Titolo: The sharpest knife in the drawer
Fandom: Jeeves & Wooster
Pairing: Bertie/Vince (OMC/OMC)
Rating: NC-17
Conteggio parole: 3.052 (W)
Prompt: Original, M+M, rasoio @
P0rn Fest #3 (
fanfic_italia)
Warning: Fluff. Fluuuuuuuuff.
Note: Ho usato un prompt originale perché i personaggi sono originali e non c'è alcun riferimento al fandom di partenza (be', qualcosa di microscopico en passant). Altro su Bertie & Vince
qui. Questo racconto fa parte, con
La mirabolante storia del dito-cipolla e
All the way home (I'll be warm), della mini-mini-serie del cottage.
Non che a Vince piacesse avere un’aria trasandata, ma finiva con l’averla la maggior parte del tempo. In vacanza, soprattutto, tendeva dimenticare di vestirsi e le buone maniere, l’ora giusta per mangiare e di farsi la barba. Non era mai maleducato o disgustoso (non parlava con la bocca piena, non sputava dalla finestra o schifezze del genere), ma la questione della barba era seria, perché la pelle di Bertie diventava subito di un rosso preoccupante, e poi grattava e pungeva per un bel pezzo. Non poteva tornare a casa alla fine della settimana col corpo chiazzato come un lebbroso.
“Ah…!” fece quando il mento ispido di Vince ripassò per la quinta volta in quel punto sulla sua spalla che ormai era rosso mattone.
“Ti ho fatto male? Non ho morso forte” disse Vince, accarezzandogli il lobo dell’orecchio.
“Non è l’orecchio.” Bertie sospirò, lasciandosi andare sul cuscino. “Vince, non ce la faccio più. Mi dispiace. Non si può andare avanti così.” Si passò una mano sulla parte arrossata, massaggiandola delicatamente.
“Non si può… Ma che dici?”
“Che dico ai miei quando torno a casa? Che devo fare se se ne accorgono? E come fanno a non accorgersene se sembro un…”
Vince gli prese la mano nella sua, stringendola con una foga che lo spiazzò, che lo lasciò senza parole. La stretta gli sembrò un po’ esagerata per la situazione. “Abbiamo detto che ce la vediamo insieme, se succede qualcosa. E tuo zio è con noi. Perché devi fare questi discorsi tutto d’un botto, porca miseria!” lo aggredì, brusco.
“Perché non posso pretendere che lo zio ci difenda se siamo così idioti da sbattere il fatto ai miei, ecco perché!” ribatté Bertie, senza capire perché all’improvviso stessero litigando. Aveva l’impressione di aver saltato un passaggio.
“Quindi non lo dobbiamo più fare? Stiamo qui a guardarci negli occhi e…”
“Non ho detto niente del genere” sbottò Bertie.
“Hai detto che non ce la fai più” gli ricordò Vince, vagamente accusatorio.
“Con la tua barba” spiegò Bertie, scandendo le sillabe con cipiglio pedagogico.
Vince corrugò la fronte. “Che c’entra la mia barba?”
“C’entra che sono pieno di graffi. E la settimana prossima Rupert è in licenza. Se entra nella mia stanza e mi vede in questo stato che gli dico? ‘Alla mia amante piace giocare con la carta vetrata’?”
Il volto di Vince si distese immediatamente, con un improvviso sollievo. Gli prese il viso tra le mani, infliggendogli un bacio nel quale Bertie si lasciò tirare controvoglia, coinvolgere controvoglia, finendo col tendersi verso di lui come una falena verso la lampada.
“Pensavo che mi stavi lasciando” mormorò Vince, baciandogli il mento.
“Non pensare queste cose” sospirò Bertie. Spostò a malincuore le dita dell’altro che giocherellavano con l’elastico dei suoi boxer. “Vince, davvero… Non scherzo” pregò, allontanandolo da sé per le spalle. “Vai a farti la barba.”
“Tra un minuto” borbottò Vince.
“Ora.” Bertie inspirò bruscamente quando il bacino di Vince si strofinò contro il suo. Lo spinse via, nella metà vuota del letto. “Io vado a preparare la colazione.”
Era già davanti ai fornelli quando Vince gli gridò dalla camera da letto, come se il pensiero gli fosse appena occorso: “Non bruciare niente!”.
