Titolo: Raindrops
Fandom: Game of Thrones/A song of Ice and Fire
Beta:
dylan_mxRating: dal verde smeraldo all'arancio-rossiccio :look: e tutto perché Stannis è un porco :look:
Pairing: Jaime/Cersei, Stannis/Davos, Renly -> Stannis
Avvertimenti: Incest, slash, het, pre/post-serie, bookverse, underage
Note: Niente da dichiarare, a parte il mio amore per
dylan_mx e
skyearth85 e il fatto che ho usato più o meno a caso una volta i nomi originali delle località e un'altra quelli in italiano (shame on me, lo ammetto, ma andavo più o meno a momenti). Per il resto tanto amore a tutti :3
Gifter:
skyearth85Link al gift: questa splenderrima
podfic, che dovete assolutamente scaricare <3
Link alle parti successive:
Cap 3 + 4 e
Cap 5 + 6 1. A mistake I realized too late [Jaime/Cersei]
< Di nuovo.>
Jaime serrò il pugno così forte da sentire le unghie conficcarsi dolorosamente nella carne, ma non disse niente; non osò alzare lo sguardo dalla pagina incartapecorita che aveva di fronte, si limitò semplicemente ad inghiottire un grumo che gli serrava la gola e riprovò.
< “Le montagne a nord e ad est di Castel Granito si estendono dalle coste occidentali…>
La sua voce suonava piatta e inespressiva, ma dentro di lui c’era tutto tranne che calma. “Sto andando bene, no?” si disse mentre continuava la noiosissima lettura e, ad ogni parola, il suo cuore si gonfiava di orgoglio. Ma finché rimaneva concentrato sul suo lavoro se la cavava bene, il problema si presentava quando, per qualsiasi ragione, si distraeva…
< “… e a est della Forca verde, sulla costa occidentale, si erge la città di Seragad…”>
Si accorse troppo tardi del suo errore, ormai quel nome - sbagliato - gli era sfuggito di bocca; si bloccò, distogliendo gli occhi verde smeraldo dal libro di geografia dei Sette Regni appoggiato sul tavolo. Il pavimento della biblioteca non gli era mai parso così interessante.
Suo padre non disse niente, non che avesse bisogno di parole per far capire al piccolo che si era accorto del suo errore: Jaime poteva percepire il suo sguardo glaciale fisso sulla sua testa, intento a trapanargli il cranio per scoprire cosa ci fosse di così sbagliato nel suo erede.
< Non mi risulta che esista una città di nome Seragad.> Il tono di Tywin Lannister era lapidario e il figlio non riuscì a sopprimere il brivido che gli corse lungo la schiena.
< Seagard.> bisbigliò nel tentativo estremo di correggersi, ma era troppo tardi.
< Di nuovo.> ripeté il signore di Castel Granito e il bambino fu costretto a ricominciare, terrorizzato all’idea di invertire ancora qualche lettera. Gli occhi gli bruciavano, sia per la vergogna che sentiva sia perché erano ore che era costretto a fissare le pagine giallastre di quell’antico tomo. Non osava guardare da nessun’altra parte, per paura di incrociare lo sguardo del padre, quel verde striato d’oro che aveva la capacità di mostrargli di riflesso tutti i difetti che lui non s’accorgeva neanche di avere.
Quando il maestro era andato da lord Tywin per comunicargli che Jaime non riusciva in nessun modo a leggere correttamente, il piccolo si era sentito sollevato: non che facesse apposta ad invertire le lettere, ma, di certo, avrebbe preferito cavalcare ed esercitarsi con la spada piuttosto che perder tempo a tentare di decifrare i libri che si trovava davanti, uno più noioso dell’altro. Si era illuso per qualche ora, fino a quando il maestro non gli aveva comunicato di recarsi ugualmente in biblioteca all’ora prestabilita.
Peccato che, seduto accanto al tomo aperto, Jaime avesse trovato suo padre in persona e da quel momento aveva rimpianto le ore passate con il suo precedente istruttore - cosa che non aveva mai ritenuto possibile.
Le ore trascorse in quella biblioteca erano diventate un inferno, un tormento senza fine. Il primo giorno suo padre l’aveva guardato con quegli occhi terribili e la sua voce, come al solito, non ammetteva repliche. < Continueremo così, ogni giorno, fino a quando non leggerai come si deve.> L’unico modo per salvarsi era cercare d’imparare e Jaime si era sforzato in ogni maniera. Purtroppo non era mai abbastanza.
