella cappa di carbone. Era la prima volta che fissava il cielo di Chugoku così intensamente, e non vedere nemmeno una capocchia di luce era quasi soffocante. «La più importante di tutte è la Stella Polare, per orientarsi durante le navigazioni.»
Alfred scostò gli occhi da quel cielo perturbante, e quasi trasalì nel vedere due iridi ancora più nere che lo scrutavano, pronte a giudicare le sue successive parole.
«Sei disposto a lottare per riportare le stelle nel cielo di Chugoku?»
L’Aquila non comprese quella domanda, ma annuì comunque. Voleva diventare forte e temibile come quel piccolo combattente. Avrebbe sparso una manciata di stelle in cielo, se fosse servito a raggiungere il suo obiettivo.
Kiku inclinò il capo, accondiscendente.
«Allora seguimi, Aquila.»

Parte Due

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