Bertie aprì il frigorifero, prese le uova e il bacon e si infilò una vestaglia di Vince abbandonata sulla sedia (quando? la sera prima?) perché col solo pigiama iniziava a sentire freddo. Vince sottovalutava molto le sue doti culinarie, ed era quasi un complimento, perché dal punto di vista di Bertie non c’era proprio niente da sottovalutare, lo zero assoluto già raggiunto e oltrepassato da un pezzo. Tuttavia, era abbastanza sicuro di saper cuocere due uova e un po’ di pancetta.
Aveva solo qualche problema a rompere le uova… Siccome dubitava delle sue forze, preferì romperle in una terrina prima di passarle nella padella, anche perché in questo modo era più facile raccogliere i pezzetti di guscio che gli scappavano sempre. Aveva appena finito di rimuovere un triangolino assassino e completamente spampanato uno dei tuorli (Vabbè, quello lo mangio io), quando pensò di dare un’occhiata a come se la stava cavando Vince prima di mettere a friggere il tutto. Controllare che non si fosse tagliato via un orecchio e cose così.
Cominciò a fare rumore dal corridoio, perché comparire all’improvviso di fronte a un uomo con un rasoio non è mai una buona idea, e si fermò sulla soglia del bagno. Vince aveva la faccia insaponata e stava beatamente a petto nudo nonostante si fosse in dicembre. Solo le labbra si intravedevano in mezzo alla schiuma, e in tutto quel biancore sembravano più rosse che mai.
Vince affilò distrattamente la lama sul cuoio, poi, voltando leggermente il viso per vedersi meglio nello specchio, la manovrò dalla basetta alla mascella in un’unica, fluida passata. La lama sfrigolò contro la pelle con un leggero grattare, e Bertie approfittò del momento in cui la risciacquava nel lavandino per avvicinarsi, completamente visibile nello specchio.
Non gli piaceva interrompere le cose a metà più di quanto piacesse a Vince, e guardare non era abbastanza, non quando avevano così poco tempo per stare insieme. Gli strinse la braccia intorno alla vita, depositandogli un bacio sulla spalla. Appoggiò la guancia in quel punto, restando fermo, comodo contro la schiena solida di Vince.
“Non farmi tagliare” mormorò Vince, sorridendo nello specchio.
“Non ti tagliare” assentì Bertie.
Un lato era fatto, un po’ frettolosamente ma fatto, quando Bertie guardò negli occhi il riflesso dell’altro e mormorò: “Vieni a vivere con me a Londra”.
La faccia di Vince gli disse che non l’aveva preso sul serio. “Eh! Quando vuoi” scherzò, prima di attaccare l’altra guancia.
Bertie lo lasciò continuare in silenzio, finché non restarono solo le rifiniture e qualche piccola macchiolina di schiuma da lavare via. Aveva pensato di prendere il discorso in tutt’altra maniera, magari a letto dopo l’amore, ma a letto dopo l’amore i problemi sembravano sempre così lontani, e invece ora in piena mattina, nel mezzo di un’attività quotidiana come farsi la barba, gli sembrava appropriato parlare di Londra e di vivere assieme. Ma Vince aveva pensato che scherzasse.
“La casa è mia e di Rupert, ma Rupert ha sempre detto che non la vuole. E in ogni caso non sarebbe comoda per starci con Charlotte. Ma se un giorno decidesse di volere la sua parte, potremmo sempre venderla e con la metà restante ne comprerei una più piccola, magari più lontana dal centro, non importa. Tanto ci staremmo solo in due. Anzi, così com’è è pure troppo grande.”
Vince rimase in silenzio, e a Bertie non parve un buon segno.
“Vince?”
“Non posso andare e venire da Londra a Steeple Bumpleigh tutte le mattine.”
“Be’, no” ammise Bertie. “Ma potresti trovare lavoro a Londra. Londra è piena di lavoro. E sono sicuro che lo zio…”
“Pensavo che non volevi scomodare tuo zio per ogni cosa.”
“Non è ‘ogni cosa’. Non c’è niente di male a chiedere una mano, loro hanno tanti agganci. E poi tu sai fare tutto.” Gli baciò un punto dietro l’orecchio, abbracciandolo un po’ più stretto. “Mmm? Che ne pensi?”