Jaime non ricordava, nella sua breve vita, di aver passato così tanto tempo con suo padre, ma di queste nuove attenzioni non ne era certo felice. La presenza di quell’uomo, per lui quasi un estraneo, lo metteva in agitazione. Avrebbe voluto confidarsi con Cersei, abbracciarla e chiedere conforto, ma a causa delle lezioni private che Tywin gli impartiva il tempo per sua sorella si era drasticamente ridotto.
La tensione che accumulava in quella biblioteca la sfogava negli esercizi di scherma e di equitazione, discipline in cui si sentiva veramente a proprio agio. Quando montava in sella ad un cavallo sapeva di essere il migliore: neanche suo padre sarebbe riuscito a trovare una pecca su quel versante. Peccato che suo padre non lo vedesse mai all’opera, era come se quelle ore passate sui libri fossero già un tempo esageratamente lungo da dedicare a suo figlio.
*
La luce della luna filtrava attraverso le grandi vetrate del corridoio, lasciando intravedere ogni braciere spento, ogni arazzo alle pareti, ogni ostacolo sul suo cammino. Cersei camminava piano, silenziosa come un’ombra, a piedi nudi: non era la prima volta che s’inoltrava nel castello di notte, anzi. Quella strada avrebbe potuto farla ad occhi chiusi se non fosse stato che doveva per forza passare di fronte alla camera di suo padre: quando si avvicinava a quella porta di legno massiccio le veniva il batticuore e ogni suo movimento le pareva produrre un rumore assordante.
Ma la camera di Jaime era su quello stesso piano e lei non poteva farci nulla; avanzò lentamente, misurando ogni passo, le orecchie tese a recepire il ben che minimo fruscio nel silenzio tombale in cui quelle stanze erano immerse. Eccolo, quel pavimento di pietra gelida che lei conosceva così bene, proprio lì, di fronte alla porta di Tywin Lannister. Cersei trattenne il fiato.
Era come se lo sguardo di suo padre, freddo come le mura che lo circondavano, la seguisse in ogni suo movimento. Di certo era una sensazione strana, a lei in genere piaceva quando quell’uomo la fissava, quando le dedicava un po’ del suo tempo, ma in quella situazione la piccola avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non farsi scoprire: lord Tywin avrebbe fatto domande e non era affatto uno stupido, lui. Avrebbe capito tutto e sarebbe andato su tutte le furie.
La bambina si scrollò di dosso quei pensieri scuotendo la testina bionda e si fece coraggio. Un passo, un altro, un altro ancora… quella porta così minacciosa si allontanò pian piano da lei. Nell’ultimo tratto accelerò il passò e finalmente la camera di Jaime fece capolino dietro l’angolo del corridoio. Non avrebbe fatto alcun rumore, Cersei lo sapeva già. Silenziosa come un’ombra, sgusciò dentro.
C’era un’aria pesante dentro quella stanza, di chiuso e sudore. Cersei si guardò attorno, gli occhi verdi che si abituavano pian piano al buio. Sentiva un fruscio continuo di lenzuola e coperte e flebili rumori, come gemiti soffocati. Quando finalmente riuscì a vedere, si avvicinò al letto del fratello, da dove proveniva tutta quell’agitazione.
La fronte di Jaime era imperlata di sudore, la testa si muoveva di lato a scatti, i capelli d’oro che si sparpagliavano sul cuscino come un’aureola. Cersei gli sfiorò un braccio, studiando con attenzione quella figura così uguale a lei: stava sognando ed evidentemente era un vero incubo.
< Jaime.> sussurrò lei, ma il gemello non rispose se non con un ansito più elevato degli altri. Lo richiamò, un po’ più forte, scuotendolo e finalmente i suoi occhi si aprirono, così uguali ai suoi, ma in quel momento pieni di paura.
