Questo è il mio ultimo articolo che apparirà sul prossimo numero di PAGINA UNO

Oct 26, 2007 02:59

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Tolleranza zero

La politica della tolleranza zero è un modello di governo che prevede un'applicazione particolarmente intransigente delle norme di pubblica sicurezza nei confronti delle trasgressioni minori, come il mancato pagamento del biglietto dell'autobus, la prostituzione, gli scippi etc. L'abitudine alla legalità, secondo questa teoria, dovrebbe produrre in breve tempo, insieme alla riduzione della microcrimimalità, anche un calo dei reati maggiori, quali stupri e omicidi.
Questa politica deriva dalla "teoria delle finestre rotte" (broken windows theory) formulata nel 1982 dai criminologi James Q. Wilson e George Kelling, che prevede che se le persone si abituano a vedere una finestra rotta, in seguito si abitueranno anche a vederne rompere altre, e a vivere in un ambiente devastato senza reagire: riparando la finestra, ci si abitua al rispetto della legalità.
Nata negli Stati Uniti (riferita in special modo all'azione amministrativa dell'ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani), in Italia l’espressione viene usata e abusata in accezioni diverse, da diverse parti politiche, non necessariamente in relazione alla teoria che ne è alla base: in generale o in riferimento a una particolare categoria di trasgressioni, si tende a parlare di tolleranza-zero (ad es. nei confronti del fumo) come di un generico inasprimento delle sanzioni e dei divieti.
Negli ultimi mesi abbiamo potuto assistere ad un uso sempre più assiduo di questo termine: la cronaca giornalistica ci narra di continuo di fatti più o meno gravi, di cui spesso si rendono protagonisti immigrati o criminali recidivi, fatti culminati nella lotta ai lavavetri intrapresa dal comune di Firenze.
Questo generale sentimento di sdegno popolare ha quindi spinto il governo a cercare di realizzare il concetto di “Tolleranza zero” con un nuovo pacchetto di leggi sulla sicurezza: gesto che non può che generare ilarità, se pensiamo che tale provvedimento intransigente arriva giusto un anno dopo un provvedimento opposto, la famigerata legge sull’indulto.
A nessuno di noi ovviamente piace essere importunati da un lavavetri, dover sopportare accattoni per strada o ancor peggio vivere vicino ad un campo nomadi. E di sicuro non possiamo aspettarci che un governo dai comportamenti schizofrenici, che oggi promette rigore e ieri svuotava le carceri, possa affrontare il problema.
Quindi che fare? A mio modesto parere le risposte che cerchiamo sono come spesso accade da ritrovare nel nostro passato. I nostri antenati infatti hanno dovuto risolvere problemi simili trovando soluzioni efficaci che anche noi oggi possiamo facilmente riproporre.

Torniamo indietro nel tempo fino ad arrivare al momento primigenio: da dove arrivano tutti questi accattoni, sbandati, microcriminali?
Nel medioevo il povero, il vagabondo e il mendicante erano accolti e aiutati, per lo meno dai fedeli cristiani e dai rappresentanti della religione: infatti la povertà era uno dei pilastri della dottrina cristiana che prevedeva l’obbligo dell’aiuto al povero, anzi questo era considerato l’eletto che forniva l’occasione per una buona azione. Il povero era quindi l’immagine di Cristo sulla terra.
Al quell’epoca il rischio dell’impoverimento e della miseria non era un fatto occasionale legato alla mancanza di difese della società nei confronti delle ricorrenti congiunture negative, economiche, sanitarie, alimentari, belliche, che ciclicamente permeavano quei secoli. Il pericolo della povertà coinvolgeva tutti, persino alcuni benestanti che a causa di specifici problemi potevano decadere dal loro status sociale divenendo “pauper verecundus” (povero vergognoso).
Le opere di beneficenza venivano organizzate da istituzioni, prevalentemente ecclesiastiche, che si ponevano come raccordi tra i poveri ed i donatori di elemosine; in particolare gli ospedali, i monasteri, i lebbrosari. I poveri risultavano quindi essere integrati nella società dell’epoca.
Dall’XI al XV secolo, prima in Italia, poi nei Paesi bassi, poi in tutta l’ Europa occidentale, si consuma lentamente la crisi dell’aristocrazia feudale e avanzano i ceti del commercio e dell’artigianato, non come forze subalterne di una società stratificata ma come classi economicamente indipendenti e influenti di una società aperta. Sono queste le classi che tra il XV e XVIII secolo promuovono quello che è stato definito il capitalismo commerciale. Ed è nella fase del capitalismo commerciale che si verifica la prima grande accumulazione di ricchezze che costituirà il trampolino di lancio del capitalismo industriale e il terreno di cultura delle borghesie nazionali e di un sistema economico dinamico.
