Premessa scema per bilanciare l'angst che segue: Primo tentativo di scrivere di Gintama, il che fa di me un persona molto superba, visto che conosco in fandom in modo tutto sommato superficiale. Ad ogni modo, questo è il classico esempio di terapia scrittoria: scrivere di una cosa che fa star male, aiuta a metabolizzarla. Sorvoliamo sul fatto che io sto male dopo aver visto, a spezzoni, gli episodi 86 e 87 (sì, a spezzoni, perché sono una scema integrale). Devo trovare uno bravo per farmi analizzare (non dico più curare, perché la ricerca non è così avanti).
Meme dell'Estate di Michiru
[Set uno: estate] 11. O-bon - Gintama: Hijikata
(Senza titolo)
Cosa succede, quando la persona più importante della tua vita sta per morire?
(Michiru, “Vertigine”)
Era il quindicesimo giorno del settimo mese e secondo la tradizione era il giorno dedicato ai defunti, un giorno in cui le famiglie tornavano nei luoghi natali per pregare intorno alle tombe degli antenati. Era una festa, un momento di aggregazione e di ricordo e, come ogni festa, aveva i suoi riti, le sue danze e i suoi momenti di goliardia. Tante cose erano cambiate negli ultimi vent’anni, ma la devozione per gli antenati e lo spirito famigliare che spingeva milioni di persone a pellegrinaggi verso la casa natia era qualcosa che né gli Amanto né la modernità poteva cancellare. Per la festa di O-bon, Isao Kondo dava la libera uscita a tutti coloro che ne facevano richiesta e lui stesso si recava a Bushu a pregare sulla tomba di Kondo-sensei; ma quell'anno c'era una nuova lapide sui cui pregare e, proprio perché la morte aveva portato via una persona giovane e buona, faceva davvero male leggere il suo nome sulla pietra nera. Kondo lo sapeva, lo sapeva Hijikata che, proprio per non leggere quella realtà crudele, decise di non partire, di restare a Edo: non fosse mai che tutta la Shinsengumi andasse a folleggiare con la scusa degli antenati! Qualcuno doveva rimanere, aveva annunciato la sera prima al comandante Kondo, e questi non aveva protestato. Sarebbe stato riposante, si disse Hijikata la mattina del quindici luglio, mentre il quartier generale lentamente si sfollava, non avere quei deficienti in giro per due giorni, si sarebbe riposato e avrebbe guardato le soap alla TV in santa pace.
“Il bastardo non si degna neanche di pregare sulla sua tomba?” la voce tremula di odio del capitano Okita giunse alle orecchie del Vice-comandante. Era in compagnia di Kondo, il quale si limitò ad una risatina nervosa “Tanto meglio, non ce lo voglio! Che la lasciasse in pace almeno adesso”
“Sougo, non devi essere così severo, a modo suo anche Toshi soffre per la perdita di Mitsuba-san. Tutti noi siamo addolorati per la sua dipartita”.
“Tsè, figuriamoci!”
Hijikata aveva rallentato inconsciamente, passando davanti alla stanza di Kondo; si chiedeva cosa pensasse il Comandante di quella faccenda, ma Kondo aveva una parola buona per tutti, sempre, perfino per lui.
Toshiro Hijikata era un lupo solitario, aveva un pessimo carattere e contava più nemici che amici, in vita sua non si era voltato indietro una sola volta e metteva l'anima in quel che faceva solo se si trattava dell'onore della Shinsengumi, e quindi di Kondo. Eppure quell'uomo granitico, dalle pupille dilatate, l'onnipresente sigaretta accesa in bocca e la mano perennemente pronta a sguainare la katana, ecco quell'uomo nevrotico e pessimista aveva un solo rimpianto e quel rimpianto si chiamava Mitsuba Okita.
Non era la sua scelta di seguire Kondo a Edo che rimpiangeva e nemmeno l'aver votato la sua intera esistenza al perseguimento del suo Bushido; no, era l'idea che lei non ci fosse più che lo faceva star male. Prima, anche se era lontana e non aveva che rare notizie di seconda mano sulla sua salute e la sua vita, comunque lui era in pace: Mitsuba viveva da qualche parte, sorrideva e andava avanti per la sua strada. Anche se si fosse sposata, anche se non l'avesse davvero più rivista, Mitsuba c'era e lui era contento. Adesso invece lei non c'era più e lui non poteva più fingere che andasse comunque tutto bene: Mitsuba era stata la sua possibilità di essere un uomo come gli altri, di avere una casa, costruirsi un nido, metter radici.
Le vecchie del villaggio dove era nato ripetevano una litania ad ogni giovinetta in età da marito: “Colui che è destinato a te, nessuno può portartelo via”. A Toshiro quella era sembrata solo una stupida frase fatta, che i vecchi dicono ai giovani per illuderli, per fargli credere che la vita è una cosa meravigliosa, quando invece è chiaro che la vita fa schifo. Eppure quando aveva conosciuto Mitsuba, e poi molto di più quando l'aveva abbandonata, si era convinto della veridicità di quel detto popolare, ma lo aveva interpretato a modo suo: “Una, ed una sola, è la persona destinata a te. Perso quel treno, non ne passano altri”.