“Non lo so” rispose Vince. “Non lo so che ne penso.”
Si liberò della sua presa per recuperare l’asciugamano ed eliminare gli ultimi residui di schiuma; poi si sciacquò la faccia e mise il dopobarba, stringendo leggermente gli occhi per il bruciore sui minuscoli taglietti e sulla pelle irritata dalla lama.
Si voltò, ma Bertie vide che evitava il suo sguardo.
“Mangiamoci qualcosa, dai.”
“È che…” Bertie sospirò, seguendolo in cucina. “Non è da ieri che ci penso, va bene? Ora mi dirai che sono egoista, ma questa storia del vederci una volta ogni tanto… davvero…” Si appoggiò al muro, guardando Vince che affettava il bacon e lo lasciava cadere in padella con uno sfrigolio.
“Ho finito le scuse per venire a casa. L’altra volta lo zio Claude ha detto che non sa perché mi mantengono a Londra se appena posso scappo a casa dalla mammina. E non riesco a studiare, a casa. A Londra, invece…”
“Non posso lasciare il lavoro così” disse Vince. “C’è mia madre. Lo sai che c’è mia madre. E non posso scaricargliela a Eddie, non la posso fare una cosa così. Eddie è troppo piccolo, e con quello che prende…”
“Non si tratterebbe di lasciare il lavoro a casa su due piedi” replicò Bertie. “Potremmo vedere che c’è a Londra, prima. E poi, con calma… Anche tua madre sarebbe contenta di averti più vicino.”
“Sì, e come glielo dico? E tu ai tuoi, come glielo dici?” lo apostrofò Vince, alzando la testa. “Non so chi mi spara per primo, tra tuo fratello e tuo zio.”
Bertie cercò di ignorare il nodo improvviso che gli si stringeva allo stomaco tutte le volte che immaginava di intavolare una discussione sulla sua sessualità con sua madre, Rupert e lo zio Claude.
“Intanto non c’è bisogno di dirglielo subito. Mia madre non viene mai a Londra, e Rupert è sempre in Accademia. Ma comunque lo direi a mia madre, prima. E poi, quando si sarà calmata, a Rupert. Rupert sarà difficile. Forse non mi parlerà mai più. Non lo so. Forse vorrà che me ne vada dall’appartamento, visto che per metà è suo, ma non mi può cacciare, quindi se fa storie lo venderemo e gli darò i suoi soldi.”
“Oppure mi denuncia e ha risolto il problema.”
“Non può denunciare te senza denunciare anche me.”
“Si inventa qualcosa. Tuo fratello mi odia.”
“Rupert non…”
“Senti, lo capisco quando uno mi odia, va bene? Se ti dico che mi odia è perché lo so. Lo vedo come mi guarda. Tu digli tutto, e la prima cosa che fa è tirare qualche filo qua e là tra i suoi amici nell’esercito…”
“Aviazione.”
“Quello che è. E mi leva di mezzo. Problema risolto.”
“Mio fratello non è così carogna.”
Vince mise il bacon nei piatti, poi lasciò cadere le uova nella padella calda con un pizzico di sale.
“Non è questione di carogna” disse piano. “Lo facevo pure io, se era mio fratello. Se era tutto al contrario. Non gli facevo mettere le mani addosso da nessun porco di rottinculo, altroché.”
Bertie si staccò dal muro, che aveva cominciato a gelargli la schiena attraverso i vestiti. Prese la mano di Vince e se la portò alla bocca, baciandone il palmo e l’interno della dita. “Tuo fratello è un ragazzo” mormorò sulla sua pelle. “Io sono un uomo, e Rupert sa che non può farmi cambiare idea. Se ti dico che da quel lato devi stare tranquillo, ti puoi fidare di me?”
Vince sospirò profondamente. Gli accarezzò la bocca con le dita, ricevendo una salva di baci. “Non è che non mi fido, Bertie” mormorò.
“Senti. Se è solo per il lavoro, per i soldi, per tua madre, per mia madre… va bene, ne possiamo parlare. Ma se il fatto è che a Londra non ci vuoi proprio venire, che stai bene dove stai, che non ti piace l’idea di vivere con me, giuro che non insisto più. Però me lo devi dire.”