Senza dire nulla, le gettò le braccia al collo e la strinse a sé. Cersei sorrise. Da giorni non poteva stare con il fratello quanto avrebbe voluto a causa di quelle lezioni di lettura che il lord suo padre impartiva regolarmente al figlio maschio. Un po’ lei invidiava il suo gemello: per quanto amasse stare con lui, l’idea di passare così tanto tempo con Tywin la entusiasmava. Suo padre era un uomo duro, certo, ma era pur sempre suo padre e tutto quello che lei desiderava era essere al suo fianco e renderlo fiero. Cosa che in genere le riusciva, vista la velocità con cui imparava tutto ciò che la septa le insegnava: sorridere, essere amabile, avere sempre le parole giuste al momento giusto, proprio quello che una vera lady doveva essere in grado di fare.
Ma Jaime pareva del parere opposto. < Come stai?> sussurrò lei, abbracciandolo ancora più forte. Lui la guardò, i volti così vicini che i loro nasi identici si sfioravano: aveva l’aria spossata, il viso pallido e ancora lucido per il sudore. < Non voglio più andarci.> Il silenzio inghiottì la sua dichiarazione, mentre Cersei gli accarezzava i capelli con dolcezza.
< Non ci torno più in quella stupida biblioteca. Non voglio.> Lei non disse niente, ma entrambi sapevano che questo non era possibile, che il giorno seguente il piccolo sarebbe stato puntuale come un orologio davanti al suo tomo impolverato. Perché nessuno, né lord né servo, poteva disubbidire a Tywin Lannister.
Restarono abbracciati, accarezzandosi, fino a quando Jaime non si fu calmato. In silenzio la bambina sgusciò fuori dalla stanza e tornò in punta di piedi in camera sua, chiedendosi perché suo fratello non fosse felice di stare al fianco del lord loro padre.
*
Erano passati anni da quella notte e solo allora Cersei si rendeva conto di quante cose fossero cambiate. Jaime sapeva leggere alla perfezione, ora, ma questo importava ben poco, visto che tutto ciò che doveva fare al momento era sfoggiare la sua nuova armatura e impugnare una spada. Ed entrambe le cose gli venivano particolarmente bene.
Anche lei era cambiata, lentamente, ma era cambiata. Non era più la ragazzina pronta a qualsiasi sacrificio per rendere onore a suo padre e dimostrargli di essere perfetta, anzi: i lunghi periodi di permanenza dell’uomo ad Approdo del Re avevano reso lord Tywin quasi un estraneo, fino al punto che, in quel momento, tutto ciò che la ragazza poteva fare era odiarlo dal profondo del cuore. Lo odiava, perché le stava portando via Jaime.
Non aveva pianto né aveva dato di matto, scaraventando oggetti per la stanza e distruggendo tutto ciò che le capitava sotto mano: era rimasta ferma, impassibile, indossando la maschera che le avevano insegnato a portare. Era la lady di Castel Granito, in fin dei conti, non poteva comportarsi come una mocciosa isterica. Ma in cuor suo avrebbe volentieri dato alle fiamme il mondo intero.
Aveva provato a dire la sua, però, a suo padre, misurando bene le parole, facendogli capire quanto avrebbe sofferto nel separarsi dal suo gemello, ma la risposta di lord Tywin era stata tutto tranne che rassicurante. < Presto, se tutto va bene, ci raggiungerai anche tu ad Approdo del Re, come sposa di Rhaegar Targaryen.> Questo l’aveva distrutta ancor di più, se possibile: l’unico uomo che voleva nella sua vita era Jaime. Ma questo al lord suo padre non sembrava importare.
Jaime venne da lei poco prima di partire, l’armatura che scintillava alla luce del sole, i capelli come oro puro, gli occhi due smeraldi. Era bellissimo, il cavaliere che ogni fanciulla sognava di trovare. Ed era suo. < Mi mancherai, dolce sorella.> le sussurrò mentre le sfiorava le labbra.
Lei gli strinse il polso, guardandolo dritto negli occhi. < Suvvia, non fare quella faccia distrutta. - fece lui sfiorandole la guancia col dorso della mano. - Ci rivedremo presto.> < Sì, presto… - replicò Cersei e il suo sguardo pareva che bruciasse. - Ma sarò al fianco di un altro uomo.>
*
Ma non era al fianco di Rhaegar, quando la rivide. Alla sua sinistra c’era un giovane possente, alto, estremamente attraente, i capelli neri come l’inchiostro e gli occhi d’un azzurro brillante. La figura di Robert Baratheon si stagliava imponente, ma Jaime non poté reprimere un tremito di rabbia, la tentazione di estrarre la sua spada e affrontarlo a duello quasi incontrollabile.
