[Ariyama-Inoobu] I wanna spend the rest of my life with you (1/2)

Mar 10, 2013 09:56

Titolo: I wanna spend the rest of my life with you [How didi I fall in love with you - Bsb]
Fandom: RPF - Hey! Say! JUMP
Personaggio: Arioka Daiki, Yamada Ryosuke, Yabu Kota, Inoo Kei
Pairing: Ariyama; Inoobu
Rating/Genere: nc-17/ AU, romantico, erotico
Warning: slash
Wordcount 10.199 fiumidiparole
Note: la storia è scritta per la community 500themes_ita con il prompt “Un sogno, una vita intera”.
Ed è il seguito di questa storia.
Disclaimer: I protagonisti di questa storia non mi appartengono, non li conoscono personalmente e i fatti di seguito descritti non hanno fondamento di verità. La storia non è scritta a scopo di lucro.
Tabella: 500themes_ita

Yamada si chiuse la porta della stanza alle spalle, allentando con due dita il nodo della cravatta sempre troppo stretto, respirando liberamente come se in tutte quelle ore avesse trattenuto il fiato, vivendo in apnea: era in quel modo che si sentiva ogni volta quando arrivava a fine giornata e poteva finalmente lasciare fuori una vita che odiava e rintanarsi in quelle quattro confortevoli mura.
Un altro paio di scarpe erano già all’ingresso, segno che Kei doveva essere rientrato prima di lui; si avviò nella grande sala, chinandosi e prendendo qualcosa da bere nel piccolo frigo bar messo a disposizione dall’albergo, scegliendo una birra. L’aprì, bevendo direttamente dalla lattina, sentendo la fresca bevanda scivolargli lungo la gola, portandogli ristoro, storcendo successivamente il naso e scuotendo la testa: sapeva che non si sarebbe mai abituato a quel gusto particolare, sapeva che non incontrava il suo gusto quella bevanda, ma era l’unica cosa che gli ricordava lui e, anche se non aveva senso alcuno, Ryosuke era convinto che questo potesse aiutarlo a tenere stretti i ricordi dell’unico uomo che avesse mai amato.
Si levò la camicia, poggiandola sulla poltrona, insieme ai pantaloni eleganti, osservando come invece, sparsi sul grande letto, fossero stati abbandonati i vestiti del collega.
Sorrise, riordinando i capi per evitare che si sgualcissero ulteriormente, appendendoli a una gruccia e spostandosi nell’antibagno, bussando piano con le nocche.
“Kei, sono tornato. Fai in fretta per favore. Non consumare tutta l’acqua!” lo riprese, conoscendo bene quanto al più grande piacesse restare a crogiolarsi sotto la doccia o, come in quel caso, dentro la vasca; uno dei pochi vantaggi che si era imposto di trovare a quel lavoro e che gli rendevano meno pesante la sua situazione era che potevano godere di un certo tipo di privilegi e comfort di cui non dovevano rendere conto a nessuno e, soprattutto, che non ricadevano sui loro portafogli.
“Ryo! Puoi entrare, vieni!” gli rispose la voce divertita di Kei e Yamada si affacciò, venendo investito da un vapore caldo e un profumo dolce all’aroma di vaniglia.
“Che cosa hai fatto?” domandò il più piccolo, vedendo la nebbia invadere la stanza da bagno.
“Ho trovato questi sali nell’armadietto. Sono gratis, li volevo provare!” gli spiegò, prendendolo per una mano e tirandolo dentro con sé. “Vieni, dai, facciamo insieme il bagno!” gli disse, sorridendogli, incurante della propria nudità, anzi perfettamente a suo agio in quella circostanza.
Yamada cercò di evitare di guardarlo, per quanto fosse ormai da quasi due anni che lo conosceva in quanto collega e solo da alcuni mesi avessero iniziato a lavorare insieme, non si era ancora abituato a quel suo comportamento un po’ eccentrico.
Inoo Kei era una sorta di senpai per Yamada, dapprima gli era stato affiancato per aiutarlo a inserirsi nella prostituzione di alto bordo, poi erano diventati amici: Kei aveva una sorta di ossessione nei confronti di Yamada, per lui era una specie di fratellino, più piccolo di lui di tre anni, l’aveva preso sotto la sua ala protettrice per quanto aveva potuto, dato il lavoro che conducevano.
