[Detective Conan/Lupin III] Cigarette's Smoke // Parte 1

Dec 23, 2012 23:35

Titolo: Cigarette's Smoke
Beta: dylan_mx
Fandom: Detective Conan/Lupin III
Rating: Yellow (come il submarine)
Avvertimenti: what if?, crossover, minor character death, tizi psicopatici a caso, grandi pare mentali
Note: Un ringraziamento particolare a dylan_mx che mi ha sostenuto sempre e comunque oltre a beccarsi i miei infiniti scleri sull'Andreale, su vecchiette che non devono morire e su un clima così gelido che se avessi ambientato la storia in Antartide nessuno avrebbe avuto da ridire e a sanny_pirate, perché la sua fanart è qualcosa di bellerrimo all'ennesima potenza e io le voglio un mondo di bene <3 Crazy Mash proviene dallo special "Il mistero delle carte di Hemingway" (passato in Italia col titolo "Resa dei conti per Lupin"), Ariadne e la famiglia Lenher sono OCs (per Erika mi sono vagamente ispirata a Sami Gayle in "Detachment - Il distacco", ma non mantiene praticamente nulla del personaggio originale).

Gifter: sanny_pirate
Link al gift: Qui <3
Link alle parti successive: Cap 3 + 4 e Cap 5 + 6 + 7


1 - The storm

A volte riusciva a capire, anche solo per un istante, che c’era qualcosa di sbagliato: troppe preoccupazioni, troppi pensieri che lo distraevano dal presente. Era lì, seduto, il suo whiskey davanti come quasi ogni sera, e lui guardava quel bicchiere, osservava quella ditata di sporco sul bordo, una chiara traccia del fatto che la lavastoviglie non funzionava poi così bene o che la cameriera non aveva asciugato con attenzione. Lo fissava con insistenza, ma l’immagine non si imprimeva nella sua mente. Lo fissava come se in quel minimo particolare fosse racchiusa l’essenza del mondo intero, ma la sua mente non la coglieva, il suo pensiero era lontano mille miglia. Perso, completamente perso a cercare.

Ariadne glielo diceva spesso - lo ricordava ora dopo così tanti anni -  lo diceva che, anche quando lui era con lei, in realtà non c’era. Era distante, sempre più distante mentre l’onda lo trascinava a fondo, annaspava per l’aria, l’acqua gli scivolava addosso e gridava, ma la voce non usciva. Aveva sempre avuto questa tempesta dentro, il desiderio inconscio di alzarsi in piedi e gridare a pieni polmoni, gridare fino a rovinarsi le corde vocali. Poi si fermava a pensare, a riflettere sul fatto che forse non valeva poi tanto la pena di alzarsi. Non era quello il punto di rottura, poteva reggere ancora un po’, poteva sostenere il tutto e non far crollare il castello di carte che aveva costruito con tanta cura. Lei non ne aveva colpa, mentre gli altri che ti stavano accanto forse non erano poi così innocenti. E lui, invece, poteva solo biasimarsi per essere nato sbagliato: le persone normali non si fanno uccidere così facilmente dalla realtà.

Pioveva da giorni, ormai, una pioggia battente che non accennava assolutamente a smettere. Il Maria’s Bar era immerso in un silenzio di tomba, rotto solo dal fruscio delle carte sul legno del tavolo; il maltempo aveva dimezzato la clientela e solo dei tristi camionisti e un paio di irriducibili frequentatori avevano avuto il coraggio di uscire dai loro ripari per annegare le loro preoccupazioni in del buon liquore. A Jigen piaceva quel luogo: era tranquillo, intimo, isolato. Poteva fumare senza preoccupazioni, nessuno si lamentava del puzzo in quel posto.

