Chi: Claude, Mohinder, Nathan, Peter
Dove: Boston, Centro di ricerche
Cosa: Nathan e Claude arrivano al Centro pochi minuti prima di Peter. Mohinder è preso nel fuoco incrociato.
Quando: Venerdì 23 Settembre 2007. Tarda mattinata.
(
Una delle poche cose di cui Nathan era certo al momento era che odiava quel tizio. )
Era iniziata in modo strano, ad un certo punto stava per prendere una brutta piega -e sì, l'uccisione per strangolamento di qualcuno, incredibile, era la sua idea di brutta piega- ma poi era decisamente migliorata.
Aveva passato la maggior parte del volo, da New York a Boston, ad infastidire Nathan Petrelli. Cosa che ormai sembrava essere il suo passatempo preferito.
Aveva anche fatto impazzire i metal detector dell'aeroporto infilando velocemente una mano con un bracciale d'argento ogni volta che passava Nathan.
Così al posto che dieci minuti ci avevano messo un'ora per il check-in.
Alla fine si era deciso a smetterla, perché dopo un po' smette di essere tanto divertente di per sé e diventa solo divertente vedere le reazioni del presidente del mondo.
Probabilmente il tassista che li aveva accompagnati dall'aeroporto fino ad una delle vie poco affollate di Boston aveva storto il naso per tutto il tempo, considerando la poca igiene personale del divo politico con la mascella più potente di tutti i tempi.
Claude sorrise pensandoci su e continuò a seguire Nathan, stando qualche passo dietro di lui, calciando nella sua direzione tutti i sassolini che riusciva a trovare sul marciapiede.
Si bloccò per un attimo alla vista dell'edificio bianco, poi seguì Nathan attraverso la porta a vetri e storse il naso.
Era tutto bianco in quel fottuto posto.
Quasi ebbe l'istinto di prendere un pennarello e iniziare a scrivere sui muri.
Passato l'usciere sbuffò e si affiancò all'uomo in completo d'Armani.
«Hey, ce l'hai un pennarello?» gli chiese senza preoccuparsi di abbassare minimamente la voce, che riecheggiò per un attimo, roca e dall'accento schifosamente inglese, per tutto l'androne. Probabilmente salì anche qualche gradino delle scale.
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Ma la sua Signora Ragione lo teneva con i piedi incollati nelle Cucine, nominate temporaneamente Ufficio del Direttore Generale, ad assorbire la frustrazione e la paura e l'ira dei suoi colleghi - non li aveva mai considerati come degli impiegati - come una spugna.
Nonostante tutto.
Perchè non era bastato che, quella mattina, Molly gli avesse chiesto di Matt dopo cinque anni di silenzio. Non era bastato che lui fosse rimasto a guardarla ad occhi spalancati, senza una risposta che suonasse coerente, mentre la bambina aveva fatto spallucce promettendogli di rimandare l'argomento a più tardi, forse l'eventualità peggiore che potesse figurarsi. Non era bastato, no, che un ritardo inatteso della metropolitana - aveva rifiutato di girare con la scorta anni addietro - gli avesse fatto mancare l'appuntamento con un ragazzino di nove anni che giurava - "Nessuno mi crede!", aveva pianto al telefono un paio di notti prima - di poter uccidere una persona con il pensiero.
Aveva davvero bisogno che il signor Michael Kring si mettesse a condensare fotoni nella sua stanza e li coagulasse in un raggio laser, come sapeva fare lui, e lo dirigesse poi verso il generatore di elettricità del laboratorio facendo saltare in aria le camere di due pazienti, ora ricoverati per ustioni sul 70% del loro corpo, e il suo ufficio, per poi sparire dalla circolazione quasi sapesse volare.
Se possibile, c'era anche di peggio: Nathan Petrell sarebbe arrivato a breve, e avrebbe di certo ricondotto la causa dell'accaduto al suo infantile permissivismo, dottor Suresh, immagino che lei non comprenderà mai la serietà del suo compito.
Detestava venir redarguito a quel modo. Perchè sapeva benissimo, il dottor Suresh, che non sarebbe mai stato all'altezza di suo padre Chandra e delle sue ricerche e delle verità sconcertanti che aveva svelato a costo della sua vita. E, suo malgrado, a volte fronteggiare la verità sapeva rivelarsi piuttosto spiacevole.