Durante la cerimonia non staccò gli occhi da sua sorella, sperando di intercettare il suo sguardo, di rammentarle silenziosamente che lui era lì, accanto a lei, e ci sarebbe sempre stato. Ma lo sguardo di Cersei era vitreo, fisso dinnanzi a lei. Sopportò in silenzio ogni momento di quella lunghissima tiritera, compreso il momento in cui la spinsero verso la camera nuziale, Robert - re Robert - già abbastanza brillo da barcollare vistosamente scoppiando in risate che facevano rimbombare le mura.
Jaime aveva serie difficoltà a sopportarlo: quando sfiorava sua sorella, avrebbe voluto alzarsi e tagliargli le mani con la sua lama, quando invece si dimostrava troppo attratto da alcune servette o altre donne, il ragazzo sentiva l’irrefrenabile impulso di punire colui che si faceva beffe della sua Cersei deridendola di fronte a tutti.
Ma tutti attorno a lui erano entusiasti della nuova coppia reale e gli unici a rimanere seri erano lui ed Eddard Stark. Gli occhi grigi dell’uomo del Nord non si staccavano mai dalla figura di Robert, malinconici come non mai. Forse per la sorte di sua sorella, Lyanna Stark, ragionò Jaime, o forse per altre ragioni. Ricordò quel momento fatidico, quando Stark era entrato nella sala del trono in sella al suo cavallo e l’aveva trovato seduto sul trono.
Forse non avrebbe dovuto farsi da parte, continuò a riflettere, avrebbe dovuto restare ben seduto su quello scranno e difenderlo con la propria lama già insanguinata. Se lui fosse diventato re, se fosse stato lui il liberatore che il popolo aspettava da tempo, sua sorella non avrebbe dovuto subire quelle umiliazioni. Forse non avrebbe neanche dovuto sposare un altro: in fin dei conti un re fa quel che vuole, no? Jaime l’avrebbe presa come sua legittima sposa, come altri re Targaryen prima di lui avevano sposato le loro regali sorelle, e nessuno si sarebbe scandalizzato più di tanto.
Una vita vissuta allo scoperto, lui e lei e i Sette Regni da governare e nessuno a giudicarli per quel che facevano. Oh, l’avrebbe voluta una vita così, avrebbe fatto di tutto per ottenerla, ma il momento gli era sfuggito tra le mani senza che se ne rendesse conto. Osservò sua sorella mentre le porte della camera nuziale si chiudevano dietro di lei e del suo legittimo sposo. La osservò e capì di aver perso la più grande occasione della sua vita e che la colpa era solo sua.
2. Got a storm inside me and it makes me mad [Renly -> Stannis]
Renly lo sapeva che suo fratello non aveva preso bene la notizia, ma in tutta sincerità non poteva importargli di meno. L’assedio era finito, erano salvi, tutti salvi grazie all’intervento di Eddard Stark, e lui, il piccolo di casa, era stato nominato lord di Capo Tempesta, che secondo logica avrebbe dovuto andare in eredità a Stannis.
Ma suo fratello maggiore non aveva commentato; a sentire quella novità la sua mascella si era fatta un po’ più rigida, gli occhi blu notte erano rimasti immobili, l’espressione impassibile. Aveva l’aria di un vero condottiero, Renly non poteva fare a meno di pensarlo: alto, capelli nero inchiostro, barba appena accennata sulle guance e sul mento, occhi duri, fisico da guerriero. Se non fosse stato di pietra anche il suo cuore, il piccolo Baratheon era certo che il suo fratellone avrebbe fatto furore tra le dame, proprio come Robert.
Ma Stannis era Stannis e non sarebbe mai cambiato, ormai tutti se n’erano fatti una ragione. Renly non si era certo aspettato che si congratulasse con lui dopo che Robert aveva, senza alcun motivo apparente, consegnato quella che era la residenza storica della loro casata a lui, dimenticandosi allegramente che il primo in linea di successione era Stannis. Suo fratello non era mai stato un ipocrita e nessun vuoto complimento era giunto da lui. Tutto ciò che gli aveva detto, con la sua solita espressione corrucciata, era che sarebbe partito quattro giorni dopo, il tempo di sistemare le sue ultime faccende, ora che la guerra era finita, e organizzare il viaggio per mare.