Quel tempo piovoso, invece, gli andava molto meno a genio. Ariadne amava le tempeste, amava uscire sul balcone a piedi nudi, lasciare che il vento le scompigliasse i capelli e urlare con forza quando il rombo del tuono esplodeva nel cielo. Lui restava a fissarla, al sicuro dentro il loro appartamentino. Lui odiava la pioggia, il bagnato, il freddo; avrebbe preferito una poltrona accanto al caminetto, Ariadne al suo fianco e la sigaretta in bocca. E questo lei lo sapeva, perché dopo aver gridato al vento rientrava, bagnata fradicia, si gettava un asciugamano sui capelli e lo raggiungeva, accoccolandosi accanto a lui. Ora che lei non era più lì a confortarlo, la pioggia aveva perso la sua ultima attrattiva.

< E’ qui per te?> La sua voce si perse nel vuoto assieme al fumo della sigaretta. Fissò da sotto la tesa del cappello il volto della ragazza: giovane, pallida, leggermente inquieta. La paura era evidente nei suoi occhi, nonostante lei facesse di tutto per nasconderla. Le sue dita giocavano nervosamente con il bicchierino che aveva davanti. Uno sherry.

< No, lui non sa che sono qui. Non può saperlo.> Un altro silenzio, un’altra boccata di fumo.

< Ne sei sicura? Il tuo amico potrebbe aver parlato.> C’era una nota di dolore negli occhi di Shiho Miyano, una ferita ancora aperta che Jigen non poteva ignorare. Lasciare il suo “amico” era stato il passo più difficile, il prezzo più alto da pagare per ottenere la sua libertà. Shinichi Kudo era di certo un ragazzo sveglio, ma era anche terribilmente coraggioso, tanto da finire per essere avventato: l’ultima caratteristica che doveva avere se voleva sopravvivere all’Organizzazione.

Sherry lo sapeva, conosceva bene quel cocciuto di un detective e i metodi utilizzati dai suoi ex-colleghi non le erano certo estranei: aveva preso la decisione più saggia. Una pillola, una semplice capsula bianca che tenesse lontano il ragazzino da lei e dai guai, cancellando ogni ricordo della scienziata dalla sua memoria. E così aveva fatto anche con tutti gli altri del loro gruppo, tutti quelli che conoscevano la sua vera identità. Aveva curato il suo piano in ogni minimo particolare e poi era sparita in Europa, dove sperava che non l’avrebbero mai trovata.

< Non è possibile. “Il mio amico”… non ricorda più niente. Ho preso le mie precauzioni, Jigen. Sono certa che non può aver scoperto che mi trovo qua. Dev’essere una coincidenza.> Pareva più un tentativo di convincersi da sola che una certezza matematica; l’uomo la fissò a lungo da sotto l’ombra del cappello, la sigaretta ridotta ormai a un mozzicone.

< Se lui scoprisse dove ti trovi…>

< Verrebbe a cercarmi. - Shiho represse un brivido - Sono certa che sarebbe al settimo cielo.> Si portò alle labbra il drink, nel tentativo di annegare in un gesto meccanico la paura che cominciava a farsi sentire con più insistenza.

< Se lui mi trovasse… - continuò lei, guardando di sottecchi l’uomo - te ne occuperesti tu?> Jigen dovette frenarsi per non ridere, ma la bocca gli si storse ugualmente in un mezzo sorriso.

< E’ da pazzi volersi mettere contro un uomo come Gin. Se proprio ci dovessimo incontrare, preferirei non averlo come nemico.> Fu la volta di Shiho di lasciarsi andare ad un sorriso sarcastico.

< Perché tu credi di poterlo avere come amico? Non fare l’idiota, Jigen. Alleati con Gin e appena gli volterai le spalle ti troverai una pallottola in testa.> L’uomo sputò il mozzicone di sigaretta nel portacenere e si portò alle labbra il suo amato whiskey; gli seccava ammetterlo, ma la ragazzina aveva perfettamente ragione.

