Titolo: Novantanove metri in salita
Fandom: Sherlock BBC
Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Rating: PG/SAFE
Avvertimenti: Scuola-pseudo-american-trash!AU, Cazzata, Oneshot
Conteggio Parole: 4899
Note: Assolutamente disimpegnata e imprefetta
Scritto per la seconda settimana del Cow-t @
Maridichallenge con il prompt "freddo"
Se avessero chiesto a John Watson, studente, zoppicante per via di una brutta storia e vittima degli ultimi caldi estivi, chi fosse Sherlock Holmes, probabilmente vi avrebbe guardato in modo simile a quello con cui si può guardare una strana crepa nella parte, per poi rispondere con un «Chi?» molto esaustivo.
Eppure, quando entrò nella sezione D del terzo anno, tutti sapevano chi (o che cosa) fosse Sherlock Holmes.
Novantanove metri in salita
C’era qualcosa di particolarmente insensato nella città di Londra.
Perché dovrebbe essere costruita su una specie di pianura, si ritrovò a pensare John, ma nell’unica salita presente in città dovevano costruire una scuola. E non nel mezzo, non ne durante, ma in cima. Perché dovevano costruire una scuola in cima a una salita di quasi un dannato chilometro: logico.
John imprecò sottovoce, tenendosi nell’inferriata - o qualunque cosa fosse quella specie di supporto che accompagnava la strada verso la cima. Doveva essere stata messa lì per li studenti disperati e poco in forma come lui; o per studenti disperati, poco in forma e con una dannata storta come lui.
Iscriviamoci in quest’istituto, si era detto, è vicino a casa, posso dormire sei minuti in più e devo solo fare qualche passo. Non può essere così male.
Si era sbagliato. Si era sbagliato su tutta la linea. Aveva pensato che se si fosse alzato prima avrebbe potuto fare la salita con tutta calma, e quindi non sarebbe stata così faticosa; ma quei dieci minuti, quelli che lo separavano dal sonno e dal letto, erano sempre i più belli, e sacrificarli si era rivelato più difficile del previsto.
John imprecò di nuovo, questa volta più contro la sua stupidità che contro la salita.
Perché erano i primi giorni di settembre, faceva un caldo soffocante e, dio gliene scampasse, era così umido che non avere i capelli appiccicati al cranio sarebbe stato sintomo di qualche strano superpotere. E, ciliegina sulla torta, il cielo era così nuvoloso dal rasentare il buio.
Un grande urrà per il primo giorno di scuola.
Riprese a camminare solo perché l’orologio gli ricordò il terribile ritardo in cui già si trovava - e John non voleva peggiorare la situazione.
Sbagliò classe tre volte prima di trovare la sezione D e scoprire che la scuola era una specie di labirinto di scale. Di male in peggio.
Li studenti, perfettamente lindi nelle loro divise, sciamavano qua e là lamentandosi del caldo e parlando delle vacanze estive. John captò qualche frammento di discorso, ma liquidò ogni suono con una smorfia poco interessata.
Sembrava essere l’unico a godere di un entusiasmo scadente, nonché uno dei pochi a non avere la benché minima idea di come trovare la propria classe.
In segreteria gli avevano detto di provare al terzo piano, nell’aula del professor Bell. Così si era affrettato su per le scale ed era arrivato fino al terzo piano per non trovare un bel niente. Da lì era stato indirizzato al secondo, e dal secondo al terzo; alla fine, si era ritrovato nell'aula più remota dell'intera scuola, la quale fiancheggiava a un laboratorio in disuso e uno stanzino ammuffito (nel quale entrò credendo, in un attimo di fervida speranza, di aver aperto la porta giusta).
Arrivò in classe saltellando su un piede solo, in ritardo. Si ritrovò venticinque occhi attenti su di lui, più quello del professore. Si trattava di quel genere di occhiate destinate agli animali dello zoo, più che agli esseri umani, ma John si sforzò comunque di sorridere e mantenere una calma autoimposta.
Si avvicinò al professore, presentandosi come lo studente appena arrivato; sì, quello che si era appena trasferito. No, non avrebbe di certo ripetuto il ritardo, no, no. Aveva solo avuto qualche problema a trovare la classe, ecco tutto.