“Non credo che sia una buona idea…” aveva cercato di rifiutare Yamada, ma Kei sapeva essere convincente e, senza preoccuparsi di quello che lui voleva o di sembrare inopportuno, l’aveva spogliato della canotta e dei pantaloni della tuta, guardandolo poi con espressione maliziosa.
“Quelli ce la fai da solo o ti do una mano?” aveva chiesto indicandogli la biancheria, ignorando ovviamente le sue parole come sempre e Ryosuke era arrossito, voltandosi per dargli le spalle, spogliandosi, sentendo Kei ridere ed entrare nella vasca.
Non sapeva perché quando si trovava con il ragazzo cambiava in quel modo atteggiamento, solitamente spavaldo e pieno di iniziativa, perché era questo che si chiedeva a un accompagnatore come lui, a un ragazzo che vendeva il proprio corpo in cambio di soldi, professionalità, quando era insieme a Kei, invece, era come se tornasse a essere un ragazzo come tanti dall’aria un po’ troppo innocente: era come se lo stesso Ryosuke volesse tentare di conservare nel proprio cuore un’innocente fanciullezza, anche se innocente non lo era più da tempo e non era più un ragazzino.
“Vieni qui” gli disse Kei, poggiandosi con un braccio al bordo della vasca e indicandogli lo sgabello fuori della stessa, prendendo in mano una spugna.
Yamada si avvicinò a lui e Kei gli sorrise.
“Posso lavarti la schiena?” gli disse gentilmente, mentre già gli massaggiava le spalle, spingendogli appena in avanti la testa con una mano di modo che la chinasse e proseguì sulla schiena, risalendo per ridiscendere sulle braccia, prima una poi l’altra.
“Come è andata?” gli chiese il più grande, in un sussurro, facendolo voltare e passando la spugna sul petto, attorno al collo, prima di cederla al più piccolo che continuò strofinandosi le gambe, mentre Kei si sporgeva a insaponargli i capelli.
“Come al solito…” gli rispose, stringendosi nelle spalle, tacendo di nuovo, abbandonandosi al tocco delle dita di Kei tra i suoi capelli. Capitava spesso quel breve scambio di battute, al quale Kei non poteva fare altro che sorridere tristemente, per l’amico e per se stesso, limitandosi a coccolarlo a quel modo, sapendo quanto di contatti del genere entrambi avessero bisogno.
Inoo aprì l’acqua e puntò la doccia contro il corpo del più piccolo, aiutandolo a mandare via la schiuma, chiedendogli di alzarsi e divertendosi a spruzzarlo, prima di tendergli una mano.
“Vieni!” gli disse, prendendolo per un gomito, facendogli spazio nella vasca. “Non è bollente stavolta!” gli assicurò e Yamada si immerse nell’acqua, tra le gambe di Kei, dandogli le spalle, sentendo le mani del ragazzo passare tra i suoi capelli, lisciandoli.
“Tutto questo un giorno finirà, lo sai, vero?” mormorò piano Kei e Ryosuke si tirò le ginocchia al petto, poggiandovi sopra il mento.
“Mh” mormorò e Kei smise di accarezzargli i capelli, mordendosi un labbro, spostando le gambe per affiancarsi a lui e circondargli le spalle affettuosamente.
“Andrà tutto bene, vedrai… Lo rivedrai presto, lo so. Devi credere in Arioka-kun, te l’ha promesso no?”
“Mi manca tanto” bisbigliò Ryosuke, guardando Kei con occhi lucidi, sforzandosi di non piangere; cercava di essere forte, ma ogni sera era sempre peggio, sempre più stanco e Daiki gli mancava sempre di più ogni giorno che passava.
Non lo vedeva da quasi quattro mesi e il tempo passava sempre troppo lento, era straziante ogni nuovo giorno, era insostenibile ogni sera, era impossibile per lui non sentirsi male ogni volta che aveva di fronte l’ennesimo cliente; si sentiva sporco, si sentiva un traditore, si sentiva immeritevole dell’amore di Daiki, si sentiva indegno di amarlo a sua volta.
Sapeva che non fosse giusto mostrarsi debole in quel modo davanti a Kei che condivideva con lui la medesima sorte, da più tempo addirittura, ma non ce la faceva, non se i ricordi erano ancora così forti, non quando i suoi sentimenti crescevano ogni giorno, non quando Kei si dimostrava così gentile con lui per dividere a metà il fardello che portava sulle spalle.
“Lo so, tesoro. Lo so, ma presto andrà tutto a posto. Devi credere in lui” lo incoraggiò Kei, prendendogli il viso con entrambe la mani, bagnandogli le guance.