< Chiunque sia al di fuori dell’Organizzazione è un nemico. Va usato se utile, va eliminato appena non serve più.> continuò imperterrita Miyano, abbassando la voce e lanciando un’occhiata attorno a sé.

La scarsa clientela del Maria’s Bar era ben poco interessata ai discorsi di quella stravagante coppia, ma la ragazza era sempre cauta quando nominava l’Organizzazione: c’erano occhi e orecchie ovunque e lei rischiava troppo in quei momenti.

< Per cui ti conviene pensarci bene prima di fare un passo falso: non avrai un’altra possibilità.> concluse con voce tetra e ingollò d’un fiato quel che rimaneva del suo drink. Jigen studiò con finta attenzione il proprio bicchiere.

< Tieniti fuori dalla faccenda e mi farai un grosso favore. Non ho tutta questa fretta di rivedere il nostro comune amico. Se tutto andrà come deve andare, farà quello per cui è venuto e se ne andrà come se niente fosse. E noi non dovremo più pensarci.>

Se Shiho fosse stata in pericolo, sarebbe intervenuto in sua difesa. Aveva troppi debiti con la scienziata per lasciarla al suo amaro destino, anche se il gioco dell’Organizzazione non lo attirava minimamente. Sperava solo che niente andasse storto e che le loro strade non fossero costrette a incrociarsi nuovamente.

*

Le folate di vento facevano tremare le finestre in continuazione, un rumore che dava terribilmente sui nervi a Vodka. Si aggirava senza sosta nella microscopica cucina del bilocale in cui si erano sistemati, sussultando un poco ad ogni tuono, gettando occhiate preoccupate fuori dalla finestra. Gin era stufo del suo comportamento infantile, ma non aveva neanche voglia di riprenderlo: non era sua madre e non aveva intenzione di diventarlo ora.

Osservò con un certo distacco i documenti appoggiati sul tavolino di fronte a lui: il volto dell’uomo era paonazzo, i baffoni coprivano buona parte del volto e gli occhietti cerulei erano resi più grandi da un paio di spessi occhiali. A vederlo così non pareva proprio un cuor di leone. Bé, che lo fosse o meno, non sarebbe cambiato nulla comunque.

La ragazza, invece, era completamente diversa: aveva fissato l’obbiettivo con uno sguardo che Gin vedeva molto di rado, ma che non mancava mai di mandargli il sangue alla testa. Erano gli occhi decisi, seri, cinici e disincantati da vecchi guerrieri, pronti a smantellare la realtà, a sopravvivere a qualsiasi prezzo, a guardare la morte in faccia. Anche la sua Sherry aveva quegli occhi.

Gettò per l’ennesima volta un’occhiata al suo nome: Erika Lenher. Sorrise: non le sarebbe bastato quello sguardo per sopravvivere, una bomba non fa differenza tra un vecchio codardo e una giovane combattente. Presto se ne sarebbe resa conto.

Spense la sigaretta e fissò la pioggia scrosciante contro il vetro. Già, se ne sarebbe resa conto.

*

< Non capisco proprio perché tu mi abbia convocata a quest’ora! Guarda che ho una vita sociale, io, e non ti permetterò di mandare a monte il mio appuntamento così.>

Che Fujiko avesse un appuntamento di vitale importanza era più che evidente: Jigen era quasi certo di non averle mai visto addosso così tanti gioielli e capi di lusso. La preda doveva essere un qualche riccastro raffinato, così preso dalle sue curve da non badare a quella voce terribilmente petulante, voce che gli stava facendo venire un terribile mal di testa.

Era chiaro anche che la vita sociale di Lupin era morta diverso tempo prima, visto che il suo telefono rimaneva misteriosamente silenzioso e lui non indossava altro che un paio di boxer e una canottiera. Se l’avesse trovato a farsi una granita alla birra, avrebbe capito che aveva toccato il fondo della depressione, com’era successo qualche anno prima.