Il professor Bell - Joseph Bell, come si presentò - fece alla classe il segno di tacere, ottenendo il silenzio più totale.
«Ci parli di lei, signor Watson» asserì l'insegnante. Presentazione davanti alla classe. Bene.
John arricciò le labbra e cercò il modo più carino di dire qualcosa alla sua nuova classe. Le persone, in situazioni simili, dicevano sempre qualcosa di buffo, o raccontavano qualcos’altro sulla sua precedente scuola, per poi passare ai motivi del trasferimento, hobby e poi ritornare alle battute squallide.
«Sono John Watson, piacere di conoscervi» disse semplicemente. Il professore lo guardò incoraggiante, ma l’unica cosa che ottenne dal ragazzo (zoppicante, ansante e terribilmente irritato da Londra) fu un’aggiunta simile a un «Mi sono appena trasferito e spero di trovarmi bene» molto veloce. Così batté le mani e lo indirizzò verso uno dei banchi vuoti.
Dopo di che, iniziò un discorso sull’importanza radicale di quell’anno e sul modo in cui avrebbero assolutamente dovuto seguire le lezioni passo dopo passo. Passarono un paio di circolari, rinnovarono alcune regole di istituto e John poteva sentire su di sé, ancora, li sguardi dei compagni. Sbuffò, alzando gli occhi dall’orario che gli aveva consegnato una ragazza, e si guardò intorno sconsolato.
Lanube nera incombeva ancora su Londra.
John non poteva dire di essere una persona sgradevole, ma quel giorno aveva il sospetto che sarebbe riuscito a spaventare chiunque gli avesse rivolto la parola.
Il problema, quando sei quello nuovo e dici tre parole in croce nella tua presentazione, è che non ti puoi proprio permettere il lusso di essere di malumore. Così sorridi ai compagni che ti accerchiano e provi, quantomeno, a non sembrare totalmente ritardato. Le domande iniziali sono le più semplici: hobby, provenienza, famiglia. Hai animali domestici? Io ho un gatto. Ti piacciono i gatti? Oppure preferisci i cani? Com’è Londra? Riesci ad ambientarti bene?
Cose del genere.
John dovette cercare di memorizzare nomi e facce, facendo qualche gaffe e dissimulando l'imbarazzato nei momenti più opportuni. Rispose che faceva ancora un po’ di confusione con le linee del metrò e aveva qualche difficoltà con la salita. Risero quasi tutti, e iniziarono a raccontagli aneddoti degli anni precedenti, di quando tizio aveva fatto questo o caio si era comportato in quest'altro modo; e la sapevi, la sapevi quella cosa divertentissima che ha fatto quell'altra persona che non conosci?
Quando arrivò la pausa pranzo, fu quasi contento di poter sgattaiolare fuori. Lo fece con la stesse grazia che avrebbe avuto un lemure semimorto, ma si rivelò comunque una buona fuga.
Raggiunse la mensa con fatica. Fu lì che sentì parlare per la prima volta di Sherlock Holmes.
Aveva preso posto in un tavolo qualsiasi, con tre persone con cui era quasi sicuro di aver chiacchierato tra la seconda e la terza ora. Il primo, che aveva individuato in un mare di teste sconosciute, era Gregory Lestrade. Gli aveva detto di chiamarlo semplicemente Greg, ma John - per qualche motivo - non poteva fare a meno di chiamarlo Lestrade. Per cognome, sì. Questione d’abitudine. Si trattava del ragazzo che sedeva nel banco vicino - giocava a calcio, gli aveva detto mentre il professor Bell parlava, e aveva provato a reclutarlo nella squadra della scuola.
La storta era stata una scusa - vera- più che sufficiente per permettergli di pensarci un po’ su.
L’altra si chiamava Molly, ed era la ragazza che gli aveva consegnato l’orario. Aveva dei Jeans sotto la gonna dell’uniforme e una coda di cavallo. Sembrava simpatica, ma faticava a tenere a mente il suo nome. Gliel’aveva già chiesto almeno sei volte, ma continuava a chiamarlo Jim.