Ryosuke annuì e Kei lo guardò dolcemente.
“Bravo! Così ti voglio! Adesso me lo fai un sorriso?” gli chiese, vedendolo incurvare le labbra obbediente e anche gli occhi cambiare espressione.
“Ecco, questo è il viso di Ryo-chan che mi piace!” affermò, sporgendosi e dandogli un piccolo bacio sulle labbra, prima di stringerlo di nuovo e cullarlo.

*

Daiki stava seduto nell’elegante sala d’attesa e cercava di contenere il proprio nervosismo; quello era il sesto colloquio che sosteneva nel giro di due settimane dopo troppi mesi a peregrinare in giro per agenzie e studi giuridici, atenei e piccoli privati, in cerca di un posto dove poter conseguire un tirocinio formativo e, pregando la sua buona stella, anche retribuito.
Dopo aver detto addio a Ryosuke, aveva lasciato il suo lavoro deciso a riprendere il percorso per diventare avvocato da dove l’aveva interrotto perché, anni addietro, non era stato in grado di perseverare nella realizzazione del suo sogno dopo aver ricevuto svariate porte chiuse in faccia. Credeva che non ne valesse la pena, pensava di non essere portato, nonostante l’ambiente l’avesse sempre affascinato e si era arreso. Adesso, invece, aveva un valido e buon motivo per non mollare, per continuare a provare, per ottenere un posto, anche minimo che gli permettesse di fare presto esperienza e che gli desse le nozioni e conoscenze di cui aveva bisogno per aiutare il proprio fidanzato a cambiare vita.
Gliel’aveva promesso e avrebbe mantenuto la parola, non tanto per mantenere fede all’impegno preso, ma quanto perché l’amava e perché lo voleva con sé e se lo sarebbe ripreso.
Non passava giorno senza che Daiki sentisse la sua mancanza, non passava attimo in cui non si chiedeva che cosa stesse facendo, che cosa pensasse, se pensasse a lui, se non l’avesse dimenticato. E quando quegli ultimi dubbi facevano capolino nella sua mente, Daiki li scacciava subito, dandosi dell’idiota, perché era ovvio che anche Ryosuke sentisse la sua mancanza, anzi, forse il ragazzo era quello che più soffriva per quella lontananza: per il bene di Yamada aveva dovuto lasciarlo, a malincuore, maledicendosi per non poter riuscire a fare subito qualcosa per lui, per portarlo via dai suoi aguzzini, ma avevano bisogno di tempo. Era certo, Daiki, che se l’agenzia andava avanti ormai da diversi anni, doveva avere le spalle coperte, magari spalleggiato da qualche politico in vista o uomo potente, facevano il bello e il cattivo tempo, arrogandosi il diritto di trattare come oggetti le persone, prendendosi le loro anime. Non voleva neanche immaginare come sarebbe adesso la sua vita se quella sera non avesse composto quel numero, se quella sera avesse scelto da sé anziché attendere che il Destino facesse la sua mossa, facendogli incontrare la persona per lui più importante, colui che gli aveva salvato la vita, salvandolo da sé stesso.
“Arioka-san?”
“Sì?”
“L’avvocato è pronto per riceverla adesso!” gli comunicò una segretaria, facendogli strada nello studio, aprendogli la porta e richiudendola quando Daiki entrò.
“Permesso!”
“Arioka-san, si accomodi prego!” l’accolse un uomo di mezza età, posato e dall’aspetto burbero e imponente.
“Ho letto il suo curriculum, vedo che si è laureato in tempi molto brevi, ma non ha mai proseguito nel percorso scelto. Posso domandarle il motivo?”
“Ecco… a dire il vero non ho trovato nessuno che mi volesse prendere come tirocinante e avevo bisogno di mantenermi” ammise con onestà.
“Quindi cosa ha fatto in questi anni?”
“Ho lavorato in una banca, mi occupavo di compilare dei moduli e a volte anche della contabilità” illustrò.
“Mh, capisco…” mormorò l’uomo, carezzandosi i baffi, pensieroso.
“Mi scusi… posso parlare?” chiese d’impulso Daiki, notando la titubanza dell’avvocato.
“Certo” accondiscese.
“So che non sono esattamente il migliore dei candidati, che sono grande e che forse la figura che andate cercando è di qualcuno più giovane e fresco di studi, ma io ci terrei davvero moltissimo a fare questa esperienza. Sono volenteroso e mi impegno seriamente in quello che faccio. Per cui, le chiedo almeno di pensarci” chiese umilmente, alzandosi e inchinando il capo per dare maggior peso a quella richiesta.