"Non mi muoverò di qui finchè non avrò notizie di Arianna e Dominic!", sentenziò sibillino verso un paio di uomini in camice bianco, prima di notare un uomo in giacca e cravatta che lo attendeva all'ingresso delle cucine con le braccia ingombre di fogli bianchi.
"Abbiamo rintracciato Michael, signore", vociò il cinquantenne basso e grasso che fronteggiava l'indiano, tentando di non perdere neanche uno dei documenti che reggeva tra le mani.
"Bene! Dove si trova adesso?"
"...lo abbiamo avvistato qualche minuto fa nei pressi del Mystic River, signore!", blaterò l'omino entusiasta. "Ma ora lo abbiamo perso... signore", e cambiò repentinamente espressione.
"Non importa. Rintracciatelo di nuovo, scoprite dov'è diretto, e cercate di riportarlo qui prima che raggiunga la sua destinazione, qualunque sia. Vivo. Senza un graffio", precisò in conclusione, categorico, senza scoraggiarsi. Non credeva di averne tempo.
Mohinder sospirò. A quel punto, poteva solo sperare che la situazione non peggiorasse più di così.
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"Ah... no, ho solo una penna, dottore" disse l'usciere, perplesso, ma non così tanto come Nathan avrebbe pensato. Bei tempi quelli in cui era ancora possibile costruirsi una confortevole spiegazione razionale per tutto quello che accadeva intorno. O forse erano abituati alle stranezze, da quelle parti.
Nathan alzò una mano e scosse la testa. "Lasci stare. Era... lasci stare." E rinunciando all'ultima fetta di mondo razionale che gli toccava per la giornata, strinse i denti e si infilò nell'abitacolo dell'ascensore. Aspettò lo spostamento d'aria, poi trasse fuori dalla tasca una chiavetta assicurata alla fodera interna con una sottila catena metallica e la inserì nella serratura accanto alla pulsantiera dell'ascensore. I tasti si accesero debolmente. Nathan schiacciò -1 e prese l'ultima boccata d'aria pulita della giornata prima che le porte si richiudessero.
Dieci secondi al piano.
"Fallo un'altra volta e il pennarello te lo ficco su per il culo."
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Lo seguì all'interno dell'ascensore e, appena le porte si chiusero, ridacchiò soddisfatto.
«Fallo un'altra volta e il pennarello te lo ficco su per il culo.»
«Prima devi trovarne uno.» Rispose a Nathan senza scomporsi troppo.
Strano come in quei Centri gli uffici fossero sempre ai piani inferiori e non a quelli superiori.
Era sempre stato così. Lavoro con le luci artificiali, niente aria pulita e tutto bianco. C'era già abbastanza sporco da altre parti, in quei posti.
Per un attimo si sentì come in uno dei pochi film che era andato a vedere al cinema di nascosto -non che non ne avesse avuto l'occasione, ma c'era sempre troppa gente intorno. Preferiva i tetti e i piccioni.- e c'era questa azienda segreta che lavorava in un centro sotto la città e tutti quelli che ci lavoravano alla fine morivano.
Sogghignò e annuì, poco prima che le porte dell'ascensore si aprissero.
Lasciò uscire Nathan per primo, addocchiando il lungo corridoio bianco troppo simile a quelli del passato perché Claude non iniziasse ad avere uno strano ed incontrollabile prurito alle mani.
«Bene! Casa dolce casa.» Mormorò ironico, facendo il primo passo fuori dall'ascensore.
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Innanzitutto era stato Charlie - controllo sugli agenti atmosferici, estroverso e disponibile - ad avvertirlo del puzzo di bruciato, non Susan, l'addetta alla sicurezza - che pare stesse seguendo l'ultimo episodio di General Hospital su una tv portatile -.
Non gli aveva comunque dato modo di scoprire che Michael aveva neutralizzato un paio di cavi, e non la centralina principale - se lo immaginò sghignazzare, intento ad osservare le scintille raggiungere il corpo centrale del generatore come in un cartone animato -, in tempo per evitare la catastrofe, ma certo era stato d'aiuto.
