Chi: Matt, Mohinder
Dove: Boston, Centro Analisi
Cosa: Matt è finalmente pronto a rivedere Molly. Ma Mohinder non ne è così sicuro.
Quando: Giovedì 15 Settembre 2011
Stato:
Finito. (
'Sono Matt Parkman' disse, quasi aspettandosi di essere riconosciuto. )
La situazione era andata degenerando, da quando Janice aveva saputo dei suoi poteri. Avevano entrambi cominciato a porsi mille domande sulla natura del loro rapporto, che forse era stato costruito su basi di menzogne, anche se nessuno dei due, al tempo, ne era stato davvero consapevole. E poi, c'era stato l'aborto.
Dopo l'esplosione, quando tutto sembrava essersi in qualche modo calmato, sua moglie era crollata. E aveva perso il bambino. Intendiamoci, non che per Matt fosse stata poi questa grande tragedia (lui voleva un bambino suo, dopotutto) ma Janice era rimasta sconvolta. Ormai si era abituata all'idea di avere un trottolino per casa, aveva cominciato a comprare vestiti e giocattoli, e l'aveva obbligato a rivestire la stanza degli ospiti con una carta da parati piena di animaletti.
Dopo l'aborto, Matt rientrando la trovava spesso seduta in mezzo alla stanza, con un pelouche stretto tra le mani e lo sguardo perso. Era stato allora che aveva deciso. Loro erano una famiglia che aveva perso il proprio figlio. Molly era una figlia che aveva perso la propria famiglia. Insieme, forse, avrebbero potuto rimettere insieme i cocci delle proprie vite.
E così, una sera, quando era tornato a casa dal lavoro, invece delle buste del take away cinese aveva Molly tra le braccia.
Purtroppo però le cose non andarono affatto come lui si era aspettato.
Janice si chiuse ancora di più in se stessa, respingendo qualsiasi contatto con la bambina, che dal suo punto di vista era un promemoria costante di tutti i suoi fallimenti e dell'anormalità di Matt. Dal canto suo, Molly si attaccò quasi morbosamente a lui, svegliandolo nel bel mezzo della notte perchè aveva avuto un incubo, piangendo per stupidaggini, cercando il suo abbraccio e le sue carezze ben più di frequente di quanto ci si sarebbe aspettato.
E Matt non si lamentò mai, degli scatti di Janice, delle gambette di Molly che si avviticchiavano alle sue, dei silenzi tesi in cui era costretto ad immergersi ogni volta che si riunivano, per cenare o guardare la tv.
Semplicemente cominciò a tornare tardi, a farsi dare turni che nessun altro voleva, e che nessuno pensava sarebbe stato proprio un padre di famiglia a richiedere, ad uscire ogni volta che gli era possibile.
Il rapporto, già fragile, tra lui e sua moglie si incrinava inesorabilmente, e arrivò la sera in cui si polverizzò del tutto, non lasciando altro che macerie impossibili da rimettere insieme.
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Il suo raggio di sole quotidiano aveva reso piacevole anche la lingua biforcuta di Bob e le irritanti frecciatine che sembrava amasse rivolgergli, i silenziosi e bianchi muri dell'edificio in cui trafficavano più segreti che alla Casa Bianca, il tintinnare metallico dei suoi strumenti di ricerca, improvvisamente addolcito da una risata infantile o da un dono a sorpresa - un fiore, un disegno - o, più semplicemente, da quei due occhi scintillanti che illuminavano Mohinder di sorrisi sempre più larghi e felici.
Era forse stato egoista, fin da principio, nella sua decisione di tenerla con sè? Anche se erano stati i piani alti a deciderlo, non lui. Sapeva che l'edificio che ospitava la Compagnia non era il luogo più adatto ai giochi di una bambina di otto anni di ritorno da scuola, che si sarebbe sentita di certo più a suo agio in una ludoteca o nella sua camera della sua casa, circondata dai suoi pelouches e dalle sue bambole. Ma non aveva a chi lasciarla: non conosceva nessuno che potesse prendersi cura di lei con affetto disinteressato, donarle quello che la morte prematura dei suoi genitori non le aveva permesso di ricevere, amore e attenzione e cura e; permettersi una babysitter, poi, era oltre le sue possibilità - e oltre la sua capacità di affidarsi ad una sedicenne troppo impegnata con le sue cotte passeggere per poter provvedere ad una bambina -.
Una bambina come Molly. Che lo scrutava con uno sguardo così maturo da spaventarlo, a volte, insieme a piccole e frequenti domande più grandi di lei - e di lui -.