E lui aveva scientemente scelto di rinunciare alla sua unica possibilità, che, a rivoltare la questione, era anche l'unica possibilità di Mitsuba: perché se lei era la sua anima gemella, la donna della sua vita, lui, suo malgrado, aveva incarnato lo stesso primato nel cuore della ragazza. Eppure, lui aveva scelto di non legarsi, aveva scelto per entrambi, negando a sé stesso e a Mitsuba la possibilità di essere felici insieme.
Ad ogni modo, finché lei era viva, Hijikata aveva continuato a pensare che non tutto era perduto, che lei sarebbe stata felice in un altro modo. Morendo, invece, Mitsuba gli aveva tolto quell'illusione: lei non sarebbe più stata felice, lei non sarebbe più stata, punto. E su di lui ricadeva il peso dell'antica scelta.
Okita lo odiava e a ragione, anche lui si odiava per quello che aveva fatto, per come si era comportato, ma al tempo stesso sapeva che non aveva altra scelta: sarebbe stato un pessimo marito e non l'avrebbe resa felice. Andandosene, lasciandola libera, lui aveva ritenuto di fare un favore ad entrambi, l'importante era che lei continuasse ad esistere, a perseguire la sua felicità. Adesso che lei era morta, non c'era più consolazione, non gli restava che l'idea di averle voltato le spalle.
La sala comune della Shinsengumi era vuota e deliziosamente silenziosa, il Vicecomandante si accese una sigaretta: nessun deficiente nei paraggi a fare idiozie, nessun dannato moccioso a tentare di ammazzarlo, nessun maledetto Amanto a cui fare da balia. Il fumo gli andò di traverso. Toshiro Hijikata non era un uomo destinato ad essere felice, perfino adesso che poteva stare finalmente in pace, sentiva la mancanza di quel branco di scimmie ammaestrate. Era la sua indole, essere perennemente scontento, ormai avrebbe dovuto averci fatto il callo, ma ogni volta si sorprendeva di quanto, in realtà, lui fosse un dannato sentimentalista.
Indossò un kimono ed uscì per mischiarsi nella folla, magari avrebbe incontrato qualche piantagrane con cui scatenare una rissa come si deve. Scese al fiume e fissò la gente che immergeva le barchette di carta con delle piccole candele accese sull'acqua: erano i defunti che tornavano nel mondo dei morti. A Bushu, in quel momento, Kondo e Okita stavano sicuramente deponendo in acqua quella per Mitsuba; avrebbe voluto esserci, o forse no, forse non era ancora pronto a lasciarla andare: in fondo non era stato capace di recarsi al suo capezzale proprio perché non sapeva fare pace con l'idea della sua assenza. Una fila pressoché ininterrotta di fiammelle tremule si rispecchiava nelle acque nere del fiume e, viaggiando tutte assieme verso il mare, formavano la lunga coda di un drago.
Poco dopo incominciarono i fuochi d'artificio e al primo fiore scarlatto apparso in cielo, Hijikata risalì la folla controcorrente deciso a lasciare il matsuri. Vide ad un tratto una bancherella che vendeva cose piccanti: un ometto piccolo e calvo stava dietro il bancone e a fatica lo si poteva scorgere oltre le pile di salatini e snack alla paprika o al curry: sarebbe stato il paradiso per Mitsuba! Benché Hijikata odiasse i senbei piccanti che la ragazza era stata solita inviare alla Shinsengumi in quantità industriale, ne acquistò un sacchetto e li divorò letteralmente fissando il cielo illuminato dai fuochi pirotecnici. Era la cosa più disgustosa che avesse mai mangiato e cercò con lo sguardo una bancarella di hotdog a cui sgraffignare una confezione di maionese per correggerne il sapore; ma al tempo stesso erano anche i senbei più buoni che avesse mai mangiato: sapevano di lei, in qualche modo, o forse era solo l'effetto dei ricordi che riaffioravano alla mente attraverso il senso del gusto: non erano i senbei piccanti ad essere buoni, era il ricordo di lei che, nonostante il tragico epilogo, si sarebbe conservato gioioso e magico in lui, come un'isola felice in cui approdare durante le tempeste della vita. Trangugiò l'ultimo piccantissimo senbei, che la sua gola urlava pietà e il suo stomaco si dichiarava sconfitto, e si accese un'altra sigaretta.
Note
Senbei: sono dei cracker di riso che si mangiano accompagnati dal tè giapponese. Oggigiorno se ne trovano di tutti i sapori, dal wasabi al curry al cioccolato.
Matsuri: sono i festival che si tengono in alcune ricorrenze paricolari presso i templi in Giappone, simili alle nostre sagre, vi si trova bancarelle con cibarie varie e bancarelle per i giochi.