[Soccerdom] ~ Wish I could show a little soul.

Aug 31, 2010 20:24

Titolo: Wish I could show a little soul.
Fandom: RPF - FC Barcellona/Inter FC.
Personaggi/Pairing: Dani Alves, Douglas Maicon. (Malves.)
Rating: VM18.
Warning: Angst. Slash.
Word Count: 1692.
Disclaimer: Non sono miei, oggi meno che mai.
Note: L'ultima Malves che scriverò. A volte è così che va.



Wish I could show a little soul.

Nelle notti di estate a Daniel capita di uscire fuori spesso, di notte - non di sera, di notte, in quelle ore stupide e vuote che chiunque riempirebbe di sonno e sogni ma che lui preferisce riempire in altri modi, ad esempio con camminate, birre, sigarette o parchi deserti.
L'estate è un ottimo espediente per buttare un po' tutto all'aria; per darsi regole e non rispettarle, per tratteggiare percorsi e non seguirli, per darsi un orario e dimenticarsene, per dormire sul letto fatto cinque giorni prima senza avere voglia né esigenza di tirarsi addosso le coperte. Lui che il letto non sa nemmeno farlo come si deve. Lui che dormirebbe anche per terra, dopotutto.
Ad ogni modo, la grande variazione del tema, il grande sbando, è ciò che si porta con sé Agosto assieme a tutto quel caldo sgocciolante e a quelle luci placide che illuminano il pomeriggio inoltrato. Daniel non saprebbe propriamente spiegarlo, la fine di Agosto è un po' strana e un po' letargica, è un po' come un film che è stato delizioso fino all'ultima mezzora, nella quale subentra un finale che convince poco e quasi sfigura confrontato col resto.

- Per favore, non mi chiamare più. -
- Sei stato tu a chiamarmi. -
Un sospiro pesante dall'altra parte, così caldo e opprimente da trasmettergli la nausea. Voglia di vomitare.
- Lascia stare. -
- Mi dispiace. -
- Lascia stare. -

Però in realtà va anche bene così, Daniel si rende conto che sbadigliare diventa un po' un automatismo e dormire il pomeriggio viene da sé, pur rendendolo apatico per ore e ore una volta sveglio, ma tanto in fin dei conti sono periodi e dopo Agosto viene Settembre e a Settembre si riprende a sudare da morire tra partite e allenamenti e allenamenti e partite e insomma, non si può volere tutto dalla vita.
Così come la vita non può volere tutto da lui.
Sono periodi.