< Ma come, cherì! Non saresti venuta se non fossi certa che il tuo Lupin ha in mente un qualche colpo bello grosso, no?> A dispetto del suo abbigliamento, l’umore del ladro più famoso del mondo era ottimo. Bastò quello per attirare l’attenzione della donna.

< Di che si tratta?> Jigen si sentì lo sguardo della donna su di sé, quasi non si fosse accorta prima che lui era lì. Avrebbe preferito continuare ad essere trasparente piuttosto che attirare l’attenzione di quella vipera.

< Oh, Jigen, sapevo che non mi avresti voltato le spalle! C’è un bel tesoro che ci aspetta lì fuori, tutto tutto per noi!> Lupin pareva pronto a spiccare il volo per l’eccitazione, ma mai quanto Fujiko.

< Un tesoro?! E quanto? Quanto?> Jigen li avrebbe volentieri lasciati lì in preda a quei loro momenti di pazzia totale, in cui il suo collega faceva il misterioso e la ragazza provava ogni tecnica per scoprire quel che voleva sapere, ma fuori la pioggia continuava ad abbattersi sul mondo e lui ne aveva abbastanza d’inzupparsi.

La cifra che mandò Fujiko in visibilio catturò anche la sua attenzione: era un bel gruzzolo, non c’era dubbio. Ma aveva come il presentimento che non sarebbe stato affatto facile metterci le mani sopra.

< Il tesoro della famiglia Lenher è tanto antico quanto sconosciuto. Il suo ammontare e il suo nascondiglio sono stati celati accuratamente per secoli, tramandati di generazione in generazione: ora basterà recuperare questo piccolo segreto da questo pacioso signore o dalla sua bella figliola.>

Jigen osservò le due foto che Lupin teneva in mano: l’uomo pareva un gran codardo, ma la ragazza… di nuovo si disse che non sarebbe stata una passeggiata. Gli vennero in mente Shiho e quelli dell’Organizzazione: un brivido gli attraversò la schiena, ma non disse nulla. Il ladro più famoso del mondo e la sua infida partner stavano già festeggiando per la riuscita dell’impresa.

Si allontanò dall’appartamento di Lupin con un gran senso di nausea; fuori la pioggia continuava imperterrita a scrosciare e lui aveva una gran voglia di prendere a calci qualcosa. Forse dopo si sarebbe sentito meglio.

< Ti dai agli appuntamenti galanti, Jigen?> La voce suadente alle sue spalle lo fece fermare di botto, mentre con un fruscio di costosi abiti Fujiko gli arrivò affianco e gli pose una mano sulla spalla. L’occhiata in tralice che le lanciò non bastò a fulminarla.

< Che intendi?> borbottò controvoglia: era già abbastanza irritato per conto suo senza che quella stramaledetta donna ci mettesse lo zampino. Lei sfoderò uno di quei sorrisi maliziosi che in genere riservava solo alle sue prede e Jigen sentì lo stomaco contrarsi.

< Oh, non far finta di niente… - ridacchiò prima di superarlo con la sua andatura ondeggiante - Sono sicura che non è tuo, questo profumo da donna che hai addosso.> Si voltò un istante, il sorriso che le aleggiava ancora sulle labbra. < Ma se ti secca, farò in modo che rimanga un segreto.>

L’uomo la guardò sparire nel buio del corridoio e ci mise un po’ per capire a cosa si riferiva: aveva addosso il profumo di Shiho. Doveva essergli rimasto appiccicato ai vestiti dalla loro conversazione al Maria’s Bar. Scosse la testa: solo un’infida serpe come Fujiko avrebbe potuto percepire un odore così debole, lavato dall’acqua e coperto dal puzzo di sigaretta. Si allontanò a sua volta, borbottando improperi contro la donna. Sulla spalla sentiva ancora la leggera pressione della sua mano.