Poi c’era uno con la faccia mezzo addormentata, che tutti chiamavano Anderson e che non sembrava avere un nome, a cui John dedicò veramente poca attenzione. E un’altra ragazza, Sally, che tentava da almeno venti minuti di rubare le patatine a Anderson-senza-nome.
John li guardò nell’insieme: erano il gruppo più assurdo e mal assortito che avesse mai visto.
Aprì la lattina di pepsi annuendo a delle statistiche sportive di uno sport che non seguiva.
«E pensare che quotavano questa stagione così bene» borbottò Anderson, rivolto a Lestrade «E indovina chi ha azzeccato tutto? Dai punteggi ai fuoricampi?» ci fu un leggero moto di stizza, tra le parole del compagno. Gregory sogghignò «Fammi indovinare: Holmes» disse ironico, infilzando una patata con la forchetta «A quanto ammontava la scommessa, questa volta?»
Anderson fece una smorfia, spingendo avanti il vassoio «Molto, fidati. Abbastanza da procurare a quello strambo un nuovo microscopio».
Fu a quel punto che John alzò gli occhi. E lo chiese. Lo chiese solo per fare conversazione.
«Holmes chi?».
I quattro componenti del tavolo si zittirono, voltandosi verso di lui.
Molly sgranò gli occhi. «Come “chi?” » Lo disse con lo stesso tono di chi parlava dei Queen prendendo come presupposto che tutti li conoscessero e che nessun ignorante e nessun indegno potesse permettersi di chiedere cose stupide come “Chi sono i Queen?” oppure “Ma Freddie Mercury non era quello dei Beatles?”.
Greg alzò gli occhi al cielo; Anderson storse le labbra «Sherlock Holmes. Quel rompipalle che sta all’ultimo banco e che non parla mai.».
«Ma quando lo fa - aggiunse Donovan - preferiresti che non l’avesse mai fatto»
«Non l’ho notato» John alzò le spalle, prendendo un’altra forchettata e guardandosi intorno, come se sapesse esattamente chi cercare. Lo fece, più che altro, per dare soddisfazione ai suoi poveri interlocutori, totalmente assorbiti da quel nome. Sherlock Holmes, pensò John, che nome assurdo.
«Ma sì, quello con i capelli neri e ricci»
John scosse la testa e si trattenne dal rispondere molto poco educatamente.
«Indicatemelo» propose, facendo un segno verso la mensa sovraffollata.
«Non mangia mai» dichiarò Molly, stirando le labbra «E ha i voti migliori della scuola»
Oddio, pensò John, affranto. Sembra una pateticissima scena di Twilight.
«Sì, lo sappiamo - sbuffò Sally - e tu lo ami alla follia e avrete tanti figli spocchiosi assieme».
Molly la guardò arrossendo, biascicando un “non è vero” decisamente poco convincente. Greg tossicchiò. John si chiese per quale assurdo motivo stesse veramente prendendo parte a quella conversazione.
«È un tipo strano» continuò Anderson, ignorando le due «Sembra sempre che sappia cosa pensi. È inquietante».
Per la fine della giornata, John aveva una lunga lista di libri annotata su molteplici fogli volanti e si era presentato così tante volte da non correre più il rischio di dimenticarsi il proprio nome. Avrebbe conservato l’esperienza del trasferimento come il peggiore dei traumi infantili.
Fu nei giorni successivi che ebbe modo di osservare Sherlock Holmes.
Solo perché glielo indicarono, due banchi dietro di sé, alla sua sinistra. E anche perché sì, beh, sembrava essere l'argomento di conversazione più gettonato di tutta la classe (e, in base a cosa faceva esplodere, della scuola).
Guardato dall’esterno, appariva come un qualsiasi sedicenne di bell’aspetto che fosse nato e vissuto nella città di Londra. Pallido, irritabile, leggermente apatico. Almeno, questo era quanto finché non parlava. Allora si veniva pervasi da due sensazioni diverse: insultarlo e prenderlo a pugni; e queste erano spesso stranamente compatibili.
La prima cosa strana, legata a Sherlock Holmes, era il parlare. Per i primi tempi, non aveva rivolto la parola a nessuno, tanto meno ai professori. Si limitava a tacere, sbuffare e guardare fuori dalla finestra spalmato sul banco. Poi spariva. Durante le pause tra una lezione e l’altra, negli intervalli e all'ora di pranzo. Spariva. Lo avvistavano in molteplici luoghi diversi e faceva su e giù, su e giù, senza mai fermarsi.