Poi Lisa - potere della telecinesi, notoriamente timida e tendente all'isolamento - gli aveva fatto arrivare un frappuccino Starbucks tenendolo sollevato in aria finchè non era approdato tra le dita scure del genetista, e quello era stato il primo momento luminoso dal buio risveglio che lo aveva introdotto in una delle sue giornate peggiori - nonostante Mohinder detestasse il frappuccino.
Infine Elijah - leggermente egocentrico, poteva far esplodere un tostapane con uno schiocco di dita - gli aveva assestato una pacca consolatoria su una spalla, osservando disarmato lo spettacolo di confusione e macerie che gli si era profilato alla vista scuotendo il capo insieme a lui.
Il tutto mentre i suoi collaboratori correvano qua e là come folli, chiedendogli cosa dovessero fare e come avrebbero risolto la situazione.
L'indiano cominciò a credere di ravvisare uno spiraglio di luce, da qualche parte, e una rinnovata buona volontà tornò ad affacciarsi dentro di lui, affiancandosi alla speranza.
"Dottor Suresh... sta arrivando il signor Petrelli".
Le ultime parole famose.
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Più avanti il fumo era più corposo, l'odore di bruciato più penetrante. Nathan si chiese quanto tempo ci avrebbero messo a smaltirlo, con le ventole principali fuori uso. Sperò che non saltasse anche il sistema d'emergenza, perché sennò sarebbero morti tutti soffocati.
Sotterranei. Di chi era stata l'idea, comunque?
Ricordava che l'ufficio di Suresh fosse in fondo al corridoio, ma uno dei ricercatori lo fermò a metà strada e gli disse che il Direttore si era spostato nel corridoio 3B, quinta porta sulla destra, signore, e faccia attenzione al vomito, signore. Vomito? Sì, sul pavimento.
A quanto pareva qualcuno aveva vomitato. Il fumo e tutto il resto. O forse lì servivano una pessima colazione. Cose che capitano.
Evitò il vomito e bussò alla quinta porta a destra. Lì il fumo era decisamente più rado, l'aria respirabile anche senza coprirsi la bocca. Nathan bussò e poi abbassò la maniglia.
"Suresh."
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Claude, guardandosi intorno, iniziò per un momento a pensare di avere il potere di fare avverare i propri desideri, oltre che quello di rendersi invisibile.
Fai calare i pantaloni a Mr "mi-faccio-la-barba-ogni-mattina-solo -per-mostrare-la-mascella-perfetta". Fallo!
Ma non successe nulla, così seguì Nathan lungo il corridoio, contrariato e deluso.
Guardò la bambina ed il ricercatore che si rivolsero all'uomo davanti a lui, poi evitò accuratamente le varie pozze di vomito, acqua e -era sangue quello sul pavimento?- liquidi che non voleva nemmeno lontanamente saper riconoscere, fino ad arrivare ad una porta.
Vide Nathan bussare e poi abbassare la maniglia senza attendere.
«Suresh.» Gli sentì dire.
Aggrottò la fronte.
«Cous-Cous.» Rispose, senza curarsi di abbassare la voce.
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Si sollevò sul naso il paio di occhiali dalla montatura squadrata che fino allora aveva tenuto abbandonati a ridosso dello sterno, legati al collo da un sottile filo rosso scuro, e afferrò una cartellina contenente una serie di fogli riempiti con una calligrafia stretta e ordinata - la sua - appena prima che l'uscio della stanza rivelasse la figura di Nathan Petrelli.
Ogni volta che lo rivedeva non sembrava diverso dalla volta precedente: dai tempi dell'esplosione, e dopo i cinque anni che tutti si erano lasciati alle spalle, quell'uomo non sembrava risentire di una sola delle tensioni e delle pressioni e degli oneri che le sue spalle larghe di certo sopportavano. Ogni volta sperava che fosse diverso, che quell'espressione decisa avesse lasciato spazio ad almeno un briciolo dell'umanità che il politico non aveva mai dimostrato agli occhi dello scienziato, che qualche ruga accennata fosse comparsa a ricordare che sì, anche lui era un essere umano.
Neanche a dirlo, fino allora non era mai accaduto.