Da questa mutazione nei rapporti sociali la storia della povertà entra in una nuova fase: l’esempio più eclatante di questo passaggio epocale avviene in Inghilterra, la culla della futura rivoluzione industriale.
A partire dal 1400 i proprietari terrieri inglesi iniziarono un processo chiamato “enclosures”, cioè recinzione delle terre. Tale pratica aveva come fine quello di recintare i terreni, in special modo le terre di uso comune, per permetterne l’uso esclusivo da parte del proprietario. I campi vennero convertiti dalle tradizionali colture, che impiegavano larga manodopera, alla pastorizia, meno costosa in termini di forza lavoro e affare lucroso vista la forte richiesta internazionale di lana inglese. Inoltre l’interdizione all’utilizzo da parte della comunità dei “campi comuni” e dei boschi rese impossibile la vita alle popolazioni rurali: tali appezzamenti venivano infatti sfruttati per raccogliere legna, funghi, frutti o pascolare gli animali domestici necessari al sostentamento delle classi meno abbienti. Il risultato fu che contadini e piccoli proprietari terrieri, resi inutili dall’estendersi della pastorizia e privati dei tradizionali mezzi di sostentamento, vennero cacciati dalle campagne e costretti a riversarsi nelle città.
Con lo scoppiare della rivoluzione inglese nel XVI secolo il fenomeno delle enclosures subisce un’accelerazione importante: ora infatti il parlamento stesso si fa promotore di una serie di leggi che in due secoli renderanno la recinzione delle terre obbligatoria.
L’Inghilterra possedeva innumerevoli piccoli proprietari terrieri (yeomen) i cui possedimenti erano piccoli e sparsi, riducendo la possibilità di introdurre innovazioni e di conseguenza di migliorarne i rendimenti. Le leggi sulle recinzioni (enclosures acts), emanati dal parlamento dalla fine del XVII secolo all’ inizio del XIX secolo, favorirono la redistribuzione e il raggruppamento delle terre ingrandendone la dimensione, a tutto vantaggio dei grandi proprietari che spinsero e sostennero questi provvedimenti.
Gli yeomen furono le vittime principale della trasformazione economica inglese del XVIII secolo, in quanto spesso obbligati a vendere le loro terre non avendo risorse sufficienti per effettuare le recinzioni (oltre ai costi di realizzazione dell’opera vi erano altri oneri giuridici e fiscali). Anche i cottagers, che non possedevano terre proprie ma beneficiavano dell'accesso alle terre comuni destinate a scomparire, persero una fonte importante di sussistenza e furono spinti o a lavorare per i grandi proprietari o a cercare fortuna nelle città.
I piccoli proprietari terrieri producevano in proprio i beni che servivano alla loro sussistenza, attraverso l’agricoltura, l’allevamento e i la piccola produzione artigianale, soprattutto tessile, che avveniva nei mesi invernali, e ricorrevano al baratto per tutto il resto. Con l’espulsione dalle campagne di questa classe sociale la comunità rurale viene via via disgregata, l’economia curtense autosufficente basata sui piccoli produttori distrutta per essere convertita alla moderna economia monetaria e dell’urbanizzazione. Espulsi in massa dalle campagne gli ex contadini si tramutano in una massa di vagabondi che, mendicando e vivendo di espedienti, percorrono le campagne o affollano le città dell'epoca. La rappresentazione di questa situazione storica può essere rinvenuta in molti romanzi di ambiente picaresco, si pensi alla descrizione della "corte dei miracoli" nel Notredame de Paris di Hugo.
I più fortunati troveranno un’occupazione trasformandosi da piccoli produttori indipendenti e autosufficenti a lavoratori salariati costretti a soddisfare le proprie esigenze attraverso la vendita della propria forza lavoro. Successivamente contribuiranno ad alimentare l’esercito industriale di riserva del quale la nascente industria necessitava.

La formazione della prima classe operaia non fu quindi un fatto naturale, bensì il prodotto del decisivo intervento del potere statale che fece uso esplicito della violenza, inizialmente nella creazione di una classe di poveri e vagabondi, successivamente come metodo di educazione della disciplina del lavoro salariato.
Dal XV secolo. parallelamente all’espandersi della povertà e del vagabondaggio, cambia l’atteggiamento della società nei confronti di questo fenomeno.
