Titolo: Pace: notturno in jagd
Fandom: FFXII, ma lo sto facendo sbagliato
Personaggi: Vaan, Penelo (vedi riga sopra)
Rating: Verde
Parole: 1678
Genere: gen, malincofluff
Riassunto: Nei cieli di Ivalice, le aeronavi si librano fin dove la magia le sorregge: quel che la guerra brucia, nemmeno i secoli restituiscono. Nei cieli della mente, la voglia di libertà inizia a riconquistare lo spazio per un paio d'ali. Il resto è jagd.
Note: Nata tempo fa per un concorso poi andato in fumo. Peccato, perché è la mia preferita fra le cose che ho scritto finora su FFXII. Spero che piaccia a voi. :)
Non avrebbero saputo dare un nome a quelle colline. “Rozarria”, declamavano le mappe dalmasche in mezzo a uno spazio vuoto come se fosse terra di nessuno e loro vi avevano puntato il timone per la sola ebbrezza del poterlo fare, per vivere sul rombo costante dei motori in cerca di un cielo più blu.
Pace: notturno in jagd
Passato il confine al calar del sole, la Bay Rouge aveva coperto miglia di nebbie e valli, pascoli e villaggi spenti coperti dal velo blu della notte. Forse già più blu.
Ora le nuvole graffiavano il cielo in lunghe striature parallele che iniziavano a colorarsi dei primi cenni di luce del nuovo giorno. Gli scarichi della nave tracciavano un'altra riga, più bassa e sottile, che il vento contrario lasciava intatta a marcare il suo passaggio. Il canto che si spandeva dalla cabina di pilotaggio veniva disperso nell'aria tersa del primo mattino.
Vaan si svegliò sentendosi ancora addosso sogni confusi: il passato si popolava di fantasmi, tutto morto, tutto di un grigio fitto dominato da una voce eterea alta e melodiosa.
D'improvviso non vedeva nulla e la voce era diventata quella di Penelo. Si stropicciò gli occhi e si alzò barcollando.
Penelo cantava a occhi socchiusi, in piedi sotto la cupola di vetro della cabina, accennando piccoli passi di danza ai sobbalzi del ponte. L'unico faretto acceso sembrava illuminare solo lei, come una calda luce della ribalta.
“Rubi le stelle, Penelo”, disse Vaan fermo sull'ingresso, spalancando gli occhi e allungando l'ultima sillaba in uno sbadiglio.
Abbassando di colpo la voce fino a finire la strofa in un sussurro, la ragazza si voltò a salutarlo. “Non dire sciocchezze,Vaan. Vieni a vedere, piuttosto”, disse invitandolo con un gesto a seguirla vicino al vetro, “guarda in alto! Stiamo correndo insieme a una flotta di navi invisibili...”
“Chi è che dice sciocchezze, ora? Wow”, commentò studiando il fascio di linee che li sovrastava. “E stiamo perdendo! Più potenza a quei motori, navigatore!”
“Farò del mio meglio, signor capitano”, rise. “Ti ho svegliato? Non pensavo, era una canzone per una notte così bella, ma voleva restare fra me e lei.”
“Sì”, sbadigliò Vaan d'istinto, stupito dall'espressione di disappunto che si stava dipingendo in faccia all'amica. Aveva detto qualcosa di male? “Ma sono contento di averti sentita”, aggiunse in tutta fretta per sicurezza. “È una bella canzone. Non ne cantavi, prima.”
“Avevo il raffreddore, scemo.”
“Non un-mese-prima, quattro-mesi-prima, scema. Quando eravamo in viaggio.”
“Scemo tu, in guerra non si canta. Non canzoni piccole, almeno, non quando sei un soldato. Torna a dormire”, lo scostò con una gomitata, “l'alba non ti si addice. Siamo in automatico, controllo io la rotta.”
Vaan sbadigliò un ringraziamento e arretrò a tastoni lungo il corridoio, con la testa incassata per evitare i cavi che ancora pendevano dal soffitto già basso, fino a tornare ad arrampicarsi sulla cuccetta e abbandonarsi alla ninna-nanna che veniva dall'ala alla sua sinistra. Le battute dei pistoni, l'aria che sibilava sulle paratie e il brusio armonioso dei campi di forza degli anelli glossair erano il suo canto di libertà: si sentì scendere quella melodia nella pelle e si addormentò abbracciato al cuscino con un sorriso.
“E... Vaan? Un giorno andiamo a rubarla davvero, una stella”, sussurrò Penelo quando si fu allontanato.
Nel sogno era tornato in cammino in una distesa grigia, un mondo di possibilità e desideri. Non in cammino, allora: in volo, sentendo il metallo e la magicite stringersi attorno alla sua carne in quella che solo in un sogno sarebbe passata per un'aeronave. Nel sogno, bastava. Era se stesso e al contempo quello che voleva diventare e quello che voleva diventare - e poteva farcela, in volo - erano le stelle di quel cielo, una luce accecante con la sua corte. Lui che era stato un ragazzo di strada poteva entrare a far parte di quel mondo sospeso, fare alla guerra, a suo modo reggere lo strascico alla sua regina che aveva scoperto essere così vicina e vibrante e impossibile.