Il secondo fatto, era il traffico di persone intorno a lui. Benché fosse sempre spiacevolmente scorbutico nelle risposte, sembrava ricevere visite per ogni sorta di problema. Lui ascoltava in silenzio ogni cosa gli proponessero, faceva una smorfia e vomitava qualche parola carica di veleno.
Greg gli aveva spiegato che era una specie di consulente, o una roba del genere. Tu gli esponevi un caso e lui lo risolveva, spesso senza neanche alzare gli occhi verso di te. Inquietante.
A quanto sembrava Sherlock Holmes, in quel momento - sempre secondo dicerie - si trovava solo in una fase della sua personalità. Ed era quella tranquilla.
A una settimana dall’inizio della scuola, il caldo resisteva e John continuava a zoppicare. Pioveva, per la prima volta da quando era arrivato a Londra, e la città sembrava diventare, man mano che il tempo scorreva, una grande piscina ricolma di fango.
Perché il giorno che ti svegli col sole e lasci l’ombrello a casa è logico che piova. Classico.
E benché dovesse percorrere la salita al contrario, la caviglia gli causava troppe rogne per dargli l’illusione di poter tornare a casa sui propri passi, soprattutto con quel temporale.
Avrebbe aspettato un passaggio dalla sorella, se mai si fosse degnata di rispondere ai messaggi e se si fosse ricordata di avere un fratello minore.
Insomma, il solito schifo. Borbottò tra sé e sé. La classe era già vuota da almeno un ora, il cielo era ancora più cupo dei giorni precedenti e John iniziava a trovare irritanti i personaggi del romanzo che stava leggendo. Cominciava a sospettare di essere meteopatico e di aver bisogno di un’analista.
Fu allora che Sherlock Holmes fece irruzione nell’aula, girando attorno a se stesso. Il paragone con un flipper impazzito sarebbe stato di una precisione lampante. Corse verso il suo banco, pronunciando parole che John era sicuro di non conoscere (o conoscere solo in parte) troppo velocemente, e estrasse dalla borsa e annotò qualcosa. Disse un «Sì» e un «Ho trovato!» e poi si girò verso di lui, nel viso un sorriso troppo grande e con gli occhi carichi di gioia. Il ritratto di un bambino. John si accigliò, leggermente perplesso. Il ragazzo batté le mani e disse «Ho appena trovato un nuovo reagente per l’emoglobina».
John si accigliò ancora di più. Aprì la bocca e la richiuse.
Cosa?
Sherlock Holmes parlava con gli occhi carichi di luce. Appuntò qualcos’altro e John, totalmente stranito da quell’esuberanza, annuì con vigore, trascinato dall’entusiasmo.
«Beh, i miei più vivi complimenti» si scoprì sorpreso del proprio tono di voce, genuinamente esultante.
Fu allora che Sherlock Holmes lo guardò. Lo guardò davvero, come se fosse fisicamente presente nella stanza; perché John ebbe la sensazione, e poi la certezza, che forse il ragazzo non stesse realmente parlando con lui, ma con il niente, con se stesso. Che non si fosse reso conto di non essere da solo.
Lo guardò dall’alto in basso - perché Sherlock Holmes era terribilmente alto, ma a John sembrò che lo guardasse dalla cima di una montagna.
Poi parlò. John era sicuro che non avrebbe mai dimenticato quelle parole.
«India. Sembra un posto pessimo. Credo che lo sia. Anche se vi hai vissuto solo sei mesi, al massimo sette»
John aprì di nuovo la bocca, questa volta senza richiuderla. Cercò nella propria mente un accenno o una sola parola che avesse detto - in classe, durante l’intervallo, ai professori - riguardo alla sua permanenza all’estero. Non ne trovò neanche uno.
«È uno strano posto per un’adolescente. Due adolescenti. Hai una sorella, ma non ci vai molto d’accorto»
John si stufò di tenere la bocca aperta. «Come hai fatto?».