*

< Questo tempo d’inferno non accenna a cambiare, eh?>

La voce del tassista era allegra, nonostante il continuo martellare sul parabrezza e la visibilità ridotta al minimo. Anche la musica che passava alla radio era alquanto vivace: davvero un riparo confortevole, quei quattro sedili. Peccato che fosse già giunto a destinazione.

< Sono 15 euro.>

Glieli porse senza commentare e scese dal taxi: la pioggia si abbatté contro il suo cappuccio rialzato come una tempesta di sassolini. Presto, probabilmente, sarebbe sopraggiunta la grandine. Sorrise, il dente d’oro che brillava nell’oscurità: era un tempo perfetto per cacciare. Sarebbe stato un vero divertimento.

Accarezzò il manico del coltello che teneva al sicuro nella sua tasca e, senza indugiare un secondo di più, si mise in cammino verso un riparo sicuro. I fari del taxi che si allontanava illuminarono per un istante la figura slanciata di Crazy Mash.

2 - Hit the ground

Non aveva granché voglia di uscire: anche se finalmente il sole aveva fatto capolino da dietro le nubi, l’aria era satura d’umidità e le sue povere ossa scricchiolavano fastidiosamente. Aveva dormito male, un po’ per i tuoni, un po’ per i pensieri che continuavano ad ossessionarla: rivedeva la figura di sua madre stesa sul letto, pallida come un cencio. Risentiva le parole vuote dei colleghi di lei, le loro pacche sulla schiena. E non era riuscita a chiudere occhio.

Suo padre l’aveva convocata per le 10: lei non sapeva neanche se sentirsi onorata perché le aveva riservato un posto in agenda o offesa per essere trattata a quel modo. Comunque, ora che mancava un quarto d’ora all’appuntamento, non aveva proprio voglia di presentarsi.

Erika Lenher si guardò allo specchio e decise di avere un aspetto orribile: probabilmente suo padre non l’avrebbe voluta vedere in quelle condizioni. Avrebbe detto che gettava una cattiva luce sull’azienda. Non poteva dargli torto, si faceva paura da sola. Proprio per quello sarebbe andata da lui: l’idea di fare una pessima impressione ai suoi soci non le dispiaceva affatto.

Sua madre l’aveva sempre detto, fin da quando lei era piccola: il papà lavorava troppo, il papà non pensava ad altro che all’azienda e alla sua reputazione. E, fin da quando ne aveva memoria, Erika aveva sempre visto suo padre come un estraneo, sempre lontano da casa, sempre preso in mezzo ai suoi affari. Se le andava bene poteva vederlo per Natale e per il suo compleanno. Sempre che, ovviamente, non ricevesse una chiamata urgentissima nel bel mezzo dei festeggiamenti.

< Signorina, Suo padre L’aspetta.>

Il tono del capo della scorta era gentile, ma in quel momento Erika l’avrebbe mandato volentieri a quel paese. Afferrò l’orologio da taschino che teneva sulla scrivania, si alzò, controllò che la maglietta che aveva indossato fosse abbastanza presentabile e uscì.

I tre uomini della scorta le si accostarono immediatamente, ben vigili che nessuno si avvicinasse a lei. La ragazza era abituata ad averli attorno, era sempre stato così. Era come se suo padre cercasse di nascondere la sua assenza assicurandosi che lei fosse sempre al sicuro, ogni volta che usciva di casa. Erika non poteva dire se le seccasse o meno, quegli uomini erano simpatici, ma la loro presenza la lasciava indifferente: il suo rapporto con loro si limitava ad un semplice scambio di parole cortesi quando venivano da lei e quando la lasciavano. Per il resto lei era miglia e miglia lontana da loro.

Ascoltò come da dentro una bolla d’aria il rumore delle portiere che sbattevano, la macchina che si metteva in moto, le ruote che sollevavano schizzi d’acqua dalle pozzanghere. Pensò ad altro: a com’era tutto più facile prima che la malattia si portasse via sua madre, a come non era stata costretta a sopportare i commenti acidi di suo padre, a come si era sentita libera di essere se stessa.