Anche nel sogno, “fare alla guerra” si erodeva fino a restare solo e ineluttabilmente “guerra”. Si trovò costretto da cavi, ferro, catene, che erano tutto quello che non capiva, la politica, le necessità - o forse più simili a barriere al contrario, brutture che gli toglievano spazio di manovra fino a lasciargli un'unica strada, in circolo, che non portava da nessuna parte. Fino a fermarsi del tutto in un bianco abbagliante che iniziava ad assomigliare troppo a una stanza di ospedale, bianchi i muri, bianco il letto, bianco il camice e no Reks no. Restava fermo in aria, incapace di andare in su o in giù.
Non c'era più magia sotto le sue ali.
Rimanevano le stelle sopra la sua testa, splendide e immobili e oltre il suo livello. Avrebbe voluto ancora raggiungerle: si tendeva, nel vuoto, sforzando ogni muscolo. Ma le vide grigie e morte e poi più nulla.
Quando si svegliò, il sole di mezzogiorno filtrava da oltre un pezzo di cuoio malamente affisso sull'oblò. Vaan strizzò gli occhi per abituarsi alla luce e si obbligò ad aprirli del tutto, scostando il cuoio e concentrandosi sul blu delle coperte chiazzato ai bordi d'olio scuro, sull'acciaio impeccabile attorno al vetro, sul rosso acceso del giglio di Galbana che spuntava dal collo di una bottiglia legata, inchiodata e incollata a un'asse sopra i suoi piedi. Scrollò la testa. Solo quando tornò a sentirsi colorato e vivo si mosse dal letto per scacciare il sonno residuo, col tranquillo rito di ogni mattina dacché aveva deciso di poterselo permettere.
Non sapeva quando si sarebbe abituato a poter scegliere. Sperava mai.
Strisciò quindi giù dalla branda fino alla piastra da cucina, attivò la magicite che la alimentava e restò a osservarla trasognato mentre si scaldava, svuotando del tutto la mente nel tentativo di esorcizzare le ultime propaggini del sogno. Buttò le bacche tostate dello tsai in un pentolino pieno d'acqua e tornò ad aspettare. Finì per sentirsi troppo vuoto e troppo poco Vaan. Calciò qualcosa e si fece male a un piede e si sentì pieno di male a un piede e un po' più Vaan. Il mondo però restava fragile, come se la pace in cui stavano volando fosse poco più che un paravento sugli orrori passati, e continuava a sembrargli sul punto di rompersi e tornare a costringerlo a terra.
Penelo lo trovò seduto sui gradini di poppa, con lo sguardo fisso sull'orizzonte azzurro e le gambe a penzoloni oltre la ringhiera, tenute sollevate dall'aria veloce sotto di loro. Aveva in mano una tazza fumante e combatteva meccanicamente con la mano libera affinché le ciocche di capelli in balia del vento non finissero alternativamente sugli occhi, a solleticargli il naso o a sguazzare nello tsai; sicuro era che, nonostante i suoi sforzi, dietro alle orecchie non sarebbero rimaste. Preannunciandosi con una pedata amichevole, si chinò a rubargli la tazza e gliela restituì subito con una smorfia al sentire la bevanda così dolce che sembrava densa come zucchero sciolto.
“Vaan! ...ecco dov'eri”, corresse all'ultimo stabilendo che, di tutte le abitudini grandi e piccole da rimproverargli ogni giorno, la tendenza a rendere gli infusi pappette imbevibili si classificasse troppo in basso per curarsene davvero.
“Volevo prendere una boccata d'aria”, rispose senza voltarsi.
“E, considerato quello che hai combinato all'assetto del nostro decollo l'ultima volta, sei venuto qui dietro dove non puoi far danni...”
“Non è colpa mia se chi ha progettato questa bellezza ci ha messo dei finestrini apribili. Mi sono limitato a...”
“...a non richiuderli prima di partire. Non è mai colpa tua tranne quando hai ragione, certo, certo. Come fai a stare con le gambe così all'infuori? Non ti fai male?”
“Volevo sentire l'aria”, mugolò.
Gli cinse le spalle con un braccio. “Dai che prendi freddo. Oh, Vaan. Ti manca, vero?”
“Chi?”
“Non fare il finto tonto.” Penelo aggrottò le sopracciglia e mise il broncio, indurendo i tratti del suo viso solare. Si scostò la frangia sulla destra e portò con sussiego le sue treccine in avanti, come se fossero lunghe ciocche ribelli. Sfoderò una spada immaginaria e restò indefessa a puntarla all'orizzonte. “Guardavi il cielo come se ci fosse una fetta vuota a forma di lei”, disse concludendo la sua imitazione.