Il bambino ripensò ancora una volta al viso di suo fratello mentre gli comunicava la sua partenza: non una luce nei suoi occhi, non un singolo indizio che tradisse quello che provava, niente di niente. A Renly dispiaceva che se ne andasse, ma non aveva avuto il coraggio di trattenerlo. La felicità di essere nominato lord della fortezza era stata solo in parte guastata dalla necessità di separarsi dal suo fratellone, colui che aveva resistito all’assedio dei Tyrell con forza, aveva difeso quelle mura palmo dopo palmo, si era nutrito di ratti per non venire meno al compito che Robert gli aveva affidato.
Renly avrebbe voluto ringraziarlo, avrebbe voluto dirgli che gli dispiaceva di doversi separare da lui, che gli sarebbe mancato. Avrebbe voluto, ma ogni volta che gli si avvicinava per confessarlo, la voce gli moriva in gola e lo sguardo duro di suo fratello lo incatenava al pavimento.
Stannis era un’isola inospitale ed era difficile amarlo per quel che era. L’unico che sembrava riuscirci senza problemi era quel contrabbandiere, quel Davos giunto quando ormai le ultime speranze erano morte e gli uomini di Capo Tempesta si domandavano se avrebbero dovuto mangiarsi l’un l’altro per sopravvivere.
Il piccolo Baratheon ammirava quel contrabbandiere, ora reso cavaliere da suo fratello. Pareva un uomo come tanti, ma aveva avuto un coraggio da leoni per rischiare pelle, barca e carico pur di portare agli assediati le sue cipolle. Ed era leale, Renly poteva vederlo nei suoi occhi: lo sguardo che Davos Seaworth riservava a Stannis era di riconoscenza, ammirazione e qualcosa che il bambino non riusciva ad identificare.
< E’ proprio il colmo: lui è sempre con Stannis, non ha alcun problema a dirgli tutto quello che pensa e io, che sono suo fratello, non riesco neanche a ringraziarlo.> si disse il ragazzino, scuotendo la testa nera come il carbone e osservando dei ragazzotti che si sfidavano con spade spuntate nel cortile. No, quello non era certo un comportamento degno del lord di Capo Tempesta, decise. Sarebbe andato dal fratellone e avrebbe chiarito la faccenda.
Le mura dell’unica torre di Capo Tempesta riecheggiavano delle grida di felicità di un gruppo di soldati, che per festeggiare la fine della guerra avevano alzato un po’ troppo il gomito. Stannis non l’avrebbe permesso, ma non era lui il lord ora. Renly proseguì imperterrito, evitando i capannelli di cavalieri e ragazzotti che esultavano con toni assai vivaci. Più si avvicinava alle stanze di suo fratello e più i rumori sfumavano, fino a lasciare un silenzio assoluto: nessuno aveva bevuto così tanto da sfidare l’intolleranza del secondogenito della casa Baratheon.
Ma quando si trovò di fronte alla porta della camera di suo fratello, Renly si accorse che qualcosa non andava: la porta era leggermente socchiusa e le sue orecchie, nel silenzio di tomba, poteva percepire qualcosa, qualcosa che non riusciva ad afferrare. Diede una spintarella al legno di fronte a sé e diede furtivo un’occhiata: non c’era nessuno in vista, ma il rumore era più udibile adesso e proveniva da una stanza secondaria.
Il ragazzino sgusciò dentro, furtivo, facendo ben attenzione a dove metteva i piedi. Era stato ben poche volte negli appartamenti di suo fratello e non era mai riuscito a memorizzare quali lastre non calpestare per non fare rumore. Ma, fortunatamente, riuscì ad avvicinarsi alla seconda stanza senza che la sua incursione fosse scoperta.
Il rumore era più evidente e Renly comprese anche dove l’aveva già sentito: era il suono tipico che proveniva dalla stanza di Robert, generalmente, ma anche da qualsiasi angolo buio ed appartato della fortezza, ove uomini e prostitute s’intrattenevano l’un l’altro. Il piccolo era sbalordito: Stannis era l’intransigenza fatta persona e mai lo aveva visto con una donna né dimostrava il benché minimo interesse.