Con la crescità dell’economia monetaria e l’affermazione della nuova classe borghese comincia a diffondersi il disprezzo per la miseria, disprezzo che si riflette nella legislazione europea medievale. Infatti, contrariamente al passato, il povero smette di rappresentare l’immagine di Cristo sofferente, il vagabondaggio viene considerato reato e viene imposto l’obbligo del lavoro per tutti. La legge prevedeva punizioni severe per chi veniva sorpreso senza fissa dimora e senza un’occupazione, come la frustazione pubblica, l’espulsione dalla città o la galera. Le società medievali iniziano così a punire gli elementi asociali: tutti coloro che non si conformano alle regole del vivere comune devono essere puniti in quanto diffondono un cattivo esempio, pericoloso per la società dominante. Quindi, il vagabondo non era pericoloso per le sue possibili attività illecite, ma piuttosto perché non partecipava alle istituzioni e alle finalità della società globale. La società preindustriale non accettava chi viveva isolato e indipendente e cercava di “riprenderselo” imponendo l’obbligo del lavoro per reintrodurlo nelle maglie del sistema. Furono numerose le cosiddette "Leggi sanguinarie" emanate dai regnanti inglesi tra il XIV e il XVII secolo, come Enrico VIII ed Elisabetta I, o europei, come l'imperatore Carlo V, tesa a reprimere il vagabondaggio degli abitanti delle campagne cacciati dalle proprie terre. Queste prevedevano pene come la fustigazione, il marchio a fuoco, la prigione e, in caso di recidività, anche la pena capitale.
Le istituzioni iniziano a discriminare i poveri distinguendo la povertà vera da quella falsa. I poveri per così dire “accettati” erano le persone con una inabilità fisica, ridotti al rango di mendicanti a tempo pieno. Essi erano i destinatari dell’assistenza pubblica. I malati erano al primo posto. Vi erano poi i ragazzi e bambini che venivano abbandonati dalle loro famiglie e le vedove. Anche i vecchi erano tra i destinatari dell’assistenza pubblica: essi non potendo più lavorare, ma avendo in passato lavorato, rientravano nella casistica del povero accettato.
Vicino a questo primo grande gruppo ce n’era anche un altro formato dai “poveri della crisi”. Essi ricevevano l’elemosina in modo saltuario poiché, seppur poveri, non erano indigenti: tra di essi i lavoratori occasionali e le persone con un basso reddito, piccoli artigiani, manovali non specializzati, ecc. Molti di loro cadevano in povertà a causa dei numerosi debiti contratti. Dalle carte processuali dell’epoca emergono alcune delle cause che inducevano all’indebitamento e che spesso avevano risvolti penali: si va dal mancato pagamento della pigione ai debiti accumulati per l’acquisto di beni per poter sopravvivere, ecc. La maggioranza delle persone che componeva l’esercito dei poveri era costituita però da contadini, lavoratori agricoli non specializzati e occupati solo occasionalmente: essi erano al limite del vagabondaggio.
Tra questa massa di marginali una figura che emerge è quella del mendicante. I mendicanti popolavano le città e la loro posizione era divenuta fonte di molti problemi: non avevano nessun tipo di potere, non pagavano le tasse, erano esclusi dalle corporazioni e dalle confraternite.
Le istituzioni nel XVI secolo iniziarono a porre in essere leggi ed atteggiamenti che stigmatizzarono la distinzione tra falsi mendicanti e veri mendicanti. Sempre più nella categoria dei falsi mendicanti iniziano ad essere inclusi i vagabondi.
Nel XVI secolo si va affermando l’identificazione del mendicante con la “familia diaboli”. In tal senso si afferma una letteratura che ha per oggetto la mendicità organizzata in corporazioni più o meno segrete, ed ovviamente non autorizzate, e lo sviluppo delle tecniche di accattonaggio che venivano usate per ingannare il prossimo. Nel 1528, nella prefazione del Liber vagatorum, manoscritto circolante già alla fine del XV secolo ma stampato agli inizi del XVI, Martin Lutero rappresentava i vagabondi come coloro che agivano in combutta con il diavolo, anzi era lo stesso diavolo che si serviva di loro per impedire che le elemosine finissero nelle mani dei veri bisognosi (vedove, orfani, anziani e invalidi, i poveri socialmente accettati). Ma è nell’opera di Teseo Pini, lo Speculum cerretanorum scritto tra il 1484 e il 1486, che viene analizzata la mendicità assieme ai complicati metodi di fraudolenza: accanto alla rappresentazione dei diversi mascheramenti viene riprodotto il linguaggio segreto usato dai vagabondi e mendicanti per comunicare tra di loro.
Bronislaw Geremek, autore di molti saggi sulla storia della povertà, afferma che l’atteggiamento legislativo verso i vagabondi diviene via via particolarmente duro: mentre il mendicante riconosciuto come tale veniva tollerato, il vagabondo era odiato: essere vagabondi non implica solo la facilità di commettere reati ma anche un insieme di atteggiamenti, abitudini, costumi che di per sé sono considerati pericolosi alla società.