Credeva che avrebbe sempre avuto quel piccolo pulcino ad avvinghiarsi alle sue gambe mentre lavorava. A chiedergli di ordinare del gelato al bar dietro l'angolo, nonostante far entrare persone esterne alla Compagnia non fosse contemplato dal piano di sicurezza creato da Bob per l'incolumità dell'organizzazione. A riempire i muri asettici del suo laboratorio di disegni colorati che mostravano una bimba rosa e un signore marrone che si tenevano per mano.
Lo credeva davvero.
Ma poi arrivò Matt. Che aveva spesso riempito i pomeriggi di Molly - e suoi - di allegria, ciambelle, e di quella quotidianità che mancava nella vita di tutti e tre, invischiati in quel tipico qualcosa-di-troppo-grande da film di supereroi. Quando aveva avuto del tempo libero li aveva accompagnati in normali passeggiate in centro, normali gite al lago, normali pomeriggi di shopping da ragazzina di otto anni - Barbie, zucchero filato e accessori per capelli -. Quando gli era impossibile, rimaneva sommerso dal lavoro ma impegnato in tutt'altro: chiedersi dove fossero in quel momento Matt e Molly, cosa stessero facendo, se stessero pensando a lui.
Matt era sempre stato importante, per loro. Utile, necessario.
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Però... sapeva che quella era la cosa giusta. Sapeva che avere una madre e un padre - non due padri -, e forse anche un fratellino - la moglie di Matt non era forse incinta? - le avrebbe fatto bene, avrebbe giovato alla sua crescita e avrebbe costituito le fondamenta di un'infanzia stabile che erano necessarie a chiunque. Le stesse fondamenta che lui non aveva avuto, e della cui assenza ancora risentiva.
Seppe, quel giorno in cui abbracciò Molly così forte da farle pigolare "Mohinder, così mi soffochi...!", che il male al cuore che lo trafiggeva in quell'istante era necessario per la sua felicità. Continuò a pensarlo per tutto il tempo in cui, di lei, non ebbe che sporadiche visite e sorrisi virtuali.
Ma smise di farlo la sera in cui ricevette quella telefonata.
" ... Mohinder?"
" ... Molly?"
Silenzio. Singhiozzare sommesso.
"Molly! Sei tu, Molly? Stai bene? E' successo qualcosa?", domandò, a voce alta e agitata.
Riuscì a sentire delle voci di sottofondo. Un tono rabbioso, urla femminili. La voce della bambina gli arrivò soffocata, come se stesse coprendo la cornetta del telefono con una delle sue piccole mani pallide.
"Matt... Mohinder, Matt è strano", pianse, la vocetta incrinata. "E' quasi mezz'ora che litigano, e Matt ... mi fa paura ...", balbettò. "... Mohinder, aiutalo... !"
Non ebbe il tempo di soffermarsi a pensare nè di indossare la giacca, che si trovò già a indicare ad un tassista la meta da raggiungere.
"E faccia in fretta, si sbrighi!"
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Scenari sempre più spaventosi presero a sfilargli davanti agli occhi e, col cuore in gola, Matt spalancò la porta percorrendo l'ingresso ad ampie falcate, diretto verso la stanza da letto della piccola.
Dio, fa' che non le sia successo niente pregò.
"Molly sta bene, Matt."
La voce di sua moglie, fredda come non l'aveva mai sentita prima, lo trafisse come una stilettata, facendolo fermare di botto.
"Janice?" si voltò verso di lei, confuso.
La donna era vestita di tutto punto e, seduta sul divano a braccia conserte, lo fissava con sguardo indecifrabile e fronte aggrottata.
"Sai, Matt, non è Molly la tua famiglia" disse. "Anzi" riformulò "Molly non è, e non sarà mai, la tua famiglia. Quello dovrebbe essere il mio, di ruolo."
Matt la guardò come se non l'avesse mai vista prima. In un certo senso, era così.
"Ma che stai dicendo? Molly fa parte della mia famiglia, così come te! Credevo che avremmo potuto essere felici, tutti e tre insieme..."
Un'immagine di tre persone sedute insieme a cena, in un clima spensierato e caldo, pieno di affetto e sorrisi, gli si affacciò alla mente, ma si affrettò a scacciarlo: la terza persona con lui e Molly, in quella sua foto di famiglia perfetta, non era Janice.