Preso dalla curiosità, il ragazzino si sporse con ogni cautela, pronto a ritirare la testa e darsi alla fuga nel momento in cui fosse stato scoperto. Ma la scena che gli si presentò davanti cancellò dalla sua mente ogni piano di fuga. Renly rimase a bocca aperta mentre fissava suo fratello con la schiena al muro, il respiro ansante e le mani che si muovevano rapide sul corpo della persona di fronte a lui. Che non era una prostituta, come aveva ipotizzato il ragazzino: era Davos Seaworth.
Nella mente del giovane Baratheon quegli attimi diventarono ore, come se tutto ciò che lo circondava fosse immerso in una gelatina che ne rallentava i movimenti: vide suo fratello affondare una mano tra i capelli castani del nuovo cavaliere, vide i suoi occhi blu notte illuminarsi, vivi come quando l’uomo si trovava in battaglia. Le bocche dei due si unirono, una, due, tre volte, fino a quando Renly perse il conto e si ritrovò ad osservare senza fiato quei due che si baciavano con forza, denti pronti a lasciare segni sulle labbra dell’altro. Anche quello per Stannis era una guerra.
Vide Davos inginocchiarsi di fronte a suo fratello, slacciargli le braghe con fare quasi reverenziale, titubante come se temesse di essere respinto da un momento all’altro. Ma l’eroe di Capo Tempesta non pareva avere alcuna intenzione di mandarlo via. Il ragazzino non riusciva a staccargli gli occhi di dosso: non l’aveva mai visto in quelle condizioni, gli occhi chiusi, la nuca appoggiata alla parete, lasciando scoperto il collo, il pomo d’adamo che andava su e giù, a singhiozzi. Al posto dei gemiti che Renly era abituato a sentire dalla camera di Robert c’erano solo sussulti, sospiri rochi, spezzati e il rumore della bocca di Seaworth sulla pelle dell’altro.
Ad un certo punto, all’improvviso, Stannis aprì gli occhi e il piccolo sentì le gambe diventare molli, non più in grado di sostenerlo: erano così diversi da quelli freddi e duri di suo fratello, così diversi che per un attimo si chiese se non si trattasse di un’altra persona. Doveva andarsene, Renly lo sapeva, un minuto di più e non avrebbe retto.
Sgusciò fuori dalla camera, giù, lungo il corridoio, il volto del secondogenito Baratheon scolpito nella mente. Arrivò nelle sue stanze come una furia e sbatté la porta alle sue spalle, mettendosi a camminare come un pazzo per la stanza. Era questo ciò che non riusciva a cogliere nello sguardo di Seaworth? Questo che non aveva mai capito? Ma com’era possibile? Tra tutti, suo fratello era sempre stato integerrimo su ogni singola questione, quella del decoro in primis. Perché, allora? E come aveva fatto a non accorgersene prima?
L’idea di essere stato tenuto all’oscuro di tutto, di non aver compreso subito la situazione lo mandava in bestia. Se l’avesse saputo Robert… Renly deglutì: se qualcuno, chiunque all’infuori di lui, ne fosse venuto a conoscenza, Stannis l’avrebbe ucciso. O avrebbe ucciso Seaworth. Quando c’era il suo onore in gioco, il piccolo Baratheon sapeva che suo fratello diventava capace di tutto. Ma non era quello che voleva lui: punire ser Davos, che li aveva salvati da una morte orribile, era l’ultima cosa che voleva che accadesse.
Si chiese cosa avrebbe dovuto fare, ma non giunse ad alcuna risposta. Quella notte ci mise ore per riuscire ad addormentarsi e anche quando scivolò nel sonno, ciò che vide fu il volto di suo fratello, gli occhi chiusi e la bocca dalle labbra screpolate leggermente aperta.
*
Erano passati anni da quella sera e Renly aveva avuto serie difficoltà a dimenticare l’accaduto. L’unica cosa certa era che aveva scelto di mantenere quel segreto, per non voler coinvolgere ser Davos, a cui era tuttora grato, e per non scatenare l’ira di suo fratello. Ma spesso, molto più spesso di quanto non volesse ammettere, Stannis gli tornava in mente, così come l’aveva visto quella sera.
Una volta passato il suo sedicesimo compleanno, Renly ricevette una lettera da Approdo del Re da parte di suo fratello Robert, che lo invitava a prender parte al concilio ristretto del re dei Sette Regni. Il ragazzo ne era più che entusiasta, anche se se lo aspettava: già Stannis era uno dei consiglieri del re, lui aveva semplicemente dovuto aspettare di diventare un uomo fatto, secondo la legge.
