Titolo: Solitudine
Fandom: originale
Personaggi: Michele e Cesare (citato il resto della famiglia Rocca)
Prompt: [Lista due: Rose] 02. Rosa canina (significato: sofferenza) @ Meme di Maggio di
michiru-kaiou7Rating: G
Conteggio Parole: 1952(OpenOffice Writer dixit)
Riassunto: [...] [...] “Cesare, questo è tuo fratello”, lui aveva guardato la nonna e questa lo aveva incoraggiato ad avvicinarsi al nuovo arrivato. La parola fratello per lui non aveva alcun significato, era solo un bambino, uno come tanti.
Note: I personaggi sono i miei (non li rapite e non ci giocate enza il mio permesso) e sono gli stessi di
Tenerezza e
Famiglia e di altre che seguiranno. Si ringrazia calorosamente
el_defeNel 1981 l'Onorevole, che non poteva ancora fregiarsi del titolo ed era solo un assessore comunale, incontrò una donna, una ragazza di vent'anni ad esser precisi, con la quale ebbe una relazione, lavandosi la coscienza con la scusa della malattia invalidante della moglie: la scappatella durò qualche mese, poi la malattia della moglie si aggravò e lui elegantemente mise alla porta la giovane, poiché alcuni quadri del Partito gli avevano fatto notare che non avrebbe giovato alla sua reputazione rimpiazzare la moglie quando il letto era ancora caldo.
L'anno successivo la prima moglie morì, Cesare andò a vivere con la nonna Rachele a Subiaco, dove la famiglia aveva una tenuta agricola, e l'Onorevole fu eletto per la prima volta in Parlamento.
Cinque anni dopo, alla porta dell'Onorevole bussò l'amante di un tempo e con lei il figlio di cinque anni, che ella sosteneva essere dell'Onorevole: impossibile negarlo, assomigliava all'altro suo figlio in modo imbarazzante. L'Onorevole, uomo di Chiesa e di sani principi, non seppe o non poté rinnegare l'avventura passata e, intuendo che la storia poteva rivelarsi una minaccia alla sua carriera politica, oltre che all'imminente matrimonio con la figlia di un noto esponente del Partito, acconsentì a far rilasciare dalla polizia il compagno della donna, ritenuto un simpatizzante delle Brigate Rosse, e di permetter loro di espatriare in Brasile. Di lasciar andare così lontano la carne della sua carne in compagnia di un terrorista e una mezza sciroccata, non se ne parlava: Michele fu mandato in Sabina dalla nonna Rachele e la madre raggiunse il nuovo compagno in Brasile; intanto l'Onorevole aveva arginato i danni e il matrimonio con la signorina Giulia era stato solo posticipato.
Di fronte a tutti questi sconvolgimenti, i due bambini non avevano capito altro che adesso avevano un fratello. Si erano incontrati la prima volta nel giardino della villa di Donna Rachele, in campagna: una fila ininterrotta di ulivi costeggiava la stradina sterrata che, lasciata la statale, saliva un ripido clivio fino a Villa Rosa. Il nome era dovuto agli splendidi roseti che la signora Rachele coltivava fin da ragazza. In particolare, prima di arrivare all'ingresso dell'edificio a due piani con le vetrate del salone in stile Liberty, voluto dal padre di Donna Rachele negli anni Venti, c'era una lunga siepe di bosso e rosa canina: piccoli fiori rosa chiaro punteggiavano la vegetazione verde cupo. Michele fissò quei fiorellini appena sbocciati dal finestrino della macchina scura che parcheggiava proprio lì accanto. In seguito la nonna gli avrebbe raccontato tutto delle sue rose, del loro significato: la rosa canina nel linguaggio dei fiori rappresenta la delicatezza, il piacere, ma anche la sofferenza. A Michele sembrò strano che uno stesso fiore potesse avere tanti significati così diversi, e decise che per lui quel fiorellino rosa pallido avrebbe sempre ricordato la sofferenza della sua infanzia complicata, non a caso la prima immagine della villa della nonna era stato il roseto in fiore. Il resto di quella giornata lo ricordava in maniera sfumata, più delle fotografie che delle sequenze temporali.
Anche Cesare aveva un ricordo vago di quel pomeriggio quando il segretario personale del padre era arrivato con quel bambino e aveva detto: “Cesare, questo è tuo fratello”, lui aveva guardato la nonna e questa lo aveva incoraggiato ad avvicinarsi al nuovo arrivato. La parola fratello per lui non aveva alcun significato, era solo un bambino, uno come tanti.