"È questo il problema, Matt" rispose Janice, alzandosi di scatto e avvicinandosi a lui "Tu credevi. Non hai chiesto la mia opinione. Ti sei presentato una sera con lei in braccio, come un bambino che rientra con un gatto e dice 'mi ha seguito fin qui, mamma, possiamo tenerlo?' Però io non sono tua madre, Matt. Sono, o meglio, dovrei essere, tua moglie."
Matt aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma nessun suono ne uscì. Che cosa...
"Da quando quella bambina è entrata in questa casa, non mi hai toccata neppure con un dito. All'inizio ho pensato che fosse per causa del tradimento, e ti ho capito, come avrebbe potuto essere altrimenti? Tua moglie portava in grembo il figlio di un altro uomo! Ma poi il bambino è sparito. Pouff." Janice mimò con le mani una piccola esplosione, mentre sul suo volto si dipingeva un sorrisino sardonico. "Il nostro botto personale, ironico, non credi? Eppure, le cose non sono migliorate affatto. E sì che ho cercato di proiettarti nel pensiero più di un film porno!" ora nella sua voce c'era un'ironia feroce che fece suonare un campanello d'allarme nella testa di Matt.
"Janice" la interruppe, quindi "io non ho mai avuto intenzione di-"
"Certo, Matt, è chiaro! Tua moglie non era abbastanza in pericolo perchè te ne interessassi! Invece di cercare di salvare il mondo, perchè non cerchi di salvare la tua famiglia? O aspetti che uccida qualcuno, prima di chiederti che cosa sta succedendo?!"
Il tono della conversazione si stava alzando pericolosamente, rischiavano di svegliare (e spaventare) Molly, e Matt non lo voleva.
Inoltre, tutta la frustrazione e i bocconi amari ingoiati durante quei mesi stavano cominciando a farsi sentire e l'uomo non sapeva per quanto ancora sarebbe riuscito a mantenere la calma.
"Ti prego, Janice, non fare così. Mi dispiace se ti ho ferito, non volevo, e non volevo di certo importi un mio desiderio. Molly era sola, e noi avevamo bisogno di un motivo-" si interruppe prima di finire la frase. Ma la moglie capì al volo.
"Avevamo bisogno di un motivo per stare insieme! È questo allora! È per questo che hai accettato di farmi tenere il bambino, vero? Ed è per questo che l'hai portata qui! Volevi darmi una versione edulcorata di famiglia perchè non ti lasciassi!" gli occhi di Janice scintillavano rabbiosi. "Cosa c'è, Matt, hai scoperto di poter leggere anche i pensieri passati? Hai scoperto che il motivo per cui mi sono innamorata di te, il motivo per cui ti ho sposato, è che sapevi capirmi, quando gli altri non ci riuscivano? Hai scoperto che se il tradimento è finito così com'è cominciato è solo perchè tu mi hai ricoperto di tante piccole attenzioni, sempre, facendomi sentire il centro del tuo mondo? È così? Ti sei reso conto che senza i tuoi poteri da supereroe da quattro soldi non avresti mai potuto trattenermi?"
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"Anche tu...?"
Janice ridacchiò. "Oh no, Matt, io non ho mai avuto bisogno di squallidi mezzucci per capirti. Sei un semplice, uno qualunque. Sei cresciuto solo, e per me puoi morirci, da solo. Io ho chiuso con te."
E con quel piccolo mostro che mi hai messo in casa. Meno male che le stanze hanno il chiavistello, altrimenti non sarei più riuscita a dormire con lei qui.
Quel pensiero, che grondava veleno, gelosia e frustrazione, colpì Matt come una frustata in piena schiena. Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Matt, che aveva cercato di mantenere la situazione sotto controllo, sentì il suo controllo infrangersi in minuscoli frammenti. Prima che potesse rendersi conto di quel che stava facendo, afferrò la moglie e la scosse con tutta la forza che aveva, mandandola a sbattere contro la parete.
Janice impallidì e si divincolò, cercando di liberarsi, ma Matt la spinse più forte.
"Volevi vedermi agire? Beh, sappi che se i miei poteri potessero uccidere, ora di te non resterebbe più niente!" urlò.
"Cos'è, mamma gatta che tira fuori le unghie per proteggere il povero cucciolo ferito dal cane cattivo?" chiese ironicamente Janice, ma nei suoi occhi si leggeva la paura che la stava invadendo.
Il volto di Matt si deformò in un ghigno quasi ferino. "È inutile che ti sforzi, Janice" disse con voce quasi suadente "dimentichi che posso leggerti il pensiero!" continuò a denti stretti, quasi in un ringhio.