Giunse dopo pochi giorni alla capitale, pronto a godersi le delizie che quella ricca città offriva. Per tutto il tragitto si assicurò con cura di non far vagare la propria mente verso l’argomento “fratello maggiore che non vedo da anni, ma che continua a tormentarmi nei miei sogni”: meno ci pensava, meglio era e farsi guastare il viaggio non era certo il suo obbiettivo. Cenò al fianco di suo fratello Robert, facendo onore alla tavola e intrattenendo gli altri commensali con il suo fascino. Andò a dormire con la testa leggera e completamente vuota, certo che il materasso di piume che lo attendeva gli avrebbe consentito di addormentarsi all’istante.
Ma i suoi sogni non erano quelli che sperava. Stannis era lì, sempre e comunque, il petto asciutto in bella mostra, gli occhi che scintillavano. Ma non c’era Davos di fronte a lui, c’era Renly stesso.
Non sapeva se era sogno o realtà, ma sentì un’ondata di calore invaderlo mentre le labbra di suo fratello, secche e screpolate, si chinavano su di lui sfiorandogli il collo, la spalla, le guance, la bocca. C’erano mani sul suo dorso, mani dalle dita callose, più abituate a maneggiare una spada che a toccare un altro essere umano, ma in quel momento gli parvero semplicemente perfette mentre gli afferravano con una stretta ferrea i fianchi. Ci sarebbero stati lividi, il giorno dopo, ma a Renly l’idea piacque assai.
< St…> provò a chiamarlo, ma il suo nome si trasformò in un gemito quando l’altro gli morse la clavicola, non tanto da fargli male, ma abbastanza da lasciargli il segno. Non c’era incertezza nelle suoi movimenti, solo quella fredda precisione del condottiero, quella che ti fa individuare il punto debole dell’avversario e che ti permette di calare la lama nel momento giusto.
Per Renly, che non aveva mai affrontato di persona una vera battaglia, quella sensazione era più esaltante di qualsiasi cosa. Si spinse contro il fratello e sentì la barba dura, corta ed ispida contro la sua guancia. Poi quelle mani corsero in basso, sotto i vestiti, e il ragazzo non capì più nulla.
Quando si svegliò la mattina seguente il letto era un groviglio di coperte inondate di sudore. O almeno il giovane sperò che fosse solo sudore. Fu una gran fatica alzarsi, cercare di mettere in ordine i propri pensieri e prepararsi ad affrontare il mondo che lo attendeva oltre quella porta. Il pensiero del concilio ristretto lo colpì con la forza di un martello da fabbro: ci sarebbe stato anche Stannis, al concilio. Avrebbe dovuto fissarlo negli occhi e non far capire che dentro di lui era in atto una vera e propria guerra contro se stesso.
Aveva sempre saputo che la sua ossessione per il fratello non era normale, ma aveva imputato il tutto al trauma giovanile. Una persona così integra come il secondogenito dei Baratheon, insomma, chiunque sarebbe rimasto sconvolto da una scena come quella che si era trovato di fronte! Ma più notti passavano e più Renly si rendeva conto che non poteva essere solo colpa di quell’episodio.
Indossò uno sfavillante abito verde scuro, con cervi dorati ricamati, e uscì dalle sue stanze. Comunque andassero le cose, lui avrebbe affrontato suo fratello a testa alta.
O almeno queste erano le sue intenzioni fino a che non prese posto sulla sedia a lui destinata e non alzò lo sguardo sull’uomo che gli stava di fronte. Bocca corrucciata sotto l’accenno di barba, occhi cupi e indecifrabili, espressione perennemente seria. Era esattamente come lo ricordava, dopo tutti quegli anni, forse solo con qualche capello in meno. Renly si chiese cosa avesse fatto di male perché i sette dei lo tormentassero in quella maniera.
*
Non era servito a niente. Più ci pensava più sentiva l’amaro in bocca, la rabbia che montava, una furia senza fine: non era servito a niente. Aveva provato in ogni modo a non pensare a lui, ma il risultato era stato l’esatto opposto. Non c’era notte in cui suo fratello non facesse capolino nella sua testa e cominciasse a dare sfoggio di sé. Renly era certo che sarebbe impazzito molto in fretta
Specie ora che anche da sveglio quelle immagini lo tormentavano. A volte accadeva che, seduto al suo posto durante le riunioni del concilio ristretto, i suoi occhi vagassero su Stannis e il suo cervello li seguisse in grande fretta, perdendo la cognizione del tempo, del pudore e del dovere.