“Va bene, Arioka-san, ci penserò e poi le farò sapere!” gli disse pacato, continuano a guardare le carte che aveva sulla scrivania, congedando il candidato.
Una volta uscito dall’ufficio e chiusosi la porta alle spalle, Daiki, con ancora l’adrenalina in corpo che quelle situazioni richiedevano, si lasciò andare a un sospiro, salutando la segretaria e avviandosi verso il corridoio per chiamare l’ascensore, ma vedendosi preceduto dalla spia rossa luminosa che si accendeva.
“Uff…” sospirò, stringendo la valigetta in una mano e allentandosi il nodo alla cravatta, attendendo pazientemente che l’ascensore fosse nuovamente libero, accorgendosi che la cabina stava salendo, per fermarsi poi al suo piano.
Si fece da parte, per permettere all’occupante di uscire, ringraziandolo per avergli tenuto la porta aperta e, una volta dentro si preparò a pigiare il pulsante che conduceva al pianoterra, sentendosi però chiamare per nome e una mano fermare il chiudersi delle porte interne.
“Dai-chan?”
Sollevò di scatto la testa, chinandola di lato, osservando la persona che aveva di fronte e che sembrava conoscerlo anche abbastanza bene dato il sorriso che gli stava rivolgendo.
Rimase a fissare un istante il ragazzo di fronte a sé, prima di spalancare gli occhi, realizzando chi potesse essere.
“Kota-kun?” provò. “Sei proprio tu?”

*

“Daiki!”
Quando le porte dell’ascensore stavano per chiudersi, Daiki le fermò con una mano, vedendo un ragazzo correre in sua direzione.
“Kota!”
“Grazie per avermi aspettato!” lo salutò l’altro, entrando nella cabina con lui e scendendo insieme.
“Che ci fai qui?” si sorprese il più piccolo, guardandolo curioso.
“Sono passato in ufficio da mio padre per sistemare delle cose… non avevo molta voglia a dire il vero. Tu dove vai?” domandò a sua volta.
“Ho pensato di prendere un caffè, per fare una pausa.”
“È dura?”
“Insomma, ormai mi sono abituato, mi piace come lavoro ed era quello che cercavo” spiegò, passandosi una mano sugli occhi, prima di sollevare lo sguardo verso Kota e sorridergli. “E devo molto di questo a te!” gli disse grato, chinando il capo.
“Oh ma dai!” sminuì il più grande.
“No, davvero, non fosse stato per te, Yabu-san non mi avrebbe preso.”
“Invece sì, l’ha colpito molto la tua determinazione e questo gli è piaciuto!” gli assicurò, uscendo dalla cabina quando le porte si aprirono.
“Hai impegni adesso?” chiese Daiki quando uscirono dal grande palazzo e le loro strade stavano per dividersi.
“Dovrei tornare in centrale, ma devo solo leggere delle carte, un lavoro noiosissimo che posso facilmente rimandare se mi proponi qualcosa di più interessante!” gli sorrise, voltandosi verso di lui.
Arioka rise, annuendo.
“Se il mio volerti offrire un caffè al volo lo trovi più utile allora potresti unirti a me!” gli disse, ridacchiando, vedendo l’altro fare un cenno affermativo del capo e dirigendosi insieme al bar più vicino.
Arioka si avvicinò al bancone, ordinando due caffè ristretti, mentre Yabu prendeva posto al tavolino, iniziando a leggere il giornale.
Mentre attendeva, Daiki si soffermò a osservare l’amico che aveva ritrovato dopo anni: era stata una vera sorpresa per lui scoprire che il figlio dell’esimio avvocato a cui si era rivolto per il tirocinio, altri non era che Yabu Kota, suo senpai alle scuole superiori e con il quale aveva perso i contatti dopo il diploma di quest’ultimo. Da che Daiki ricordasse, Yabu non aveva mai fatto intendere che potesse interessarsi a entrare nel corpo di polizia e invece, dopo pochi anni era stato insignito di una carica importante e ricopriva un ruolo decisamente fondamentale.
Il più grande sosteneva che fosse merito dei contatti del padre e che quella vita gli andava molto stretta: quando erano usciti insieme una sera a cena, per ricordare i vecchi tempi e festeggiare l’assunzione del più piccolo, Kota si era sfogato con lui e gli aveva detto di sentirsi come un burattino nelle mani del genitore; svolgeva il suo lavoro senza troppo interesse e in fin dei conti, anche se lo svolgeva al meglio, non si sentiva utile a nessuno.