- Posso... toccarti? -
Douglas aveva inspirato senza guardarlo, aveva annuito brevemente ma sembrava assorto in tutt'altro tipo di pensieri, così Daniel aveva sospirato e gli era rimasto sdraiato accanto senza muovere un muscolo, guardandolo e basta, respirando piano... e basta.
Faceva un po' caldo, erano a torso nudo ed era buio, un buio bluastro un po' strano che si riversava sulla loro pelle per via della poca luce che filtrava dalla finestra. No, in realtà faceva tanto caldo, un caldo da morirci.
A Daniel stare con Douglas piaceva, anche se a volte il loro rapporto sembrava quasi più un autocompiacimento personale, un poter dire sia da un lato sia dall'altro che c'era in corso qualcosa con qualcuno - un modo come un altro per non stare veramente da soli, in fondo. Eppure andava bene, andava abbastanza bene, tutto sommato, perché dava quantomeno l'impressione di far star bene entrambi, cosa che in quel momento sembrava bastare. Grosso modo.
- Che ore sono? -
- Non ne ho idea. -
In realtà Daniel lo sapeva, sapeva che era l'una e mezza del mattino e che non aveva sonno proprio per niente, aveva voglia di fare qualcosa ma non sapeva cosa, aveva voglia di salirgli addosso e ridere di una qualsiasi cazzata ma al contempo non gli sembrava il caso, e quel dannato caldo non è che aiutasse granché a schiarirsi le idee.
- Sei ancora mezzo vestito. - Douglas l'aveva bofonchiato, ridendo un po', e Daniel si era voltato a guardarlo con un sopracciglio inarcato. - Non mi sembrava avessi voglia di... non mi sembrava fosse la serata giusta. -
- Quando mai abbiamo aspettato la serata giusta? - Douglas aveva alzato gli occhi al cielo, guardandolo di sbieco e ridendo apertamente, stavolta. Daniel aveva scrollato le spalle, sospirando, poi si era girato su un lato, tenendo lo sguardo basso. - Ti ho chiesto se potevo toccarti, prima. -
- Ti ho risposto che potevi. -
- Non proprio. - Questa volta era stato Daniel a ridere, dandogli un piccolo pugnetto sulla spalla. - Non mi stavi nemmeno guardando. -
Douglas aveva inspirato, in viso l'aria di chi si sta rimproverando di aver dato il via a una conversazione che non ha idea di come portare a termine. - È strano, Dani. Ed è difficile. Non so come andrà a finire. -
Daniel aveva annuito piano, più per se stesso che per Douglas, sentendosi addosso molto più caldo di quanto non potesse umanamente sopportare. - Per finire, dovrebbe prima cominciare. - Aveva riso stancamente, ignorando l'occhiata un po' ferita e un po' stizzita di Douglas.
Erano rimasti in silenzio per interi minuti, ogni tanto compievano movimenti casuali per potersi voltare appena e controllare se l'altro si era già addormentato, ma nessuno dei due accennava a prender sonno e quel pensiero era per entrambi un sollievo e al contempo uno strazio.
Una mezzora dopo, forse, dopo due o tre ambulanze e qualche risata ubriaca sotto la loro finestra, Douglas gli era rotolato addosso e gli aveva sussurrato di spogliarsi una buona volta.
Daniel lo aveva fatto senza rispondergli nulla, gli aveva morso un labbro e lo aveva toccato, come aveva desiderato di fare dall'inizio della serata. Quando si era portato il suo capo al petto per accarezzarlo un poco e dargli un barlume di sollievo, Douglas aveva rilasciato un sospiro stremato ed esausto; a Daniel non era servito gettare uno sguardo su di lui per capire che si era addormentato.

Ha camminato forse per due ore buone, sono le quattro e venti del mattino e, come previsto, in quei cunicoli non c'è anima viva. Solo ora sente un po' di fresco, la pelle sembra poter respirare al suo posto e lui quasi vorrebbe stendersi lì in mezzo alla strada lasciando stare tutto, lasciando stare la notte, lasciando stare se stesso.
Lasciando stare.
Mi dispiace.
Lascia stare.
Un po' gli dispiace di non essere quel tipo d'uomo che farebbe pazzie per rimediare a un problema, per alleviare il dolore di qualcuno che ama, per dare speranza a situazioni che si manifestano come critiche e tali vogliono rimanere. D'altronde, però, col tempo si è reso conto di poter andare avanti e basta, di potersi fermare per un minuto o un'ora o un giorno in un angolo a prendersi la sua pausa, a sgridarsi o a prendersela col mondo, a piangersi addosso o a commiserarsi, ma dopo un po' arriva sempre il momento di riprendere e buttarsi alle spalle quanto di vano gli è rimasto tra le dita.
I miraggi lo hanno sempre affascinato, ha sempre scelto le persone meno stabili e con esse ha puntualmente costruito piramidi di carte da gioco bagnate, per poi svegliarsi e meravigliarsi di esserci cascato ancora. Oppure no.
Daniel è un uomo di sale, Daniel è un uomo che sa amare a metà, che richiede ma non sempre sa dare, che a volte viene fregato da se stesso ancora più di quanto non riescano a fare gli altri. È, in un certo qual modo, il suo primo nemico e il suo maggiore ostacolo.
Anche adesso, mentre prende in mano il cellulare e lo guarda, incolore, gli viene da chiedersi quanta strada gli rimane ancora da percorrere - un secondo dopo, però, gli viene in mente che non ha la minima idea di dove sia diretto.
Preme un tasto e aspetta, mentre un gatto scatta in avanti a pochi metri da lui e gli fa venire un colpo.