Sherlock alzò le spalle, voltandosi. Prese a armeggiare con la borsa «Ho osservato».
«Non è possibile» mormorò, scuotendo la testa e chiudendo il libro. Ora le sue attenzioni erano altrove. Era una specie di trucco, John ne era quasi sicuro.
«Invece sì. Basta guardarti per capirlo» dichiarò semplicemente, rispondendo a quella domanda con una pomposità che provocò in John un leggero fastidio. «Ad esempio, posso vedere che tua sorella ti ha regalato la borsa e l’ha firmata col pennarello, dietro, vicino alle spalline. Crede che sia divertente, tu lo trovi stupido. Sorella, deve essere tua sorella. Harriet, con un cuoricino e tre x. Generalmente non fa così, però, non mette cuoricini. L’ha fatto per prenderti in giro. Tuo padre ti obbliga a usare quella borsa, mentre tua madre non dice niente al riguardo, forse perché, semplicemente, non le importa o non lo ritiene importante. Soffri di zoppia. Sei caduto giorni fa e ti ostini a non voler usare le stampelle. Forse è una lussatura, ma non hai detto niente ai tuoi. Odi fare la salita -tutti la odiano, ma la vedi come una sfida personale. Stamattina hai dimenticato le chiavi a casa, e con esse l’ombrello. Aspetti un passaggio da qualcuno. Forse tua sorella, ma sai che ti ignorerà nell’ottanta per cento dei casi. Stai valutando se chiamare tua madre. Ma, ovviamente, non chiederesti aiuto se non fosse totalmente necessario, quindi il dolore è peggiorato» snocciolò, sempre dandogli le spalle. Non c’era più speranza per la povera mascella di John, che sembrava destinata a mantenersi spalancata e incredula. Era il discorso più lungo che gli avesse mai sentito pronunciare, con quella voce troppo cupa per appartenere a un adolescente.
«Tuo padre è un militare. Avete girato un po’ per la gran Bretagna, finché non l’hanno trasferito in oriente. Siete stati lì per poco e nessuno si trovava troppo bene. Siete tornati dopo poco. Qualcuno ti ha rovesciato addosso del budino in mensa, hai cercato di toglierlo ma ne è rimasta una piccola traccia vicino al colletto della maglietta. E leggi Goethe»
«Tutto questo è» John deglutì, abbassando lo sguardo e poi rialzandolo. Sherlock Holmes gli dava ancora le spalle «Non so come tu abbia fatto, ma è semplicemente… fantastico»
Quello fu il primo e l’unico dialogo che ebbero per un lasso di tempo considerevole.
Nonostante questo diventarono, in una qualche strana maniera, quasi amici.
«Lui è sempre stato così» disse il giorno dopo Lestrade, indicando alla signora della mensa la pasta; o quel che somigliava a una pasta, ma John non ne era troppo certo «Fin dalle medie. Sai che quest’istituto ha le medie annesse, no? In ogni caso, eravamo in classe assieme anche lì. Era pessimo. Forse si è calmato col tempo. Nonostante questo, non si riesce neanche a scambiarci due parole. Ti attacca, o qualcosa del genere. Ti dice che sei noioso e poi accenna qualcosa sulla tua stupidità. Tutta la scuola lo conosce. Non ci perderei il mio tempo, amico» continuò «L’anno scorso, per esempio, ha fatto saltare il bagno perché voleva sperimentare dio sa solo cosa. Diceva che era divertente. Per non parlare della volta che trovammo dita umane in classe e cuori di rana sui banchi. Non fu molto piacevole e finì anche alla televisione. Venne fuori che aveva rubato le dita da un obitorio, o una cosa del genere. Per un po’ lo credettero un serial killer. Anzi, Sally crede ancora che lo sia, che commetta omicidi in segreto. Un’altra volta, chiese al professore di illuminarci sul suo quoziente intellettivo, perché l’aveva o e era quasi sicuro ruotasse intorno a una cifra compresa nei numeri immaginari» il ragazzo alzò le spalle, e John lo seguì dopo essersi fatto versare una strana poltiglia nel piatto e aver sorriso gentilmente alla signora della mensa. «Alcune voci dicono che avesse una relazione con la professoressa di biologia» continuò, sedendosi allo stesso tavolo di Molly.