“Prego!” la voce della cameriera, distolse Daiki dai suoi pensieri il quale prese le ordinazioni e si avvicinò al tavolo.
“Scusa il ritardo!” gli disse, sedendosi di fronte a lui al tavolino.
“Figurati! Leggevo il giornale intanto” disse l’altro, ripiegandolo poi e poggiandolo sul tavolino accanto, accendendosi una sigaretta. “Ti da noia, se fumo?” gli chiese e Daiki scosse il capo.
“Fai pure!” sorrise, mescolando il liquido scuro e prendendone un piccolo sorso.
Rimasero in silenzio qualche istante, poi Daiki si decise a prendere la parola.
“Kota?”
“Mh?”
“Senti, posso chiederti una cosa?”
“Dimmi…”
“Ricordi quando mi hai detto che il tuo lavoro non ti gratificava abbastanza?”
Yabu annuì solamente, tirando una lunga aspirata.
“Ecco… io vorrei chiederti un favore…”
“Aspetta, sei nei guai per caso?”
“No, no… certo che no è solo che…” scosse il capo, cercando di riordinare le idee. “Riguarda una persona che conosco e…”
“Aspetta” lo interruppe Yabu, spegnendo la sigaretta fumata a metà. “Non mi sembra il luogo adatto a parlare questo e dal modo in cui ti stai comportando, mi pare di capire che è una cosa che richiede massima serietà, per cui dopo il lavoro passa nel mio ufficio. Ti aspetto e ascolterò tutto quello che hai da dirmi” assicurò, bevendo in un unico sorso il suo caffè e alzandosi dal tavolo.
Daiki lo guardò e sorrise, chinando il capo, prima di risollevare gli occhi su Yabu.
“Grazie!” gli disse, alzandosi a sua volta e prendendo il portafoglio.
“Grazie a te, ti aspetto alle sette in centrale allora!” si raccomandò, precedendolo fuori dal bar.

*

“Accomodati!”
“Grazie!”
Kota fece sedere l’amico su una sedia di fronte alla scrivania, chiudendo la porta del proprio ufficio per avere maggiore tranquillità.
“È davvero grande!” disse Arioka guardandosi attorno e sorridendogli.
“Te l’avevo detto che sono una persona di una certa importanza qua dentro!” gli ricordò, ridendo a sua volta, restando davanti a lui, poggiato contro la scrivania.
“Di cosa volevi parlarmi, ti ascolto” gli disse, incentivandolo a iniziare.
“Ecco… innanzitutto vorrei ascoltassi la storia per intero, lasciandomi spiegare tutto” esordì.
“Ok” affermò.
“Bene” annuì Daiki, torturandosi le mani e cercando di dare un ordine ai propri pensieri. “Il motivo per cui ho iniziato tardi il tirocinio e il motivo per cui volevo con tutto me stesso il lavoro da tuo padre, oltre che essere uno dei migliori, era perché avevo bisogno di entrare in possesso di alcune carte. Leggi, principalmente, statuti, qualcosa insomma!” affermò con una leggera frustrazione, prima di continuare, ritrovando la calma. “Io ho un ragazzo” confidò, guardando Yabu per testarne le reazioni, ma il più grande non ne ebbe alcuna in particolare, limitandosi a continuare a guardarlo. “Prima di incontrarlo la mia vita, per quanto insoddisfacente, mi andava bene, come te non sono mai stato soddisfatto di me stesso, mi sentivo inutile, ero solo e avevo perso in un certo modo qualsiasi interesse nei confronti della vita stessa. Lavoravo perché questo mi permetteva di andare avanti ogni giorno, ma questo non mi dava niente” fece una pausa, poi riprese. “Circa sei mesi fa ormai ho incontrato Ryosuke. Lui si prostituisce” buttò fuori quella verità, prendendo dalla propria ventiquattrore una cartella, mostrando a Yabu dei fascicoli e delle documentazioni.
Il più grande li prese e si sedette dietro la scrivania, iniziando a consultarli, mentre Daiki continuava a raccontare.
“Questo è tutto il materiale che sono riuscito a recuperare, è poco, è veramente nulla in relazione a quello che voglio fare e…”
“Che vuoi fare?” lo interruppe Yabu, pur consapevole di stare mancando alla parola data.