"È una bambina, maledizione!" gridò poi "come puoi considerarla un mostro?!"
La sua stretta si allentò, era troppo sconvolto per mantenerla. Janice lo spinse indietro e si rassettò la camicia.
"È quello che è. Stasera, mentre preparavo la cena, è venuta in cucina e mi ha detto 'è inutile che prepari per Matt, non tornerà prima delle undici, è appena uscito di pattugliamento.' E quando le ho chiesto come facesse a saperlo, mi ha risposto che lei può sentirti. Cos'è, un alieno? Uno scherzo della natura? Andiamo, Matt non puoi davvero considerarla una persona normale! Rimandala da dove è venuta, prima che ti faccia una fattura o qualcosa del genere."
Matt la guardò senza vederla. Chi era quella donna? Cos'aveva fatto a sua moglie?
"Non ha un altro posto dove andare, Janice. I suoi genitori non ci sono più, e non ha parenti. Io e Mohinder siamo le figure più simili a dei genitori che Molly abbia."
Il volto di Mohinder, rischiarato da una risata, mentre Molly gli spalmava un po' di panna sul naso, disperse per un momento le nubi di rabbia che gli ottenebravano la mente.
Mohinder si fida di me, pensò. Me l'ha affidata perchè pensava che con me avrebbe potuto essere più felice, e non oso immaginare quanto gli sia potuto costare.
Il filo dei suoi pensieri fu spezzato quando Janice lo afferrò per un braccio.
"Cosa fai, ti perdi a pensare al tuo amante indiano adesso? Certo, avrei dovuto immaginarlo! Sei anormale in tutto e per tutto!" gli urlò, stringendo tanto la presa da conficcargli le unghie perfettamente smaltate nella pelle.
Matt non ci vide più, e alzò l'altro braccio con l'intenzione di darle uno schiaffo tanto forte da farle rintronare la testa per giorni.
"Matt!"
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All'ingresso del salotto c'era Molly, tremante, nella sua camicia da notte con i cavallucci, la sua preferita, quella che aveva insistito tanto per avere, che Mohinder adorava e lui non sopportava.
Il visino della bimba era bagnato di lacrime, e i suoi occhi sembravano enormi, tanto erano spalancati.
Matt riportò lo sguardo sulla moglie, accorgendosi che la stava ancora stringendo. La donna lo fissava, con aria di sfida. Quando fu chiaro che Matt non l'avrebbe colpita, si divincolò con uno strattone.
"Non sei uomo abbastanza neppure in queste situazioni, Matt. Mi fai pena."
Ma lui non l'ascoltava più. Tutta la sua attenzione era focalizzata sulla figuretta semi nascosta dietro lo stipite della porta.
"Molly" la chiamò, e si avvicinò, ma la bimba indietreggiò, spaventata, tanto da incespicare nell'orlo della propria camicia da notte e cadere a terra.
Matt allungò una mano per aiutarla a rialzarsi, ma lei la spinse via, scoppiando a piangere disperata.
L'uomo sentì distintamente il suo cuore spezzarsi. Le uniche due persone importanti della sua vita, in quel momento, erano disgustate da lui e lo temevano. Era un fallito.
In quel momento il campanello trillò con violenza, ma Matt non riusciva a muoversi. Fu solo il terzo richiamo che lo sospinse fino alla porta. Quando afferrò il pomello, si accorse che gli tremavano le mani.
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Nella sua testa non c’era spazio per speculazioni. Non poteva - non voleva - pensare a cosa stesse accadendo in quell’appartamento, dove fino allora aveva mentalmente proiettato solo scenette di famiglia degne della peggiore delle pubblicità di merendine. Nella sua testa si srotolava una fila di pensieri, come una pergamena ingiallita o una pellicola cinematografica, che riportava sempre lo stesso nome, e sempre lo stesso viso : una Molly sorridente, che non riusciva - e di nuovo non voleva - immaginare con il viso rigato dalle lacrime, come temeva invece di trovarla di lì a poco.
L’appartamento gli comparve davanti non appena raggiunse il pianerottolo. Neanche sentì il pavimento sotto i piedi tanto fu rapida la sua avanzata verso la porta d’ingresso, accanto alla quale sostava il campanello, con una targhetta in ottone che recitava ‘Famiglia Parkman’.