A quanto sembrava, la scuola abbondava di informazioni di Sherlock Holmes.
«Era solo una voce» rispose Molly «E su di lui ce ne sono veramente tante» convenne, posando il mento sul tavolo «Ricordi la lezione di francese, due anni fa? Ammettilo, fu divertente vedere il professore balbettare di fronte a uno studente. Credo che non capisse molto di quello che stesse dicendo - parlava così veloce che neanche un francese avrebbe colto bene le parole»
Greg ridacchiò «Non dico che non sia divertente» disse «E per quanto mi riguarda, è anche un tipo intelligente. Di quelli che dovrebbero stare rinchiusi in una scuola speciale o roba così»
John si accorse solo la settimana successiva di aver instaurato una specie di legame con Sherlock Holmes. Non si trattava di amicizia, però. Era strano. Si trattava di una specie di comunicazione indiretta.
Era iniziata poco dopo la loro conversazione.
Un martedì, quando il professore di fisica stava rimproverando Sherlock per averlo corretto, o una cosa simile. John aveva semplicemente aperto la bocca per fare una battuta a voce volutamente alta, zittendo il docente. Succedeva ogni volta che la lezione prendeva quella piega: Sherlock diceva qualcosa di inopportuno, suscitava le ire di qualcuno e John lo difendeva (in realtà, faceva solo in modo che il professore non lo ammonisse e/o picchiasse, e ci riusciva discretamente).
Viceversa, Sherlock aveva preso l’abitudine di distrarre i professori quando John non sapeva rispondere. Sfioravano l’uno i discorsi dell’altro, ma non si rivolgevano la parola.
Di tanto in tanto, si lanciavano qualche sguardo, quando veniva detto qualcosa di stupido o divertente. Qualche volta, John aveva come l’impressione che cogliessero gli stessi noccioli di alcuni discorsi, misurandoli in maniera diametralmente opposta.
Ma si trattava pur sempre di un’intesa, ecco. John la chiamava così: intesa con uno che faceva deduzioni sulla sua vita in una classe vuota e a cui veniva dato dello strambo. Roba del genere. Se l’avesse detto a sua sorella avrebbe riso come una pazza.
La conferma che quell’intesa - o come diamine la si volesse chiamare - fosse reale, arrivò solo più tardi. Si avviavano alla metà di Novembre, aveva preso a fare un po’ troppo freddo e dimenticare l’ombrello sarebbe stato un passo letale.
Fu per colpa di Sarah, la capoclasse, quella bella e tremendamente adorabile su cui John aveva messo gli occhi da un po’, ma a cui non aveva neanche rivolto la parola perché, per intenderci, probabilmente lei non sapeva neanche che lui esistesse. E John era un tipo troppo pratico per credere il contrario. Sembrava anche simpatica. Doveva esserlo, per forza.
Si rivolse a lui alla prima ora. Teneva le mani sul lembo del banco, come sostegno, ed era leggermente rivolta in avanti; come se si dovesse rivolgere a lui in tono confidenziale, ma non sapesse esattamente come fare. John ne osservò il profilo con stupore, e vide le sue dita tamburellare sul legno. «Ciao John» esordì con quello, un saluto. John si stampò in faccia un sorriso esageratamente felice e si maledì per questo. «Ciao» rispose. A quel punto, doveva necessariamente dire qualcosa, che non fosse magari atrocemente stupido o goffo o dio solo sapeva cosa.
Lei sorrise, portandosi una ciocca di capelli dietro le orecchie. «Vorrei parlarti» disse e John pensò sì, evvai, urrà. Forse è consapevole della mia esistenza «Di Sherlock Holmes» e invece no.
«Perché sai, lui è sempre stato così, un po’ strano, però non credo che sia una cattiva persona».
John annuì, attento.
«Solo che si rifiuta di parlare con tutti e si comporta in modo così antipatico e… credo, sì, insomma, che in realtà sia solo impaurito dal mondo capisci?»
John alzò gli occhi e gli abbassò.
Capoclasse. Amabile. Fintamente preoccupata per quello emarginato.
A John iniziava ad apparire un po’ meno perfetta.