“Voglio tirarlo fuori da quel giro!” affermò Daiki. “Io lo so che ci sono troppe cose in gioco, che non sarà facile, ma devo provare, io lo amo, gliel’ho promesso e lo voglio fuori di lì!” chiarì. “Ho aspettato anche troppo” lasciò in un sospiro. “Quello che so è che è finito in questo giro per colpa del suo ex, non mi ha detto nulla su di lui, non so nomi, non so che facesse, non so niente” iniziò ad andare nel panico, sentendosi, come sempre ogni volta che ci pensava, impotente e privo di poteri per sistemare le cose.
“Calmati, Daiki” lo tranquillizzò Yabu. “Sei rimasto in contatto con questo ragazzo?” domandò, pur consapevole di conoscere forse la risposta.
“No” Arioka scosse il capo. “No, loro… loro hanno scoperto di noi e lo tengono in qualche modo nascosto. Ho paura che vogliano fargli del male se non fa il loro gioco e non posso vederlo. Ho provato a richiamare dopo mesi, ma non so come mi è stato sempre negato” scosse il capo.
“Ho compreso” disse Yabu. “Per quello ti serve il mio aiuto… e quello di mio padre.”
“Credimi che non ti coinvolgerei se non fosse necessario. Ho cercato questo lavoro perché volevo avere un’idea chiara di cosa poter fare in questi casi, ma da solo io non… non credo di farcela. Non senza un alleato” spiegò, abbassando il capo disperato.
Yabu continuò a controllare le carte e poi sospirò: “Ti aiuterò!” gli disse.
“Davvero?” Daiki sollevò la testa di scatto, guardandolo con occhi grandi.
“Sì, vedrò cosa posso fare, ma dobbiamo essere prudenti. Ci serve, innanzitutto un contatto, non possiamo metterci subito in contatto con questo ragazzo” spiegò. “Ma ci serve qualcuno di cui poterci fidare e l’idea di mandare qualcuno a infiltrarsi, anche dei miei uomini migliori, non mi piace. Non perché non mi fidi, ma perché preferisco gestire personalmente queste cose. Ti confesso che è da un po’ che tengo d’occhio questo genere di attività e aiutare te, che sei mio amico, potrebbe aiutarmi a farmi sentire libero dalle catene e dall’influenza di mio padre” spiegò, alzandosi e iniziando a camminare per l’ufficio.
“Forse posso aiutarti anche in questo…” disse Daiki, facendo in modo che Yabu si voltasse verso di lui.
“Ho conosciuto un ragazzo… uno che lavora con Ryosuke e… è solo un’idea, ma possiamo sempre provare…” tentò.
Yabu parve pensarci qualche istante, poi annuì.
“Sì, si può provare. Come si chiama questo ragazzo?”
“Kei…” mormorò Daiki. “Inoo Kei” disse.

*

L’accompagnatore osservò la facciata dell’albergo restando come ogni volta affascinato dalla magnificenza dei posti in cui veniva mandato a lavorare e sapeva che non si sarebbe mai abituato a tutto quel lusso e a provare disgusto per quelle persone e quei luoghi e né al disgusto per se stesso.
Mentre si dirigeva alla reception e si faceva dare il numero della stanza assegnata al suo cliente, lasciava correre i pensieri, osservando l’arredamento sfarzoso e così freddo, l’androne luminoso, la tappezzeria curata, i dettagli nella carta da parati, i decori del mobilio e su ogni porta.
Non aveva mai chiesto niente di impossibile dalla vita Kei, non era una persona che spiccava tra le altre, stava nel suo, nessuno l’avrebbe mai detto, ma non gli piaceva mettersi in mostra ed era invece finito a essere una bambola da esposizione, sotto i riflettori, sotto gli occhi di tutti; occhi bramosi, occhi egoisti ed egocentrici, occhi ciechi alla sofferenza del suo cuore che andava ormai spegnendosi di ogni calore.
Era stanco Kei, ma non si sarebbe mai potuto tirare indietro, ormai anche sopravvivere non aveva più importanza, andava avanti, perché qualcuno glielo imponeva e non aveva più la forza di opporsi alle volontà altrui, perché non ne valeva la pena.
Raggiunse la camera numero ventitré e sollevò una mano davanti al legno bianco, indeciso se bussare o meno: aveva la chiave, ma arrivato a quel punto non sapeva come comportarsi, ogni volta sentiva come di trovarsi davanti a un bivio e qualcosa dentro di sé, quella sensazione di fuggire, di liberarsi da quelle catene imposte, sotto sotto si faceva strada in lui, anche se poi quel sussurro flebile si esauriva in un istante.