Se è vero che nella maggior parte dei casi i vagabondi provenivano dalle campagne, la città si presentava come il rifugio più sicuro nei momenti di difficoltà poiché assicurava i mezzi di sopravvivenza, dall’elemosina al furto alla ricerca di un lavoro temporaneo.
Ma il vagabondaggio ritenuto pericoloso è costituito in particolare da giovani e adulti tra i 15 e i 50 anni; tra di essi mercenari, soldati allo sbando, reduci di guerra abituati ad una vita violenta, mendicanti e pellegrini falsi, banditi organizzati in bande che terrorizzavano le campagne vicino alle città. Nel 1665 un dotto vescovo italiano, Giambattista Scanarolo, nel Trattato “De visitatione carceratorum”, per definire il vagabondo propone quattro criteri: 1) l’errare senza alcuno scopo; 2) l’assenza di un mestiere e di un patrimonio personale; 3) l’errare sia per ozio che per commettere crimini; 4) non avere un domicilio fisso e mendicare ingannando le persone dicendo di avere o mostrando false malattie.
In Italia un esempio indicativo dei metodi utilizzati per trattare la povertà ci viene fornito dalla Roma papale, fulcro della cristianità e per questo metà privilegiata dei vagabondi.
Fanucci così scriveva di loro all’inizio del secolo XVII: «A Roma non si vedono che mendicanti e sono così numerosi che è impossibile camminare nelle strade senza averli attorno».
Sisto V nel 1587 ordina una reclusione generalizzata dei poveri in un ghetto; lo stesso pontefice nella bolla “Quamvis infirma” condanna la vita che conducevano i vagabondi e i mendicanti che popolano le vie di Roma. Vicino ponte Sisto il papa fece erigere un ospizio la cui direzione venne affidata ad ecclesiastici e laici investiti del potere di giudicare i poveri al fine di reprimere la piaga della mendicità. Ogni mendicante doveva essere condotto da loro per poter avere l’autorizzazione a mendicare e/o essere accolto nell’ospizio. La licenza di mendicare si concretizzava in un distintivo cucito sulla spalla sinistra ed in una bolla stampata che aveva il valore di un nulla osta: tutto ciò veniva concesso solo ai poveri miserabili, ossia ai ciechi, ai vecchi, agli inabili. I vagabondi, invece, dopo essere registrati, venivano rispediti, con un foglio di via obbligatorio, ai loro luoghi di origine, sotto pena di essere puniti con la fustigazione e la galera gli uomini.
Negli ambienti cattolici romani si diffonde una concezione morale radicalmente negativa del povero: la povertà diviene un motivo di disordine sociale e il povero è responsabile del suo stato, perché l’origine della povertà deve essere cercata nel peccato e nel vizio.
Nel XVII secolo varie leggi indicano che chi continua a mendicare è un falso povero. Per distinguere i vagabondi dagli operai si arriva a servirsi di un semplice metodo: si ignorano coloro che hanno le mani indurite dal lavoro e si incarcerano tutti gli altri.
Con il passare dei secoli, le masse espropriate, costrette alla povertà e per la loro povertà punite, attraversando il purgatorio dell’avvento dell’era industriale espiano il loro peccato diventando lavoratori salariati. Finalmente queste moltitudini di persone inutili sia alla società che a se stesse trovano una loro collocazione nelle fabbriche della prima fase industriale: il premio della loro redenzione sarà consegnato alle generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale sottoforma della “società del benessere”.
Ciò che preoccupa è il ritorno, cominciato negli anni 80 nell’Inghilterra Tatcheriana e nell’america Reaganiana, di politiche atte alla riproposizione in chiave moderna degli “enclosures acts”. Oggi ad essere “recintati” sono i servizi pubblici, sanità, acqua, istruzione, sicurezza, costruiti con le tasse di generazioni di cittadini per essere utilizzati in modo comunitario e poi svenduti ai privati per essere erogati solo a chi può permetterseli.
Inoltre vittime delle moderne “enclosures” sono gli abitanti delle regioni periferiche del mondo, le nuove masse di vagabondi che si recano nella “città” dell’ occidente dalle “campagne” del sud per ricreare l’ esercito industriale di riserva necessario al mantenimento di bassi salari e al perpetuarsi del conflitto fra poveri e meno poveri.
L’obiettivo di strappare le persone dall’autosufficenza produttiva e di obbligarli ad una vita regolata dai rapporti di mercato è comunque ormai stabilmente raggiunto ed è oggi impossibile sottrarvisi. D’altronde sapete benissimo che fine fa chi rifiuta di andare a lavorare per guadagnarsi pane, cellulare e tv al plasma: diventa un vagabondo.

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