«Però sembra che… cioè, sì, insomma» si fermò un attimo. Sarah stava cercando le parole giuste da usare «Sembra che voi abbiate instaurato una specie di amicizia e ce ne siamo accorti un po’ tutti. Quindi mi chiedevo se potessi parlarci, qualche volta. Magari aprendosi con te si aprirà con il resto della classe»
John Watson desiderò potersi sotterrare. E anche se non lo poteva vedere, sapeva che Sherlock Holmes, rivolto verso la finestra, stava trattenendo un sorriso fin troppo divertito.
In realtà, al contrario di quanto tutti credano, non fu John Watson a rivolgere - di nuovo, ma un po’ per la prima volta - la parola a Sherlock Holmes, ma il contrario. John ci teneva a precisarlo, ecco tutto.
Fu quando John cercò di consegnare l'iscrizione per le attività extracurriculari, e Sherlock lo rapì dalla segreteria trascinandolo per un braccio. Perché sì, sapeva di essere troppo basso per poter veramente praticare il Basket, ma non credeva che qualcuno potesse prenderla così a cuore dal portalo via prima che potesse consegnare la modulistica necessaria per iniziare l'allenamento.
Sherlock Holmes lo portò su e già per le rampe di scale, deciso. Aveva di nuovo quello sguardo, quello illuminato e leggermente febbrile che gli aveva visto quella prima volta che si erano parlati. E John, nel pieno delle sue facoltà mentali, lo stava semplicemente seguendo, trascinato a forza e sballottato come un sacco di patate, senza fare domande. In qualche modo, sentiva che comunque non gli avrebbe risposto.
Si fermò tra la terza e la quarta rampa, in mezzo al niente, in un punto vuoto e poco chiassoso.
Tutto quello assomigliava in modo agghiacciante a un sequestro di persona.
«Ho deciso di far richiesta per l’apertura di una nuova attività»
Cosa?
«E non fare quella faccia. Attività pomeridiane. Extrascolastiche. Quelle che ci sono rasentano il suicidio celebrale»
Eh?
«Ovviamente non posso pretendere che accolgano la mia richiesta senza avere altri membri. Quindi considerati parte del progetto»
Come?
«Consulenze investigative. Sarà divertente»
Quella volta, John Watson credette che Sherlock Holmes stesse scherzando. Che fosse un buffo modo per parlargli, magari; che forse Sarah avesse ragione in merito alle cazzate sulla socializzazione e che questo fosse solo un modo per aprirsi. Si sbagliava.
Sherlock Holmes era sempre serio, qualsiasi cosa facesse.
«Perché non provi con la pesca?» propose il giorno dopo Sally. La voce che lui stesse combinando qualcosa con Sherlock Holmes si era diffusa con una velocità sorprendente, e se prima lo fissavano perché era quello nuovo, ora lo facevano perché lui - sì, lui, John Watson, quello della terza D - riusciva a parlare con Sherlock Holmes senza venire quasi costantemente insultato. Un miracolo. «Sembra divertente e più costruttiva che perdere il tuo tempo con quello strano».
Anderson, al suo fianco, lo fissava con eloquenza. “Ha ragione lei” sembrava dire, e c’era anche un lieve accenno di pietà nel suo sguardo.
L’unico a trovare la cosa quantomeno divertente era Lestrade, che aveva prima strappato il suo modulo per il Basket e poi costretto a iscriversi nella squadra di calcio.
John non trovava la cosa divertente, per niente; e neanche pietosa. Solo patetica.
Non riusciva ad opporsi a una sola parola di quel ragazzo, ecco la verità; e sapeva di ingaggiare una battaglia persa anche solo pensando di rifiutare o ignorare le ragioni e le azioni di Sherlock. Contro di lui era impotente, e questo rappresentava una certezza.
Sherlock Holmes, d’altro canto, non si metteva nessun problema a irrompere ovunque e in qualsiasi momento per trascinarlo in ogni parte della scuola a fare dio solo sapeva cosa. Lui lo seguiva e basta, era questo il punto. Comunicarlo al resto del mondo, però, sembrava straordinariamente difficile. Volevano ascoltare solo quello che preferivano, selezionando le informazioni in base alla grandezza e non alla verità. Tipico anche quello.