Avvicinandoglisi sentì una voce roca arrivare dalle spalle dell'uomo, ma scorto il vuoto che si stagliava dietro di lui - improvvisamente tutti i suoi collaboratori sembravano essersi decisi ad occuparsi dei loro rispettivi compiti - non vi badò oltre, decidendo che doveva essersi sbagliato, fuorviato dalla confusione che regnava tra quelle quattro mura fin dalla mattina.
"Signor Petrelli", lo apostrofò Mohinder, avvicinandoglisi con passi fermi ed il mento sollevato. Sembrava l'unico nel raggio di dieci metri a non stringersi nelle spalle e chinare lo sguardo di riflesso alla presenza del politico.
Quando l'indiano porse all'uomo la cartellina che reggeva nella mano destra, la stanza alle sue spalle era ormai completamente vuota - era l'effetto Petrelli. Sul foglio erano riportati l'ammontare dei danni riportati dal laboratorio, e in pedice una postilla scritta con la stessa calligrafia ordinata ne discuteva la gravità.
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In origine doveva essere una cucina. Suresh aveva ammonticchiato i fascicoli più importanti sui tavoli e sui ripiani vicini ai lavandini, e chiusa la porta e liberate le narici dalla puzza di fumo, si poteva avvertire ancora un vaghissimo sentore di pancetta fritta forse rimasto ad aleggiare nell'aria dalla colazione.
Accettò il fascicolo col rapporto sull'incidente e si prese qualche secondo per studiare Suresh. Aveva l'aria distrutta, due sottilissime venuzze rosse ai bordi di entrambi gli occhi e avrebbe giurato che quelle fossero occhiaie, ma probabilmente non risaltavano mai molto. C'era una nota di esasperazione nella sua voce, ora più che al telefono, e senza ombra di dubbio Nathan sapeva di non essere gradito, lì, in quel momento. Non era un problema. Era una sensazione che si ripresentava spesso.
Oltretutto, Mohinder Suresh era completamente immune a quello che Claire una volta aveva definito il suo fascino elettorale. Forse perché Nathan non aveva mai neppure cercato di esercitarlo su di lui (lo considerava un collaboratore pensante, non un cervello su due gambe con un interruttore Votami-Non votarmi), o forse perché, pur lavorando allo stesso progetto ed entrambi con considerevole impegno, nella maggior parte dei casi Nathan aveva l'impressione che lavorassero per scopi totalmente diversi. E sapeva che Suresh era consapevole anche di questo.
"Hai già avuto il tempo di fare un rapporto?" commentò, infilandoci una nota di approvazione tutto sommato sincera. Non doveva essere facile scrivere in burocratese con la gente che vomitava nei corridoi. Aprì alla prima pagina. Impianto elettrico bla bla scarica di fotoni bla bla laser. Rilesse la parte sui fotoni un paio di volte, velocemente.
"Credo che non sia il caso di enfatizzare troppo la causa del guasto. Mi riferisco alla questione del raggio fotonico."
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Passò poco dopo Nathan e poco prima del suo tentativo di rompergli il naso.
Probabilmente perdevi il senso dell'umorismo indossando completi di Armani tutti i giorni. Una cosa da non mettere nelle pubblicità.
Si guardò intorno e posò lo sguardo sopra all'uomo di colore dall'altra parte della stanza.
Oh, probabilmente Nathan non stava cercando di fare una gara a chi conosce più nomi di cibi stranieri, prima. Suresh doveva essere il nome del... Cos'era, indiano? Arabo?
Si mise le mani in tasca e si avvicinò a quello che, dal camice, doveva essere un dottore -o un tecnico di laboratorio. O forse uno che aveva ritardato i festeggiamenti di Halloween- e lo osservò da vicino.
Era serio, teso, lo sguardo deciso ma dolce.
Claude rimase in silenzio fino a quando non sentì Nathan parlare di raggi fotonici.
A quel punto non riuscì più a trattenersi e, sghignazzando, iniziò a canticchiare il motivetto di Star Wars.
A pochi passi dal dottorino arabo.
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Mentre quello scorreva rapidamente i fogli davanti a sè, l'indiano si perse ad osservarne, pensieroso, i lineamenti: non scorse nessuna delle rughe che, aveva sperato, dimostrassero che anche lui era un essere umano.