Ora era tutto un altro paio di maniche: a lui non andavano bene i capelli corti, voleva che indossasse qualcosa di diverso dai soliti jeans informali e dalle t-shirt, voleva che s’impegnasse in politica, andasse a circoli culturali e si facesse conoscere nella società. A lei non poteva importare di meno: i suoi unici interessi erano i libri e la danza. Non quella classica, tutù e scarpette come avrebbe voluto suo padre, ma quella di strada, break e hip-hop, attività che facevano accapponare la pelle al suo beneamato genitore. Inutile dire che gli scontri tra i due erano all’ordine del giorno.

L’automobile si fermò davanti ad un grattacielo che, in mezzo al grigio della strada, risaltava tremendamente per le enormi vetrate senza neanche una macchiolina di sporco. Era pulito fuori com’era pulito dentro. Erika camminò lungo corridoi interminabili e ascensori splendenti. Non le era mai piaciuto quel posto, sapeva di disinfettante.

Si aspettava di trovare suo padre in ufficio, seduto dietro la sua scrivania ricoperta di scartoffie. Invece lui uscì, tutto impettito nel suo nuovo completo blu, da una porta laterale, con tre collaboratori alle calcagna che ripetevano numeri e altre frasi per lei incomprensibili. Lo osservò sconvolta mentre le si affiancava e le appoggiava una mano sulla spalla: qualcosa in quel gesto le diede tremendamente fastidio e, se non fossero stati davanti a tutti, si sarebbe volentieri scansata.

*

< Sei pronto?>

Spense la sigaretta sul muricciolo di cemento e riprese in mano il binocolo: erano quasi al punto segnato, solo pochi metri più in là. Avevano preparato tutto con cura in quegli ultimi giorni e, lo sapevano entrambi, non ci sarebbero stati errori.

< Vodka, ci sei?>

< Sì, aniki… tutto pronto.>

Gin sorrise. Sapeva che anche il suo compare stava sorridendo come lui. Stava andando tutto alla perfezione: un passo, un altro ancora, tre metri, due…

< Ora.>

Dall’altro capo della linea sentì il “click” del dispositivo che veniva azionato. E poi venne il finimondo.

*

< Oh, eccola là! Non è carina? Eh, Jigen? Eh?>

Se non avessero dovuto mantenere un basso profilo, Daisuke avrebbe volentieri preso a calci quell’idiota del suo collega.

< L’hai già vista, quella ragazza. E’ da giorni che non fai altro che sventolare la sua foto e a sbavarci sopra.> rispose brusco, chiedendosi come facesse a sopportare quel lato da maniaco del suo compare.

< Ma dal vivo è diverso! Guardala, che cara, non ha un faccino adorabile?>

< Smettila, Lupin! Ci sentiranno.> Non si sarebbe messo in quel momento a discutere sul fatto che qualsiasi donna, per il più famoso ladro del mondo, era una sorta di dea, sapeva di aver già perso in partenza. Ma già stavano camminando come se nulla fosse in quel maledetto grattacielo, l’ultima cosa che voleva in quel momento era trovarsi di fronte la security o quegli omaccioni che scortavano la nuova inconsapevole fiamma di Lupin.

< Di chi è che stai parlando?!> La voce acuta di Fujiko colpì dritto al timpano attraverso l’auricolare e l’uomo s’immobilizzò d’un tratto, passandosi nervosamente la mano dietro la testa.

< Ma di nessuno, cherì, cosa vai a pensare?>

Jigen non ascoltò l’irritante risposta della donna. Non seppe mai se aveva effettivamente risposto; c’era stato un movimento, sul palazzo di fronte, un qualcosa che aveva luccicato dal tetto dell’edificio dirimpetto al loro. Aggrottò le sopracciglia e di nuovo il brutto presentimento fece la sua comparsa.