“Ma sì che ci voglio venire” disse Vince. “Però non è facile come la fai tu.”
“Lo so. Lo so. Però ne possiamo parlare, vero? Tu e io. Con calma. Possiamo trovare una soluzione.” Gli strinse le braccia al collo, molli, cercandogli le labbra con le sue. “Potrei svegliarti succhiandotelo tutte le mattine” bisbigliò, pianissimo, vagamente eccitato dalla sua stessa oscenità. “Non ti piacerebbe?”
“Ma con chi mi sono messo” ribatté Vince, afferrandolo dai fianchi.
“E non sarebbe solo per una vacanza, ma tutti i giorni dell’anno” continuò Bertie, suadente. Gli mordicchiò il labbro, poi gli si strinse addosso per un altro bacio, lento e profondo come un invito.
“Se mi fai bruciare le uova come le cipolle dell’altro ieri ti ammazzo” scherzò Vince, arricciandosi tra le dita i capelli corti sulla nuca di Bertie. Si fece avanti per un altro bacio, ma quello, obbediente, si era già tirato indietro. Il lampo di dispiacere negli occhi di Vince nel trovarsi a mani vuote gli riscaldò il petto e gli mise un’improvvisa voglia di ridere fino allo sfinimento.
“Dovremmo fare la spesa” osservò, aprendo il frigorifero.
“Più tardi ci vado io.” Vince versò le uova nei piatti col bacon, guardando con aria di riprovazione il tuorlo malconcio.
“Possiamo andare insieme.”
“Non fa niente, non mi scoccia andare solo.”
“Mi fa piacere accompagnarti.”
“Sì, ma… Ecco qua. Non mi è piaciuto come ci ha guardato il tizio della drogheria. Quando ci ha chiesto se stavamo su al cottage così e cosà.”
“Conosce lo zio Bertie. Voleva solo scambiare due chiacchiere.”
“Sì, be’, preferisco se non comincia a chiacchierare troppo.”
Bertie sedette di fronte alle sue uova e prese una fetta di pane tostato, mordendola pensoso. Vince aveva ragione, ma a volte prendeva questa storia della prudenza troppo seriamente. Anche a Bertie piaceva sentirsi al sicuro, ma non al prezzo di sacrificare la pace mentale.
“A Londra non avremmo questo problema” gli disse, appoggiando i gomiti sul tavolo. “Quando sto a casa non faccio che studiare. Non so neanche come si chiamano i miei vicini, e loro non sanno niente di me. Per quello che importa, potremmo dire che siamo cugini.”
“Non ci assomigliamo neanche un po’.”
“Neanche mia cugina Dahlia e io ci assomigliamo. Che importa? Diremo che hai preso dal ramo Sadler della famiglia.”
Vince scosse la testa, ridacchiando. Quanto sarebbe risultato tutto più facile se fossero stati davvero cugini! Consanguineità a parte.
“Va bene” disse Bertie, alzandosi. Mise in bocca una striscia di pancetta intera e la masticò con impegno mentre si accomodava sulle cosce di Vince, una gamba da ogni lato, spingendo indietro il tavolo per farsi spazio. “Ho aspettato abbastanza.”
“Io non ho finito di mangiare” obiettò Vince, sventolando la forchetta con un pezzetto di bacon infilzato in cima.
“Neanche io” rispose Bertie, inghiottendo. Gli leccò via dall’angolo della bocca un pezzettino di uovo spappolato, poi gli spinse la lingua tra le labbra, chiudendogli la bocca con le proprie leggermente unte. Il salato si lavò via poco a poco, lasciandogli un saporino piacevole ai lati della lingua. Bertie piegò una gamba e perdette una pantofola quando da dietro incastrò un tallone nello spazio libero tra il sedile e lo schienale della sedia.
Sfilò le braccia dalla vestaglia, lasciando che si afflosciasse intorno alla cintura come la corolla gualcita di un fiore. Schiena a parte, la posizione avrebbe potuto perfino rivelarsi comoda.
"Ecco" mormorò, baciandogli la guancia vicino all'orecchio. Passò le labbra sulla pelle liscia, inspirando il buon profumo del dopobarba. "Così è molto meglio..."