Un volto, poi, gli ricomparve indistinto nella mente, come un flash, e nonostante i contorni poco nitidi a causa del tempo trascorso, il genetista si ritrovò a ricondurre quegli zigomi scolpiti e quelle guance infossate a quelli dell'uomo che aveva davanti.
Peter Petrelli. Era decisamente diverso da suo fratello. E non solo fisicamente. L'ultima cosa che ricordava di lui era un sorriso - non perchè fosse la più recente, solo, l'attimo che lo aveva colpito di più tra quelli trascorsi in sua 'compagnia' -. L'ultima cosa che avrebbe ricordato di Nathan era, probabilmente, la sua fronte corrugata mentre tentava di convincerlo ad insabbiare, per l'ennesima volta, qualcosa di troppo scomodo per vedere la luce.
"Tuttavia, io--", fece per esordire l'indiano.
Quando una terza voce - roca, baritonale - lo bloccò con il dito indice sospeso a mezz'aria e le labbra semidischiuse.
Si guardò intorno, volgendo lo sguardo perplesso alle sue spalle, e di nuovo oltre quelle di Nathan: non c'era nessuno. Nessun altro, oltre loro due.
Ora ho anche le allucinazioni. Ho davvero bisogno di dormire, pensò sconcertato, continuando a tacere mentre uno dei pezzi di John Williams meglio riusciti riempiva la stanza con le sue note - alquanto stonate, tuttavia.
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Se fossi un Laboratorio Segreto, dove sarei?
Peter non era empatico abbastanza da identificarsi con un Laboratorio Segreto da lettere maiuscole, evidentemente, perchè una volta attraversato il metallo dell'ascensore (gli metteva i brividi essere incorporeo e invisibile allo stesso tempo. Era come sparire.) aveva pensato di andare prima al piano di sopra, e lì non c'era niente. Non avendo ottenuto risultati - il laboratorio c'era, ma era vuoto e sembrava inutilizzato - pensò che l'unica altra soluzione era il basso.
Si sarebbe lasciato cadere giù per il canale dell'ascensore, ma poi pensò che Mohinder non avrebbe apprezzato le macchie di sangue sul suo cappotto grigio, e si ricordò che la forza di gravità non era esattamente un problema.
Planato giù e passata qualche altra parete, si ritrovò in un corridoio praticamente distrutto, e Peter si guardò intorno perplesso. Era il Laboratorio Segreto giusto, vero? Insomma, era a Boston solo da qualche giorno, magari c'erano Laboratori Segreti di altre organizzazioni - ma non vedeva alieni in giro, quindi non era della CIA.
Andò avanti, corrugando la fronte e guardandosi intorno - nonostante il caos, non sembrava un brutto posto, e non c'erano urla di gente torturata, quindi immaginava che la realtà non corrispondesse alla peggiore delle ipotesi immaginate. Ed era immenso. Come cazzo lo trovava, Mohinder? Cominciava a spazientirsi.
Vagò per i vari corridoi senza meta, cercando di sentire pensieri dietro le porte chiuse, ma quel posto era pieno di gente ed era troppo difficile. Cominciò ad aprirle a caso in preda alla frustrazione, e aveva lasciato perdere anche l'invisibilità - non c'era più sicurezza, era tutta concentrata nella zona più danneggiata della struttura. Qui era tutto bianco, un po' meno fumoso, le porte tutte uguali (anche se alcune erano sfondate o annerite) e il pavimento un percorso a ostacoli - non aveva evitato un paio di pozze di sangue, ma era troppo occupato ad andare avanti per essere disgustato.
Ormai aveva smesso contare le porte, quando aprì quella in cui c'era davvero il dottore così disperatamente ricercato. "Mohinder..!" cominciò illuminandosi.
Poi vide suo fratello. (E Claude?)
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Questo Peter, invece, sembrava proprio quello vero. Aveva l'aria sufficientemente arruffata, l'aspetto di chi si è vestito e pettinato al buio e non si taglia i capelli da cinque mesi, la barba non rasata da giorni. Aveva chiamato Mohinder per nome, come Nathan era sicuro che avesse sempre fatto (chiamarlo "Suresh" era stato uno dei primi errori di Candice), e quel sorriso e il modo in cui gli si era paralizzato sulle labbra - sembrava tutto sincero.