Vaan sbuffò. “A te no?”
“Sì, tantissimo. Ed è sempre la nostra regina.”
“E continua a non essere libera...” Allungò una mano come a salutare la silhouette che davvero sentiva ancora chiamare nel cielo, il loro centro di gravità di quei giorni difficili. Doveva staccarsi da quel mondo per tornare a essere il se stesso che era infine riuscito a poggiare le chiappe sulla cabina di pilotaggio di un'aeronave e poteva raggiungere ogni continente allungando una mano sull'acceleratore. Così facendo finì per offrire nuovamente la tazza a Penelo che, pur consapevole di quello cui andava incontro, si servì di un altro sorso.
“Forse anche lei lo è più di allora”, commentò pensierosa. “Bruciava, ma era così spenta. Ma non ti sto aiutando molto, vero?”
“Forse sì”, la contraddisse. Non era solo. “Noi ce la faremo.”
“Certo che ce la faremo. Possiamo fare qualsiasi cosa, noi.”
“Nel senso - Basch. Larsa. Ashe. Anche... anche gli altri”, disse, incerto sul fare il nome dei troppi caduti che si erano lasciati alle spalle. “Non ricordano com'è svegliarsi nella città bassa senza avere nulla, guardare i palazzi e sentire tutta Rabanastre come un campo immenso a tua disposizione. Io lo ricordo.”
“E io ricordo te con sguardi che non promettevano nulla di buono.”
“La guerra era lontana.”
“Non erano sguardi da soldato, no.”
E quando anche lo erano diventati ricordavano ancora la terra viva - sentivano il cielo. Sotto a tutto, sapevano vedere il mondo in un'esplosione di colori.
“Possiamo diventare qualsiasi cosa, noi.”
I motori della Bay Rouge tornavano a tracciare le loro tinte sopra un manto grigio.
Dalla cabina di pilotaggio si spandeva un canto.
Sentivamo la mancanza delle iniziative con i prompt sparsi a manciate come grano ai piccioni? Io non lo so, ma dopo Gradi di solitudine (FFX) e In due dimensioni (original), fiere dei loro otto prompt integrati cadauna, ci ho riprovato XD Qui i prompt erano da arraffare a piacimento e in quantità variabile fra una pagina di Wikiquote, tre canzoni e tre immagini. Io ho preso le tre immagini, due canzoni e mezzo e due citazioni dalla pagina sul Soldato, picché onestamente le altre non mi piacevano proprio, per quanto mirassi al 3x3.
In ordine:
- dai gorgheggi di Angelotti ho preso
Potrai capire che
cos'è la libertà…
cos'è...
Se riesci a vivere
e fare quello che ti va…
come descrittore generico della situazione: Vaan e Penelo si sentono addosso questa nuova libertà: dopo gli anni di oppressione e dopo le difficoltà del gioco, infine riescono a seguire un loro sogno e andare dove vogliono sulla loro nave. - Anche il detto italiano “I migliori soldati vengono dall'aratro” mi ha fatto da base, in un'interpretazione un po' personale di cosa sia un “miglior soldato”: secondo me, è quello che uscito dalla guerra riesce a ritrovare o a rifarsi una vita, scrollandosi di dosso le sue brutture. Vaan e Penelo non vengono propriamente dall'aratro ma sono comunque gente semplice e nella fanfic ritrovano in fretta (relativamente parlando) i loro colori dopo il grigio della guerra.
- La citazione “I soldati sono cittadini di una grigia terra di morte”, per l'appunto, descrive il passato recente e ricorre in un discorso e, graficamente, nel sogno di Vaan.
- L'immagine dell'alba con la nebbia e le strisce di nubi fa da setting puro e semplice, con le strisce che ricordano anche la scia di un'aeronave... Temporalmente, invece, mi posiziono un po' prima e parecchio dopo l'alba.
- La canzone “Small song” è quella che canta Penelo all'inizio: come dice il testo è una canzoncina piccola, inventata da lei, cantata di notte fino all'arrivo del mattino, quando ha dovuto ricominciarla da capo.
- L'immagine della donna a letto col gatto mi ha dato il sogno di Vaan: ignorando i soggetti, ho pensato a una scena a gravità zero in un bianco abbagliante.
- La canzone “Touched”, presa nel suo senso generale di “I'll never find someone quite as touched as you”, rappresenta i sentimenti di Vaan, ma anche di Penelo, nei confronti di quell'incredibile carrarmato che è la loro regina. Che è speciale. Ma proprio tanto. <3
- L'immagine della silhouette della ragazza che salta, presa nel senso di sagoma nera in mezzo a un cielo all'alba, si ricollega al prompt precedente nel mostrare quanto Ashe manchi loro - ma anche il resto delle persone straordinarie con cui hanno viaggiato, la cui assenza resta come un buco in mezzo alle loro giornate.