Una mano di Vince aveva preso a disfare pigramente il nodo della sua cintura. L'altra gli massaggiava la coscia e la natica attraverso la gamba del pigiama, facendosi a ogni ondata più decisa, sommuovendo fasce di muscoli al suo passaggio per stringerle al termine della corsa e rilasciarle nella direzione opposta.
Bertie sentì la tensione familiare stirarsi nell'inguine e si fece un po' più avanti per sentirsi toccare dall'erezione di Vince, ondeggiando appena per prolungare lo strofinio e il contatto. Gli morse con cautela un lembo di pelle sulla mandibola, strappandogli niente più che una debole protesta; continuò sulla gola, gli baciò il pomo d'Adamo e lo ricoprì in tutto il collo di morsetti leggeri, che non facevano male. Da un po' aveva preso a torturare uno dei capezzoli di Vince sotto il pollice, massaggiandolo fino a che la pressione non dovette diventare quasi dolorosa: vi sostituì le labbra, ignorando la scomodità della posizione finché Vince non emise un sospiro brusco e gli passò le dita nei capelli e quasi se lo tirò alla bocca per riempirla con la propria lingua.
Adesso la mano di Vince era dentro i suoi pantaloni, scansava la biancheria e lo prendeva nel palmo e Bertie fece altrettanto. Si sentiva tutto un crampo ma non voleva muoversi: l'erezione dell'altro era calda nella sua mano, le labbra di Vince disegnavano sentieri di baci sulla sua spalla senza martoriarlo, tra non molto sarebbero andati a vivere assieme, e tutto, tutto al mondo era assolutamente perfetto.
Finì per primo, vergognandosi del proprio entusiasmo e della rapidità e di aver macchiato vestaglia e pigiama, mentre Vince continuava ad accarezzarlo fino a un istante prima che il tocco si facesse insopportabile.
Bertie disincastrò le gambe da quella posizione atroce e sentì qualcosa scattare all'altezza del ginocchio. "Ah... non smettere" ansimò Vince, roco, ma Bertie l'aveva già lasciato, crollando sul pavimento nella stoffa della propria vestaglia. Lo prese in bocca quanto più poté, sopprimendo col trasporto ogni istinto a respingere l'intrusione, ripagato nei suoi sforzi dal rumore gutturale del piacere di Vince, dal suo impugnare urgente la stoffa del suo pigiama per necessità di aggrapparsi a qualcosa. A Bertie non era mai parso che l'atto avesse attrattive dal punto di vista del soggetto attivo, ma questo era prima di Vince. C'era qualcosa di intrinsecamente erotico nel suo odore, tanto più intenso quanto più da vicino poteva percepirlo; non c'era parte del suo corpo che non amasse riverire con furia disperata, baciare e adorare fino allo sfinimento.
Sarebbe morto senza di lui, perciò trovava solo giusto che Vince morisse un pochino al suo comando, inerme nella sua bocca né più né meno della sua colazione, completamente abbandonato al suo volere, magnifico o crudele che fosse. Ebbe la tentazione di lasciarlo sulle spine solo per vedersi accendere una preghiera nei suoi occhi, ma la crudeltà non gli si addiceva, e comunque non oggi che tutto al mondo era perfetto. Lo lasciò finire nella sua bocca, chiudendo gli occhi per concentrarsi solo sulla deglutizione, sulla vittoria ordinata sui propri riflessi. Ringraziò che non fosse molto.
Dal livello superiore, quello che odorava meno di Vince e più di uova e pancetta, l’altro stese il pollice per asciugargli l'angolo della bocca. Bertie lo baciò di riflesso, stringendogli per un istante il polpastrello e l’unghia tra i denti.
“Ti secca se sto un po’ così?” mormorò poi, appoggiando la guancia sulla sua coscia e chiudendo gli occhi.
“No. Stai comodo?”
“No, ma mi piace.”
Sentì le dita di Vince solcargli i capelli arruffati, districando il nodo occasionale senza fargli male. Si abbandonò per qualche istante alla fantasia che suo fratello o il suo patrigno entrassero in quel momento, trovandoli in quella posizione strampalata.
Si sentiva così bene che poté permettersi di ghignare selvaggiamente al pensiero.