Michele era perfino più confuso di Cesare, nel giro di pochi mesi aveva scoperto di avere un padre, un fratello e una nonna, di essere ricco e di dover separarsi dalla mamma, più o meno in quest'ordine.
“Vuoi giocare?” gli aveva chiesto il bambino davanti a lui.
“Sì, va bene” Non sapeva cosa rispondere, ma un bambino è sempre un bambino, se gli fosse stato antipatico non ci avrebbe più giocato, si era detto per rincuorarsi.
Cosa significava esser fratelli Cesare e Michele lo avrebbero scoperto con l'inizio della scuola.
Cesare frequentava un collegio gestito dai padri gesuiti a Roma e tornava a casa solo per le vacanze. La nonna lo veniva a trovare tutte le domeniche e lo portava a pranzo fuori o al cinema, il papà lo vedeva il 15 di ogni mese per circa un'ora. L'uomo parlava con il preside di come il figlio si comportasse e, a seconda delle risposte dell'uomo, elargiva o meno carezze sulla testa riccioluta del bambino. Non è che l'Onorevole non amasse i suoi figli, semplicemente non aveva mai tempo sufficiente per occuparsi di loro.
Cesare era un bambino terribilmente solo, ma aveva un carattere carismatico ed era il leader del suo anno, una vera iattura per gli insegnanti. Non dava mai segni di stanchezza o di tristezza, se piangeva lo faceva di nascosto, e padre Giuseppe che controllava le camerate e seguiva da vicino i bambini più piccoli si chiedeva se quel ragazzino fosse ancora capace di piangere.
Michele, invece, aveva un altro carattere: aveva vissuto con la mamma per tutta la sua breve vita, amato e coccolato, e adesso si ritrovava da solo in quell'enorme edificio del Seicento, tra bambini che non conosceva e adulti che lo fissavano come se fosse stato marchiato.
“La madre è una comunista, è scappata con un balordo ricercato per terrorismo e il figlio lo ha lasciato all'Onorevole”
“Secondo me non è neanche veramente il figlio dell'Onorevole... Insomma, è tutto l'opposto di Cesare”.
Queste, se non peggiori, le voci che gli adulti bisbigliavano alle sue spalle fin da quando aveva conosciuto suo padre. Michele non sapeva se fossero vere o meno, ma facevano male.
Un pomeriggio, uno dei tanti, Michele era rimasto in refettorio con il piatto di lenticchie davanti a sé, ormai freddo. Padre Anastasio era stato chiaro: non poteva alzarsi da tavola finché il piatto non fosse stato vuoto. Michele odiava le lenticchie, la mamma non gliele cucinava mai e, se proprio preparava qualcosa che a lui non piaceva, faceva in modo di convincerlo a mangiare raccontandogli una favola. Aveva sei anni e viveva in collegio da una settimana o poco più, non aveva ancora capito chi comandava e che nessuno avrebbe dato ascolto ai suoi capricci. Alla fine aveva dovuto mangiare le lenticchie fredde e tale la rabbia dell'imposizione aveva dato di stomaco meno di un'ora dopo. L'infermiera della scuola lo aveva fatto sdraiare sul lettino bianco dell'infermeria e detto che doveva dormire un po'. Padre Anastasio aveva borbottato che era un bambino impossibile e che ci avrebbe pensato lui a metterlo in riga. Padre Giuseppe aveva osservato il bambino rannicchiato sullo scomodo lettino e si era domandato se poteva fare qualcosa per quel cucciolotto abbandonato. Aveva notato che i due fratelli non si parlavano e non giocavano assieme, Cesare troppo preso a comandare la banda di quelli del secondo anno e Michele troppo spaventato per desiderare altro che starsene in un cantuccio e far dimenticare la sua presenza.
Il religioso scese in cortile e trovò il capobanda che discuteva con un terzetto del quarto anno per chi doveva usare il campetto da calcio.
“Cesare, vieni qui”
“Non ora, Padre Giuseppe”
“Ora ora, invece” aveva risposto l'uomo mal celando un sorriso: Cesare era così irriverente e indisciplinato da risultare simpatico a tutti, tranne al Preside e a Padre Anastasio, ovviamente. “Cesare, non fartelo dire due volte, ti devo dare un incarico” Giuseppe aveva capito che il bambino, se stimolato, era molto disponibile, voleva che gli si desse importanza, che gli venissero affidati dei compiti; Cesare era un leader nato e come ogni leader non amava stare mani in mano. Come c'era da aspettarsi, il ragazzino aveva lasciato perdere quello che stava facendo e si era incamminato verso il prete.