Ma Nathan credeva che potessero esserci altre persone come Candice, o con abilità ancora più potenti, che potessero riprodurre una copia perfetta di Peter in ogni aspetto - o quasi. Forse era solo paranoico, ma aveva visto troppe cose per lasciare scoperto il fianco senza una controprova.
Perciò mantenne un'espressione impassibile, anche se a vederlo aveva minimamente sussultato, e squadrò il nuovo arrivato da capo a piedi. Il cuore gli ricordò che aspettava questo momento da quattro anni raddoppiando la velocità con cui pompava il sangue, ma Nathan lo ignorò.
Parlò con voce calma e neutra.
"Quando è morto nostro padre, sono rimasto con te per tutto il giorno e tutta la notte fino alla mattina del funerale. Dimmi cosa ti ho detto."
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Si portò una mano al volto e, coprendolo sommariamente, iniziò a scuotere la testa.
«Merda...» Sussurrò ancora a poca distanza da Mohinder.
Ascoltò Nathan parlare e, abbassando la mano e ricomponendosi, sogghignò.
«Ora che il vecchio se n'è andato al diavolo il patrimonio è tutto nostro?» Chiese intromettendosi, tornando con lo sguardo su Peter.
Cresciuto. Ecco come l'avrebbe definito. I capelli più lunghi, sempre scompigliato, sempre in disordine, eppure lo sguardo nei suoi occhi diceva che ne aveva viste tante. Forse quelle sbagliate.
Magari era stata solo la solitudine. Magari l'avrebbe salutato, se ne sarebbe andato e di lì a dieci anni l'avrebbe rivisto e l'avrebbe trovato identico a se stesso.
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Come quella in cui si trovava.
E non seppe dire se l'improvvisa apparizione di Peter Petrelli potesse rivelarsi una fortuna o meno.
Lo scienziato si distrasse repentino dal canticchiare sommesso che sentiva provenire da chissà dove - che peraltro si interruppe in quel preciso istante -, per sgranare gli occhi e soffermare lo sguardo fisso sul ragazzo. I capelli spettinati, il taglio particolare delle labbra rossastre, l'aria da eterno pesce fuor d'acqua. Non sembrava per nulla cambiato-- ma non fu solo l'empirismo esasperato del genetista a suggerirgli di guardare oltre, a fargli incontrare gli occhi profondi di Petrelli junior.
"Peter...?", domandò basito, abbassando finalmente il dito sollevato poco prima.
Quindi credette di aver perso del tutto il lume della ragione.
La voce - giurò che fosse la stessa che aveva creduto di sentire quando era arrivato Nathan - tornò a farsi sentire, stavolta enunciando delle frasi complete e sensate.
E Nathan, che, santo cielo, probabilmente si trovava faccia a faccia con il fratello che non vedeva da quattro anni, se ne stava immobile, a guardare il ragazzo con lo sguardo duro e freddo che avrebbe rivolto all'ultimo poveraccio del pianeta - o forse era soltanto la sua faccia.
Era impazzito il mondo, o soltanto lui?
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Erano passati quattro anni, e Peter li vedeva tutti in una volta sulle spalle di Nathan, nei fili grigio scuro tra i capelli e in qualche linea più dura sul viso, ma l'acqua di colonia - la sentiva da lontano, cortesia del misterioso ragazzino australiano - era la stessa che aveva usato tutta la vita. Si sentì quasi restringere sotto lo sguardo severo e la domanda senza contesto, e rispose guardandolo confusamente, e accennando un passo in avanti.
"Niente. Non sei rimasto con me affatto."
Anni prima avrebbe risposto con amarezza, ma era impossibile ricordarsi la tristezza di allora in quel momento. Si era negato di tornare a casa per paura che Nathan lo prendesse e incatenasse da qualche parte piuttosto che lasciargli fare qualcosa per il mondo, e per quello che stava succedendo, per paura di tante altre cose che non era capace di contare e razionalizzare (no, quello non era mai stato il suo forte). Ma se era qui con Mohinder, forse anche lui aveva qualcosa a che fare con questo, e Peter avrebbe chiesto cosa ci faceva qui, per esserne sicuro - se non fosse stato così sorpreso.
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