Ogni pensiero e ogni briciolo di razionalità lo abbandonarono nell’istante in cui cominciò a premere rabbioso contro l’interruttore, ascoltando distratto il dlin dlon ripetersi ininterrottamente. Lo avrebbe premuto all’infinito: tutto, pur di sovrastare le urla che sentiva provenire da dietro la porta, e di far aprire quella stessa porta il prima possibile.
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"Cosa..." balbettò, improvvisamente conscio del proprio volto arrossato e ansante "cosa fai tu qui?"
Era l'ultima persona che si aspettava di vedere e, miracolosamente l'unica che avrebbe voluto avere lì in quel momento.
L'istinto di abbracciarlo fece nuovamente capolino, e Matt lo respinse a fatica.
Dietro di lui, Janice si sporse a guardare.
"Toh, l'amante indiano" disse. "Non ti hanno spiegato che devi aspettare che la moglie non sia in casa per poterti presentare in piena notte? Sai, il quartiere è piccolo e la gente mormora" aggiunse, scrollando le spalle.
"Ti prego, Janice, basta" rispose Matt a denti stretti. Si sentiva terribilmente a disagio, e in quel momento la precedenza assoluta l'aveva Molly.
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Passarono pochi istanti prima che gli aprisse la porta un Matt visibilmente sconvolto e trafelato.
Quella vista lo turbò non poco. Aveva gli occhi lucidi, la bocca semiaperta di chi aveva troppo da dire e nulla che avesse il coraggio di tirar fuori, i capelli spettinati di chi non ha tempo per prendersi cura di sé. Improvvisamente, sentì che era priorità assoluta entrare in casa, metterlo a sedere, preparargli un the e stare ad ascoltare ogni cosa avesse da dire, con espressione attenta e orecchie tese ad ogni minimo dettaglio, la voce pronta ad uscir fuori per consolare, rettificare, puntualizzare. La domanda che gli pose solo un secondo dopo lo ferì: lo stupore che aveva nella voce gli diede da pensare che Matt non volesse assolutamente che lui fosse lì, perché le cose andavano benissimo anche senza di lui e non serviva uno scienziato per mettere una bimba su uno scuolabus ogni mattina.
Bastò poco per perdersi in quelle spicciole elucubrazioni.
Tanto quanto bastò perché tornasse alla realtà nell’attimo in cui scorse il viso di Molly rigato dalle lacrime - diverso da come se l’era immaginato: dal vero era mille volte peggio - fare capolino oltre le spalle di Matt: quel fagotto, avvolto nella camicia da notte che tanti capricci aveva fatto per avere, e che Mohinder adorava, nel suo silenzio gli urlava di correre da lei, abbracciarla e portarla via di lì.
Irruppe nell’appartamento sgusciando oltre la figura imponente di Matt, improvvisamente relegato ad un angolino buio della mente del genetista. Le parole appuntite, acide e requisitorie della moglie del poliziotto ne accompagnarono l’ingresso, senza che tuttavia Mohinder si degnasse di rivolgerle anche una sola occhiata, neanche quando la voce velenosa della donna si lasciò andare, divertita, ad insinuazioni sulla natura del rapporto tra lui e Matt. Coprì la distanza tra lui e Molly in poche falcate e si inginocchiò di fronte a lei, cingendole le spalle esili con entrambe le braccia scoperte e ricevendo in cambio una stretta solida da parte di braccia altrimenti sottili e fragili.
“Mohinder, sei arrivato…!” rantolò la bimba, stretta nella morsa dell’indiano.
“Va tutto bene. Non aver paura, ci sono qua io”, le sussurrò ad un orecchio con voce ovattata, socchiudendo gli occhi e accarezzandole il capo con una mano, posandole poi un bacio sulla fronte umida. “Adesso ti porto via di qui”, concluse, a voce abbastanza alta perché Molly non fosse l’unica ad udire quelle parole.
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Di lui non ha paura, pensò amaramente.
Udendo le parole dello scienziato, chinò lo sguardo, sconfitto. Non tentò neppure di fermarlo, di fargli cambiare idea.
Lascia che se la porti pensò Janice, e quando lui si voltò di scatto verso di lei, la donna annuì. Ha rovinato tutto quello che ha toccato, è ora che levi le tende con la sua mammina aggiunse, sapendo che lui la stava ascoltando.
Matt rivolse uno sguardo di scuse a Mohinder e gli si avvicinò di un paio di passi. Molly nascose il volto nell'incavo della spalla dell'indiano e Matt si dovette mordere un labbro, forte, per evitare di piangere. Una stilla di sangue gli macchiò i denti, ma lui non si peritò neppure di tergerla via.