Bussò con le nocche e strisciò la carta elettronica nell’apposito marchingegno, sentendo la serratura scattare: sospirò e indossò la sua migliore maschera, il suo più bel sorriso che sperava che potesse portare un po’ di effimera felicità a colui che l’aveva richiesto.
“Permesso…” mormorò, guardandosi intorno, avanzando nell’enorme sala.
La prima cosa che notò fu un’immensa vetrata che gli regalava una vista mozzafiato della Tokyo notturna e come attratto irrimediabilmente da esso si avvicinò, quasi correndo, poggiandosi contro l’enorme finestrone, osservando di sotto, meravigliandosi di quanta pace riuscisse a infondergli quella vista.
“Ben arrivato…”
Un timbro di voce sconosciuto lo riscosse e Kei si volse di scatto, sussultando perché si era distratto per un secondo di troppo e vide avanzare verso di sé un giovane dall’aspetto quasi anonimo avrebbe potuto dire, se confrontato con il genere di persone che lo richiedevano solitamente, e Kei sorrise.
“Yabu-san?” chiese, chinando leggermente il capo, mentre questi si avvicinava alla vetrata.
“Tu devi essere Kei…” mormorò questi in risposta, poggiando una mano sulla superficie trasparente, guardando la città con la coda dell’occhio.
“È esplicitamente me che hai scelto, per cui direi di sì” gli rispose il ragazzo, poggiandosi con una spalla al vetro. “Sono qui per esaudire ogni tuo desiderio” recitò.
“Cosa posso fare per te?” gli chiese, allungando una mano e avvicinandosi suadente, sfiorandogli il collo e la spalla.
Yabu lo guardò un istante, notando come il colorito pallido della sua carnagione, quasi si confondeva con quello della propria camicia. Lo prese per un polso e lo scostò da sé, indicandogli poi la poltrona accanto al letto.
“Siediti lì!” gli disse, seguendolo e vedendolo prendere posto, invece, ai piedi del letto, poggiando indietro i gomiti sul materasso e accavallando le gambe.
“Qui penso sia meglio, no?” mormorò con fare suadente, guardandolo con un sorriso e sollevando un sopraciglio.
Yabu si avvicinò, stringendosi nelle spalle e prendendo posto lui sulla poltrona, poggiando distintivo e pistola sul tavolino vicino. Kei aprì leggermente la bocca, sorpreso, risollevandosi.
“Oh… non sapevo fossi un tipo a cui piace giocare” affermò, calcando maggiormente sul verbo, per sottolinearne l’ambiguità, allungando una mano a sfiorare il ginocchio di Kota.
“Non sono qui per giocare, infatti, Inoo-san” lo fermò tuttavia il poliziotto, guardandolo seriamente. “Mi chiamo Yabu Kota e sono seriamente un ispettore della polizia” si presentò, formale e Kei spalancò ora gli occhi, indietreggiando e guardandolo spaventato.
“Cosa…?”
“Stai calmo, non intendo arrestarti!” chiarì subito, vedendolo rilassare appena l’espressione del volto, ma restare comunque diffidente. “Sono qui perché ho bisogno del tuo aiuto” aggiunse.
“Il mio… aiuto?” domandò Kei senza comprendere.
“Sì” annuì greve Yabu.
“Mi serve qualcuno all’interno dell’agenzia in cui lavori attualmente che mi aiuti a smascherare questi traffici illeciti e segreti, qualcuno di cui loro si fidino, qualcuno che siano convinti di poter comandare a loro piacimento, qualcuno di cui io mi possa fidare” specificò. Per riavere la tua libertà!” concluse, sperando così di convincerlo.
“Chi ti dice che io voglia aiutarti? Come hai la certezza che loro si fidano di me e che io voglia essere salvato? Io non ho avuto bisogno di nessuno in tutti questi anni, ho sempre fatto da me. Non mi serve…”
“Me lo dicono i tuoi occhi” lo interruppe Kota, guardandolo intensamente e Kei si sentì come privo di veli di fronte ai modi di fare del poliziotto, nudo e a disagio, come mai si era sentito prima.
Scosse un momento la testa, come a volersi schiarire le idee e poi chiese piano.
“Perché io? Come… come sei arrivato a me?”
“Conosci un ragazzo di nome Yamada Ryosuke?” chiese a sua volta Yabu.