“Cosa?” aveva chiesto con adorabile arroganza.
“Con me” aveva risposto con modi autoritari Padre Giuseppe.
Erano entrati nell'infermeria senza parlarsi e l'uomo aveva indicato a Cesare il bambino accucciato sul lettino: “Sta male, sai... Fagli compagnia”
“Non mi va”
“Assistere i malati ed aiutare i bisognosi è uno dei comandamenti di Nostro Signore. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”
Cesare lo guardò storto, sapeva che era una qualche citazione biblica, Padre Giuseppe citava sempre i Vangeli quando voleva esser ubbidito, era la sua specialità trovare sempre una frase adatta ad ogni circostanza.
“Immagino che c'entri sempre con il doversi guadagnare il Paradiso, no?”
“No, c'entra con il fatto che quel bambino è tuo fratello minore e ora è solo, sta male e vorrebbe avere la sua famiglia vicino. Sei tu la sua famiglia, Cesare, e lui è la tua”
“A me non serve una famiglia”
“A lui, sì!”
Padre Giuseppe non disse altro, ma lo spinse verso il lettino e li lasciò da soli.
Michele aveva notato la loro presenza e si domandava perché quel bambino fosse lì.
“Stai male anche tu?” chiese quando fu chiaro che l'altro non avrebbe parlato per primo.
“No, Padre Giuseppe mi ha detto di stare qua, perché stai male e non vuoi stare da solo”
“Mi fa male la pancia, di solito la mamma mi prepara la camomilla e si siede accanto a me, ma lei adesso non c'è. Puoi sederti tu, se vuoi”.
“Dov'è tua mamma?”
“Se n'è andata via”
“Perché?”
“Forse non mi vuole più bene. Ha detto che devo vivere con il papà e papà ha detto che devo stare qui”
“Il tuo papà è anche il mio, ma la tua mamma no. Gli adulti sono complicati”
“La nonna ha detto che siamo una famiglia larga”.
“Si dice famiglia allargata: significa che c'è un papà, tante mamme e tanti bambini”.
“Capisco” In realtà Michele non capiva affatto, ma non voleva passare per stupido davanti a quel bambino. Neanche Cesare capiva bene, aveva sentito le discussioni dei grandi, la nonna che piangeva e pregava la Madonna, suo padre che bestemmiava al telefono, la donna delle pulizie che parlava fitta fitta con la cuoca e tutti tacevano di colpo quando capivano che lui li stava ascoltando. Ad ogni modo, gli dispiaceva per quel bambino, gli dispiaceva che tutti parlassero di lui come se fosse una cosa brutta, in fondo era solo un bambino.
“Ho delle biglie che ho vinto a Santi “della terza B”, le vuoi vedere?”
Michele fece cenno di sì con la testa e fece spazio sul lettino a Cesare che sparpagliò le biglie colorate sul lenzuolo bianco. La luce che passava dalla finestra illuminava le biglie, che cambiavano colore a seconda dell'inclinazione. Cesare e Michele passarono un bel po' di tempo ad osservarle, a decidere quale fosse la più bella e quale la più brutta. Il pomeriggio passò veloce e, quando l'infermiera disse loro che dovevano andare a cena, Michele si rifiutò di scendere in refettorio.
“No, io odio le lenticchie e odio Padre Anastasio”.
“Non ti preoccupare” disse Cesare prendendolo per mano “Le lenticchie le mangio io, anche le tue. Ti siedi accanto a me e mi passi tutto quello che non ti piace”.
“Davvero?” chiese incredulo Michele, asciugandosi i lucciconi agli angoli degli occhi.
“Sì, perchè io sono il fratello maggiore, devo occuparmi di te”.
“Il fratello maggiore?”
Cesare annuì e Michele si lasciò condurre fuori dalla stanza, non era tanto sicuro di aver capito bene, ma era contento di non dover mangiare ancora lenticchie. Cesare fu di parola quella sera e mangiò anche la porzione di Michele, senza che Padre Anastasio se ne accorgesse.
Qualche sera dopo, Michele ricambiò il favore tenendo a Cesare un posto in prima fila per la serata della TV (una volta a settimana il Preside permetteva ai bambini di prima, seconda e terza di rimanere in piedi a veder un film) e quando un bambino si avvicinò per sedersi, rispose arrabbiandosi “Non puoi sederti lì, quello è il posto di mio fratello”, Cesare capì cosa significava avere una famiglia.