Sono patetico, Janice ha tutte le ragioni del mondo a reagire così pensò.
"Perdonami, piccola" disse poi, senza avere neppure il coraggio di guardarla in faccia "non ho saputo mantenere la promessa che ti avevo fatto."
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Non riusciva a capire di chi o cosa fosse la colpa di tutto quello. Da dove arrivasse l'invisibile nervosismo di cui era impregnato ogni angolo dell'appartamento ben tenuto, visto che, quando tutto era iniziato, l'unico che sembrava soffrire di quella situazione era solo Mohinder. Visto che conosceva Matt, e sapeva che era un uomo buono, coraggioso, disponibile.
...
E se si fosse sbagliato. Se tutte le ipotesi che aveva formulato riguardo quell'uomo semplice e ingenuo fossero errate, se in realtà Matt fosse sempre stato sull'orlo di perdere il controllo, di rovinare ogni cosa, di dare sfogo alla parte peggiore di sè che aveva sempre tenuto nascosta?
E' che non credeva l'avesse, una parte peggiore.
Gli era sempre apparso trasparente, cristallino, uguale dentro e fuori: nonostante quanto avesse imparato dal passato, Mohinder gli aveva accordato la sua fiducia fin dall'inizio ... che stupido.
Forse non era colpa di Matt. Forse era tutta colpa sua.
"La porto via con me". Si limitò a sollevarsi in piedi, stringendo Molly tra le braccia, sentendo di rimando la sua stretta intorno al collo. Doveva tirarla fuori di lì il prima possibile. "Passerò in mattinata a prendere le sue cose."
Freddo. Categorico. Niente spazio a melodrammi, a "Scordati di rivederla!" inopportuni. Con negli occhi solo la fantasia colorata della camicia da notte che sentiva sotto le dita scure, fece dietro-front e si apprestò a oltrepassare la soglia di quel posto orribile.
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"E tu, vattene" disse stancamente, rivolto alla moglie. "Se stare con me, in questa casa, e volermi bene, ti pesa tanto, vattene. Non sarò certo io a fermarti."
Le sue spalle erano incurvate, come sottoposte a un carico troppo pesante. Matt non sapeva se fosse il sapore amaro del totale fallimento di tutto quello su cui contava o la consapevolezza di non essere la persona che credeva di essere.
Il senso di colpa e il timore di poter fare del male a Janice, a Mohinder, o *Cristo a Molly, lo attanagliava.
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Non si guardò indietro mentre scendeva le scale, non si guardò indietro mentre superava lo stesso cancello dal quale era entrato, non si voltò neanche una volta preso posto in un taxi di fortuito passaggio, con la bimba quasi addormentata tra le braccia e una delle sue mani ad accarezzarle ininterrottamente il capo. Osservò le luci della notte sfrecciare accanto al veicolo in un rimescolìo confuso di colori, il mento poggiato alla nuca di Molly, gli occhi sensibilmente e inspiegabilmente umidi e le labbra serrate, tremanti.
Quel piccolo fagotto dal viso umido era tutto quel che gli era rimasto: aveva appena perso tutto il resto.
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"No, Janice, è finita. Il nostro rapporto fa acqua da tutte le parti e io...sono stanco."
La donna si strinse nelle spalle. "Io non tornerò, Matt."
Lui la guardò, e poi abbozzò un sorriso triste.
"È una minaccia o una promessa?"
Janice annuì. Non si aspettava una reazione diversa, in realtà.
Matt la vide salire le scale a passi svelti, e poi sentì cassetti e armadi aprirsi.
Si lasciò cadere sul divano e si prese la testa tra le mani.
Che razza di casino. Io volevo solo cercare di renderle felici.
I tacchi di Janice risuonarono all'ingresso. La donna si fermò, con la valigia in mano, senza sapere se dire qualcosa o limitarsi ad andarsene, ma Matt la precedette.
"Passi anche tu domani a prendere le tue cose?" domandò senza neppure alzare la testa.
"No, io..." Janice sospirò. Il fatto che avesse reagito attaccando non impediva a tutta la situazione di farle male. "Passerò la settimana prossima" disse alla fine.
Matt annuì impercettibilmente, e la donna uscì dalla sua vita, silenziosamente, come vi era entrata.
In quella casa vuota, un uomo distrutto, consapevole di essere un perfetto sconosciuto perfino per se stesso, precipitato in un baratro di dubbi e incertezze e senza alcuna idea su come uscirne.
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