Kei lo guardò con le labbra leggermente socchiuse per l’atteggiamento sicuro di sé che l’uomo dimostrava, poi nel suo cervello parve scattare qualcosa e sorrise appena, un sorriso vero, un sorriso tenero.
“Daiki…” parlò piano. “Ha mantenuto la sua promessa allora!” sussurrò quasi con dolcezza, poi si entusiasmò, battendo le mani. “Oh, Ryo sarà così felice di-”
“No!” Yabu frenò la sua eccitazione e Kei lo guardò confuso.
“Yamada adesso non può e non deve sapere niente! Prima ho bisogno che tu raccolga per me alcune informazioni. È meglio che lui adesso non sappia niente. Per quello ho contattato prima te. Lui è troppo coinvolto e questa è un’operazione abbastanza delicata. Se mi aiuterai, se collaborerai con la polizia, ti prometto che non ci saranno conseguenze che ti coinvolgano, né te, né altri ragazzi implicati” assicurò.
Kei ci pensò un istante, poi curioso, piegò il capo: “Perché lo fai?” domandò.
“Perché anche io ho bisogno di riscattarmi. Per me stesso” mormorò semplicemente, abbassando un istante lo sguardo, per la prima volta da quando avevano iniziato a parlare.
“Va bene…” annuì Kei. “Dimmi cosa devo fare” chiese a Yabu che sorrise appena, alzandosi e prendendo dalla valigetta poggiata sul tavolo delle carte.
“Mi servirebbero questi registri, mi bastano anche solo gli estremi e qualche nome. Non devi sottrarre nulla” spiegò. “Pensi di poterlo fare?” gli chiese, mentre Kei leggeva le note sul foglio e annuiva.
“Sì… sì, penso di sì. Ci sono diversi ragazzi scontenti in quell’agenzia, molti anche molto vicini al Presidente” spiegò, facendo un cenno per aria con le dita nel pronunciare quella carica.
Yabu annuì e si alzò, tendendo la mano a Kei, aspettando che lo imitasse.
Il ragazzo attese alcuni secondi, prima di stringergliela.
“Grazie, Inoo-san e mi raccomando, per il momento, non dire nulla a Yamada-kun. Lo contatterò poi io in seguito, appena ci saremo rivisti. Quanti giorni pensi che ti servano?” gli chiese e Kei ci pensò un attimo.
“Penso che potremmo rivederci nel fine settimana, dovrei farcela” disse e Yabu annuì, prendendo le sue cose, indossando la giacca.
“Ve bene, tra qualche giorno ti richiamerò allora” assicurò.
“Cosa fai?” chiese Kei, confuso.
“Torno in centrale, ho del lavoro da fare.”
“E io?” Kei sbarrò gli occhi e Yabu lo guardò senza comprendere il senso di quel suo sconcerto. “Hai pagato” constatò l’altro semplicemente, in risposta al suo sguardo.
“Sì, ma io volevo solo parlare… però visto che me lo fai notare, puoi stare qui se vuoi… puoi… non so, puoi dormire se vuoi. Poi torna a casa, non so come, insomma, come sei abituato. Per i tempi in cui stai con… con i clienti” precisò, d’un tratto a disagio. “Fa quello che preferisci, Inoo-san” gli disse, dandogli le spalle e avviandosi alla porta, fermato poi dalla voce dell’altro, prima che posasse la mano sulla maniglia.
“Kei!” parlò a voce alta.
L’ispettore si volse, vedendo il ragazzo raggiungerlo in fretta.
“Chiamami Kei. Non ha molto senso che mi tratti con così tanto riguardo…”
“Veramente…”
“E poi Kei mi piace di più” gli confidò, avvicinandosi a lui e sistemandogli il colletto della camicia, lasciando poi scivolare la mano lungo la cravatta scura, poggiandosi contro il suo petto, guardandolo negli occhi in silenzio.
Yabu ricambiò, senza proferire parola, poi vide Kei sollevarsi tendersi verso di lui e, occhi negli occhi, posargli le labbra sulle sue leggermente dischiuse, lasciando risuonare quello schioccare nell’aria.
“Non…”
“Era per ringraziarti” lo interruppe Kei sorridendo, “mi è sembrato appropriato” si limitò a dire, allontanandosi da lui, e Yabu sentì le sue mani e il calore di quei palmi abbandonare il suo corpo e il ragazzo tornare verso il letto.
Kei scostò il lenzuolo e quando iniziò a spogliarsi, Yabu si voltò, uscendo dalla stanza per lasciarlo da solo.

Part. 02

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