Ormai Varys doveva aver dedotto quanto c’era da dedurre, dannazione a lui. E probabilmente anche Ditocorto sapeva, gli unici due ad essere in grado di seguire contemporaneamente la voce grave di Jon Arryn e le reazioni degli altri consiglieri. Per fortuna che Pycelle era troppo vecchio per accorgersi addirittura di che veste indossasse, mentre il Primo Cavaliere era fin troppo intento a tentare di salvare il reame dalla bancarotta e da Robert stesso per prestare attenzione al nuovo arrivato. E Stannis… Renly non osava immaginare cosa sarebbe successo se avesse capito.
Davos Seaworth era sempre al suo fianco. Ogni volta che li vedeva assieme, mentre passeggiavano in cortile o discutevano a voce bassa nel porticato, il ragazzo non poteva evitare di sentire un moto di rabbia e gelosia che gli avvampava in petto. C’erano momenti in cui avrebbe scambiato volentieri la sua nobiltà con le umili origini di quell’uomo, pur di stare accanto al lord della Roccia del Drago.
Ma Renly non si era rifugiato in quei sogni imbarazzanti, fantasticando come una ragazzina alla sua prima cotta. Aveva deciso che, dato che erano nuovamente sotto lo stesso tetto dopo diversi anni, poteva approfittare della situazione per riallacciare i rapporti con Stannis, ma anche quella era stata una cocente delusione. Aveva provato in ogni modo ad essere gentile, a non contraddirlo, a penetrare quella dura corazza che l’uomo indossava costantemente, ma i risultati erano stati più che deludenti.
A lui non restava che osservarlo sconsolato mentre le sue labbra si serravano in una linea sottile, severa, gli occhi gli scavavano l’anima, la voce, brusca, che lo salutava con distacco, chiamandolo “lord Renly”. Di giorno l’odiava con tutto il cuore, la notte, in sogno, si lasciava andare ad ogni suo desiderio, urlando il suo nome come se fosse l’unica parola che conosceva.
Dopo due mesi di quella tortura si prese una pausa. Un viaggio per distrarsi, un modo per staccare da quella situazione così angosciante. E dopo il primo ne seguì in secondo e via dicendo, meta dopo meta, tappa dopo tappa: a corte si diceva che la vita della capitale fosse troppo noiosa per il giovane lord Renly. A lui quelle voci non importavano, pensassero pure quel che volevano.
Finché un giorno non conobbe lui, quel moccioso tanto impertinente quanto splendido. Gli piacque dal primo istante, ma gli piacque ancor di più quando scoprì che si trattava di un Tyrell; lo invitò ad Approdo del Re. Presto sarebbe diventato cavaliere, non dubitava di questo, ma gl’interessava più che altro osservare il volto di Stannis mentre il suo caro fratellino si legava sempre di più alla famiglia che aveva assediato Capo Tempesta, che li aveva costretti alla fame, che aveva sfidato i Baratheon.
Robert pareva essersi dimenticato completamente degli sforzi di suo fratello, visto che accolse il giovane a braccia aperte, ammirandone l’abilità nel combattimento e l’indole fiera. Renly sorrise quando vide un lampo di sdegno passare negli occhi di Stannis. “Ecco, bravo. Soffri un po’ tu, adesso”. Lui non aveva dimenticato di essere stato costretto a nutrirsi di gatti, cani e ratti, di aver patito con i suoi uomini le pene dell’inferno. Gli sguardi che rivolgeva al giovane Loras erano di puro odio e Renly ne era più che soddisfatto.
Anche la prima volta che si ritrovò da solo con Loras, nei suoi appartamenti privati, il pensiero volò per un istante al fratello: si chiese se avrebbe sofferto nel vederlo in quella situazione con un Tyrell, se l’avrebbe preso come un insulto ai suoi sforzi e all’onore della famiglia. Decise di sì e sorrise mentre si chinava a baciare il ragazzo. Sperò con tutte le forze che la porta si spalancasse. Sperò con tutte le sue forze che Stannis lo vedesse in quel momento. E continuò a sperarlo nonostante gli anni che passavano.