Titolo: Pull Me Under
Fandom: Original
Rating: G
Conteggio parole: 1014
Disclaimer: Mio! Miei! Tutto mio! Anche se grandemente ispirato a Metal Gear Solid…
Note: 1- Per i vaghissimi ed incomprensibili riferimenti alla Croazia mi sono servita di Wikipedia; sarà tutto chiaro più avanti nella storia (forse…)
2- La storia principale è raccontata al passato e i flashback al presente. Sì, lo so che non ha senso: ) Non aveva davvero senso; non riuscivo più a starmi dietro da sola, così ho corretto tutti i capitoli modificando i tempi verbali. E' molto probabile che ci siano degli errori...
Certi pensieri sono come corde
e si attorcigliano in avvolgimenti
infiniti intorno alle braccia
e alle gambe
Robert Musil, L’uomo senza qualità
Un anno prima.
Spalancò con violenza la porta che dava sul vicolo. Prima che questa si richiudesse gli arrivò alle orecchie qualche nota, qualche risata sguaiata, il rumore di un bicchiere che si infrangeva, e la luce del locale illuminò l’asfalto coperto di spazzatura e i muri di mattoni umidi che lo circondavano. Doug respirò a fondo e il fetore lo assalì. Decise che una sigaretta non poteva provocare ai suoi polmoni danni maggiori di quell’odore; ne accese una. Le mani gli tremavano e questo gli provocò un’ondata di disgusto per se stesso tale che avrebbe voluto urlare. In prigione aveva sognato spesso il suo primo bicchiere da uomo libero: l’alcool l’aveva deluso, lo faceva sentire furioso e senza controllo, ma da quando era fuori ne stava abusando fin troppo spesso, per essere uno che non ne amava gli effetti.
Si incamminò senza badare alla direzione, ma una parte di lui rimase vigile, classificando i rumori delle strade- il fruscio di un ratto tra l’immondizia, clacson e imprecazioni lontane- come non pericolosi. Vecchie abitudini, residuo di un tempo perduto.
Forse la cosa che gli bruciava di più era non sentirsi più parte di qualcosa. Doug amava il suo Paese: amava le fattorie di legno dipinto di rosso come quella di Zia Kathrine che si possono vedere attraversando la Cintura del Grano, il mare delle Keys Islands, gli edifici storici della vecchia Boston, visitati in gita scolastica. Gli alti valori di cui l’America si proclamava portatrice, beh, quelli erano rimasti sui libri di storia, per quanto lo riguardava. Forse una parte di lui era imbevuta di patriottismo quando si era arruolato, ma i motivi per cui ha amato il suo lavoro erano di natura decisamente più egoistica che non l’onore di combattere per Dio e la bandiera.
L’Esercito gli forniva tutto: una casa, un lavoro, dei compagni. Doug sapeva di poter sempre contare su qualcuno, che i suoi superiori lo guidavano. Le sue mani erano salde. Era il migliore e per questo tutti si fidavano di lui, i suoi commilitoni e il suo capitano, tanto da consigliare lui alla CIA per le operazioni a Zagabria e poi a Brazza. Ma qualcuno aveva ecceduto i suoi poteri e Doug e quanti altri avevano obbedito agli ordini ne avevano pagato le conseguenze: carcere e concedo con disonore.
Era finito, non aveva uno scopo e quello che si era addestrato a fare per quindici anni e di cui andava più orgoglioso lo rendeva un assassino agli occhi della maggior parte della gente…
Alzò gli occhi al cielo mentre si rimproverava. Basta, basta, basta, erano giorni che non pensava ad altro, che si ripeteva le stesse parole all’infinito. Per qualche minuto riuscì a godersi la sua sigaretta e quel vago senso di vertigine che gli procurava il whiskey.
Poi, tra i rumori ormai familiari del vicolo avvertì dei passi affrettati. Quando si fermarono, Doug sentì un respiro affannoso. Spaventato. Come gli avevano insegnato a fare, guardò non visto. Dietro l’angolo, impalato in mezzo alla strada, c’era un uomo che stringeva al petto una sacca a tracolla come se ne andasse della sua vita. Era pallido come un cencio e questo faceva risaltare il rosso dei suoi capelli. Si guardò intorno, apparentemente indeciso su dove andare. Forse per questo impiegò qualche secondo a notare il suono che Doug aveva già individuato- il rumore gracchiante di una ricetrasmittente- e che lo fece sobbalzare mentre si girava di scatto.
Qualcuno lo seguiva e non cera speranza che non lo vedesse, sembrava incapace di muoversi, con gli occhi sgranati dietro gli occhiali sottili e le mani strette convulsamente intorno alla sua borsa.
Istintivamente, Doug lo afferrò per il bavero e lo trascinò nell’ombra.
Quando li oltrepassò avanzando nel vicolo, Doug fu in grado di dire- faceva parte del suo lavoro- che l’uomo era un professionista: era vestito in modo da non dare nell’occhio, ma aveva l’aria pericolosa e all’erta e se in quel momento un branco di ubriachi non si fosse avvicinato schiamazzando e rovesciando spazzatura, avrebbe avvertito gli ansiti terrorizzati del suo obiettivo, nascosto nell’ombra dietro Doug, a pochi metri di distanza. Il professionista si dirisse verso gli ubriaconi che ora cantavano a squarciagola una canzone dei Dixies per controllare che il suo uomo non avesse cercato riparo in mezzo a loro e Doug, sempre tenendo per il bavero il rosso, si dirisse nella direzione opposta.
Non sarebbe stato prudente ripassare dal locale- certi baristi hanno una memoria fin troppo lunga- e ringraziò il cielo di aver parcheggiato a un paio di isolati di distanza, per smaltire un po’ la sbornia prima di salire in macchina. In realtà l’adrenalina gli aveva come pulito il sangue e si sentiva più lucido che mai mentre camminava veloce e senza rumore. Il rosso non oppose resistenza e probabilmente neanche si accorse che Doug gli aveva fatto cenno di tacere. Quando arrivarono alla macchina lo spinse sul sedile del passeggero, salì a sua volta e mise in moto. Aveva agito d’istinto, ed era abbastanza furbo da sapere che le decisioni prese d’istinto possono fotterti alla grande. Ma c’era qualcosa a cui Doug non sapeva resistere, anche se non se ne rendeva del tutto conto, ed era la sensazione di controllo che provava in quel momento. Aveva preso il controllo della vita del rosso, ne era responsabile da questo momento in avanti.
-Sei un poliziotto?
Doug lo guardò con la coda dell’occhio: l’uomo aveva meno di trent’anni, ma sembrava ancora più giovane rannicchiato com’era sul sedile, ossuto e patetico.
-No. Mi è solo sembrato che quel tipo non avesse intenzioni amichevoli.
-Voleva uccidermi!- soffiò il rosso, come se fosse incredulo che non fosse successo.
-A causa di quella?-
Al cenno di Doug alla borsa l’uomo la serrò in un abbraccio nervoso -Io…non…
-Io mi chiamo Doug Burtland- intervenne, tendendogli una mano. L’altro la fissò qualche secondo prima di stringerla -Ah…Astor Baüer. Era il nome di mio nonno- aggiunse quando vide Doug inarcare le sopracciglia.
-Bene, Astor. Che succede?