Si voltò d’un tratto e un pensiero gli attraversò la mente: Lenher e i suoi uomini erano una ventina di metri davanti a loro. Un nuovo movimento alla sua sinistra, di nuovo quel luccichio. Guardò Lupin e vide che ricambiava il suo sguardo, improvvisamente serio. Poi quella lucina rossa lampeggiò tre volte e Jigen capì. Troppo tardi.

*

Lasciò andare avanti suo padre, stanca di quella mano che le pesava sulla spalla. Rallentò un poco, avvicinandosi all’ultimo uomo della sua scorta, giusto per scambiare due parole. Poi non capì più niente.

L’esplosione fu tanto violenta quanto improvvisa. Erika si sentì sbalzare contro un muro, picchiò di schiena, cadde in avanti. Un secondo boato e qualcosa la colpì alla testa. Le ci volle un attimo per capire che quella cosa era il pavimento: sentiva un rigagnolo di sangue colarle tra i capelli, lungo la fronte, davanti ad un occhio, il mondo che diventava rosso. C’era un corpo che l’ancorava al suolo, forte, muscoloso e terribilmente immobile.

Il boato continuava ad echeggiare nelle sue orecchie, ma attorno a lei tutto era d’una calma irreale: il corridoio, così impeccabilmente pulito fino a qualche minuto prima, era completamente coperto di bianco, calcinacci, intonaco e materiale di vario genere. C’erano corpi lì attorno, pozze rosse che s’allargavano sulle piastrelle, urla che le sembravano lontane mille miglia.

Finché qualcuno non spostò il corpo che le pesava addosso e la prese per un braccio. Fece in tempo a riconoscere l’uomo della scorta che le era accanto mentre camminava, poi cacciò un urlo e girandosi verso quella mano estranea colpì il più forte possibile. Il suo gomito urtò contro quelle che verosimilmente erano costole.

< Ahio!> Guardò stupita quell’uomo con la faccia da scimmia che si teneva lo stomaco con le braccia. Non sapeva cosa stava facendo, ma prima che qualcosa, qualsiasi cosa, accadesse, si alzò e cominciò a correre. Saltò due corpi ammassati uno affianco all’altro, due dei collaboratori che stavano parlando con suo padre.

Lui era lì, un metro più avanti. Lo riconobbe per un lembo della giacca, l’unica parte dell’abito che non fosse ricoperta di una patina bianca: era blu, il colore del completo nuovo di suo padre. Il resto del suo corpo era davvero difficile riconoscerlo. Non ci provò neppure. Superò anche lui, una morsa che le stringeva lo stomaco, la testa che pulsava all’impazzata. La gamba sinistra le faceva male, come la ferita che si era procurata sbattendo il capo contro il pavimento e che continuava a sanguinare.

Dietro di lei sentiva urla di uomini. Non osò guardarsi indietro neanche per controllare se la stavano seguendo o meno. Poi qualcosa fischiò accanto al suo orecchio e per poco lei non cadde in avanti. Un’altra pallottola partì nella sua direzione, la sentì sfrecciare a pochi centimetri dal suo ginocchio; una parte del suo cervello la informò che gli spari non venivano da dietro di lei, ma dalla sua sinistra. Non guardò neanche in quel momento. A dieci metri da lei si trovava la porta che dava verso le scale d’emergenza.

Altri due proiettili cercarono di colpirla, ma prima che il tiratore potesse aggiustare la mira, lei era già oltre la porta e scendeva le scale due a due, la sua gamba che implorava pietà, il mondo attorno a lei che girava all’impazzata.

Poi, senza rendersene conto, sbatté contro qualcosa di duro, sentì delle braccia che le stringevano la vita. Urlò fino a che tutta l’aria che aveva nei polmoni non uscì. Poi sentì le forze venirle meno ed Erika s’accasciò, priva di sensi.

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