«Perché dovrei provare con la pesca?» ribatté John «Non è che non abbia hobby o cose del genere, solo che lui arriva e---» gli sguardi che gli rivolsero convinsero John a interrompere la frase a metà.
Prima ancora che potesse girarsi per capire che diamine stessero guardando, Sherlock Holmes lo stava già portando da qualche altra parte.
Sul tetto. Questa volta si trattava del tetto.
«Spiegami di nuovo cosa ci facciamo qui» John alzò un sopracciglio. Il vento gli spazzolava i capelli in modo scomposto e seguiva Sherlock con lo sguardo, saettando da un metro all’altro del cortile. Si comportava come una specie di segugio da caccia, straniandosi per terra, odorando e utilizzando una piccola lente d’ingrandimento per trovare… qualunque cosa stesse cercando.
«Indizi»
John annuì, molto lentamente.
«Di cosa, esattamente?»
«Omicidio»
John annuì, di nuovo, ancora più lentamente. Fece violenza su se stesso per non indietreggiare.
«Non un vero omicidio» rispose John, ridacchiando. E aggiunse, interrompendo quella specie di sogghigno disperato «... giusto?»
Sherlock alzò la testa, fulminandolo con lo sguardo e rivolgendogli un’espressione lievemente confusa «È ovvio che non si tratta di un vero omicidio».
Ci fu un momento di silenzio. John iniziò a fare avanti e indietro sul posto, sfregandosi le mani sulle braccia cercando di produrre calore.
«Quella volta…» iniziò John «In classe. Quando hai dedotto la mia vita. Seriamente. Come hai fatto?»
«Ho osservato» spiegò, come se fosse la cosa più ovvia; come se equivalesse al fatto che il cielo fosse blu «Sono riuscito a azzeccare tutto? Davvero?»
«Sì» borbottò John.
Sherlock non parlò più, e neanche John.
Il giorno dopo, comunicarono a John Watson che, ormai, si aprivano scommesse sulla natura della loro relazione.
Accadde un paio di mesi dopo, quando Sherlock aveva ormai smesso di cercarlo per tutta la scuola. John si era semplicemente rassegnato al fatto che non potesse sfuggire a… quell’intesa, si, giusto. Quella cosa strana e morbosa che Sherlock Holmes sembrava aver sviluppato per lui, e a cui, a sua volta, non sapeva sinceramente rifiutare.
Fu sulla bacheca. Quella principale. Con il suo nome. Cioè, non il suo. Non direttamente il suo. Il nome era quello di Sherlock Holmes, era il numero di cellulare a essere totalmente sbagliato. E lo capì solo quando sentì le chiacchiere e i bisbigli dietro di lui. In quel dannato foglio c’era il numero di telefono di John, e l’annuncio diceva a chiare lettere qualcosa come “Consulenze investigative - esponici il tuo problema e non essere noioso”. Qualcosa del genere. A posteriori, John si ricorderà solo di aver strappato il foglio ed essere corso su per le scale, fino al laboratorio in disuso abitato da Sherlock.
«Che diamine è questa roba?!» sbraitò, indicando il foglio e sbattendolo sul tavolo da laboratorio. Sherlock non alzò gli occhi dal microscopio su cui era chino, ma in compenso rispose con un ovvio «Un volantino, John».
John Watson boccheggiò, fermandosi. Guardò il compagno con una crescente voglia di sbatterlo sul pavimento e prenderlo a pugni «Questo… Sherlock, per dio! Che diamine! C’è il mio nome, qua sopra, e il mio numero e dice qualcosa- John provò a leggerlo, ma la sola idea gli provocava spiacevoli fitte di dolore alla testa - riguardo a crimini e smarrimenti e… noi ce ne dovremmo occupare? Tu e io? Era questa l’idea di “attività extrascolastica”?»
«Esatto»
John lo fissò nello steso modo in cui si fissava il vuoto.
«John» disse, alzando lo sguardo. Sorrise. E John non aveva mai, mai visto Sherlock Holmes sorridere.
«Uhm?» Rispose, borbottando
«Passami il cellulare»
Sarebbero stati tempi lunghi, per il povero John Watson.