Quei respiri incostanti erano come grosse scommesse notturne; incerte e dettate dalla febbrile smania di andare avanti per salvarsi la pelle. Daniel riconosceva quel timore, quella ruga in mezzo alla fronte che rendeva Douglas l'uomo più sconfitto al mondo, in momenti come quello.
- Hai qualche idea? -
Aveva voglia d'inverno e di giubbotti. Di cattivo tempo e di pioggia, di cose da fare per pensare il meno possibile, di battute che facevano ridere davvero, di sesso, di sesso, di sesso fatto con la persona sbagliata per dimenticarsi di quello drenante, appagante, insostituibile avuto dalla persona giusta.
Aveva voglia di dimenticarsi che era notte, uscire, comprare il giornale e andarselo a leggere dall'altra parte del mondo. E non tornare, magari. Non tornare più.
- Sì, ma non è ne allegra né facile. -
- Ho fame. -
Non aveva fame davvero, aveva voglia di vomitare e sudare in un maglione a collo alto, aveva il bisogno di fare cose che potessero farlo sentire peggio di quanto non si stesse sentendo in quel momento.
- Mi stai ascoltando? -
Aveva voglia di chiedergli un bacio ma era un pensiero talmente stupido. In effetti, era tutto abbastanza stupido.

Sono le cinque, le cinque e un quarto. Le cinque e venti.
È appoggiato a un muro qualsiasi in una strada qualsiasi, il gatto di poco fa è scomparso dietro ad alcuni cassonetti là vicino e si è appena reso conto di aver evitato per puro miracolo un regalino lasciato lì in un angolo da un cane - probabilmente bello grosso, viste le proporzioni del suo lavoretto.
La maglietta a maniche corte gli sembra più piccola, all'improvviso, gli sembra tutto fuori posto - i jeans, le scarpe, quel lampione (ma che senso ha, poi, metterlo lì, in mezzo al niente?), quella traversa, quella piazzetta e tutte quelle biciclette addossate le une sulle altre. E i motorini, anche. E le macchine. Grigie.
Sta aspettando che Douglas - Doug - gli risponda, sta chiamando da non sa quanto e più aspetta più si sente piccolo, e più si sente piccolo più gli viene da piangere. Sta regredendo, Dio santo.
Non gli risponde nessuno e quindi va un po' alla cieca, piange per davvero e comincia a parlare su quel suono snervante e freddo che gli rimbomba nelle orecchie, ci lacrima addosso e dopo un po' gli sembra quasi che gli stia passando.
- Ti ho detto di smetterla di chiamarmi. -
Continua a dirselo, se lo ripete da solo mentre ancora quel gatto rispunta fuori e rimane a guardarlo da dietro la sua spazzatura, gli occhi gialli e vuoti.
Vorrebbe tirargli qualcosa per farlo scappare via, vorrebbe urlargli contro ma non ne ha le forze, così, ancora una volta, lascia stare.

Note randomiche dell'Autrice:

La dedico a me. Questa malinconica serata buttata giù a parole e a sentimenti e a sesso. La dedico a me. Perché quando non posso parlare - perché non mi riesce, perché non sono il tipo da prendere su e ammorbare qualcuno a caso, perché pagherei per poterlo fare a cuor leggero ma proprio no, non è nella mia indole - posso sempre scrivere. Per scrivere non ho bisogno di nessuno all'infuori di me. E io, un po' per forza di cose, mi basto.
Sicché.
La dedico a te, Jan. Tante care cose.

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