Titolo: Still Kicking
Fandom: Originale
Rating: Nc-17
Warning: Linguaggio, droga.
Conteggio Parole: 20000 (word)
Riassunto: Quando arrivai a Los Angeles non avrei immaginato che sarei arrivato a tanto. Quando sono arrivato a Los Angeles non aspiravo neanche a sopravvivere, in effetti. Però c’era qualcosa che mi buttava dentro quella città caotica, qualcosa che mi aveva spinto ad andare verso un mondo nuovo e sconosciuto. Era qualcosa che mi scorreva dentro, qualcosa che mi urlava di correre, arrampicarmi su ogni muro e far vedere a tutti di cosa ero capace, chi sarei potuto diventare. Era l’unica cosa che mi costringeva a cercare un modo sempre diverso per far battere il mio cuore ogni giorno.
Era la musica.
(Nota: la canzone “A million little pieces” ha un testo tratto da “In un milione di piccoli pezzi” di James Frey.)
Decidemmo così di tirar fuori dal cassetto la roba scritta da Zack. Alcuni dei suoi pezzi erano davvero sorprendenti, e quando li provammo risultarono essere tecnici e veloci: difficili.
I suoi testi parlavano di quella dissolutezza così comune nelle canzoni di quegli anni; una in particolare, “Shockin’ Flashin’ Pink”, era un vero e proprio inno alla pelle lucida, ai lustrini e al trucco che facevano parte della “scena”, così come l’aveva chiamata Rave, ma che in loro sembrava così radicata da essere diventata in parte quotidianità. Ed era questo che si leggeva nelle lyrics di Zack: la loro disincantata esistenza fatta di liquori scadenti e sogni che sfumavano da chissà quanto tempo.
Fra i testi di Zack, uno mi aveva colpito particolarmente, mi aveva ricordato tanto le canzoni di Keith, la loro malinconia e a volte la loro stridente disperazione, che doveva essere capita, letta dentro una melodia hard n' heavy. Il pezzo s’intitolava “A Million Little Pieces” ed era molto particolare. Un giovane chiedeva ad un vecchio di aggiustare qualcosa di rotto, rotto in un milione di piccoli pezzi. Era profonda, era toccante, quella canzone. Dissi agli altri che la trovavo veramente bella e che magari potevamo riprendere proprio quella per la serata. Ottenni un no secco da Keith e un sì dagli altri e cominciammo a provare “A Million Little Pieces” insieme a “Sinner”, il nuovo pezzo degli Hangover.
Più tempo provavamo più eravamo stanchi, più eravamo stanchi più avevamo voglia di soldi, come se in qualche modo potessero toglierci la stanchezza e le delusioni e le preoccupazioni.
Spendemmo gli ultimi settanta dollari per tenerci viva l’anima. Per sentirci reali ancora una volta, per essere lucidi nell’incoscienza ma consapevoli d’essere ancora vivi.
Due settimane passarono presto e noi non ci sentivamo abbastanza pronti, abbastanza bravi, abbastanza rilassati. Rimisi i pantaloni neri, Rave mi truccò di nuovo. Per un momento pensai che forse si riempivano di trucco per ingannare le occhiaie scavate e le labbra viola. Forse mettevano più eye-liner e mascara di un’attrice degli anni quaranta per mascherare i loro occhi, per mascherarsi a loro stessi. Per evitare di guardarsi dentro. Confidai a Jeff questo mio pensiero in una sera fra le nostre peggiori dopo quell’esibizione al Roxy, e lui mi disse che non era così, non nascondevano niente a loro stessi. Mi chiese perché avevo pensato una cosa del genere e io gli risposi che era perché stavo iniziando a farlo. Mi hai detto tu che devo nascondermi meglio Jeff. Salto l’ostacolo più grande. Nascondo me stesso.
Salendo su quel palco mi sentii incredibilmente nudo, vulnerabile. Non mi sentivo come al Machine Head. Non ero più sicuro.
Quando i ragazzi cominciarono a suonare e io aspettai l’attimo per cominciare a cantare le prime parole di Wasted Sound. Avevamo deciso di aprire con lei, perché ci rappresentava - ci rappresenta - ed era un modo per sentirci più a nostro agio, per rientrare in un universo già conosciuto. Quando cominciai a cantare vedevo ogni persona del pubblico: c’era chi beveva, chi fumava, chi si faceva i cazzi propri, ma nessuno sembrava intento ad ascoltare.
Volli non vedere nulla, annullare tutto. E quando strinsi il microfono, avvicinandomi tanto da poggiarvi la bocca sopra e cantarvi languidamente dentro, sparirono tutti e divenne buio.
Quando terminammo quella che per me fu più un’agonia che un’esibizione, eravamo distrutti, stanchi. Ci furono messi in mano cento dollari a testa e per un attimo sentii come un peso andare via dalle mie spalle. Rave disse festeggiamo cazzo, non ci credo che non c’è neanche una puttana…Va beh, festeggiamo lo stesso, con o senza donne ragazzi e noi annuimmo e camminammo fino a casa, senza salire su, fermandoci al pub vicino. Era un mese che lo vedevo tutti i giorni, eppure non vi ero mai entrato. Io Keith e Jeff ci sedemmo ad un tavolo sporco, con le impronte appiccicose dei bicchieri sopra e Rave ci disse sto venendo e Keith gli rispose non perdere tempo e non spendere troppo. La luce lì dentro era rossa, mi ricordava quella di casa. La cosa che mi colpì di più - e che avrebbe continuato sempre a sorprendermi - era l’odore di quel posto. Odorava di liquore, di alcol, di vino, ed era così avvolgente che era come se bastasse respirare quell’aria per cinque minuti per ritrovarsi ubriachi.
Keith disse ho mal di testa e Jeff riprese con non dovrebbe metterci tanto, Keith. Rave tornò poco dopo e Keith aveva posato la testa sul tavolo, sopra le braccia. Ma che dorme quello disse e si sedette anche lui. Keith disse non dormo coglione, ho mal di testa. E quando mai gli rispose Rave, tieni, così la smetti di lamentarti. Gli mise qualcosa in mano aprendogli il pugno con le dita e ci disse ehi ragazzi, ce li siamo guadagnati questi soldi. Sul serio, quindi che cazzo sono ‘ste facce da funerale. Siamo stanchi, gli dissi io, o almeno, io lo sono. Keith ci interruppe come risvegliandosi improvvisamente e alzando la testa dal tavolo. Chiese andiamo a casa e noi tutti dicemmo ok, saliamo e Jeff disse io vado da Cindy, stasera non è potuta venire, vado a trovarla che non stava troppo bene. Rave disse sì, a te dice che non sta bene e poi vedi chi si scopa. Mi stupì abbastanza perché Jeff fece come se non avesse sentito e uscì fuori, facendoci un cenno di saluto.
Keith scoppiò a ridere d’un tratto e disse non fare quella faccia Leslie, è solo che Rave ce l’ha un po’ con Cindy, sai. Diciamo che non gliel’ha data, ecco. Io scoppiai a ridere e Rave disse se parliamo di quelle che non l’hanno data a te, Keith, allora sì che ci sarebbe da farsi quattro risate. Io e Keith continuammo a ridere e ridendo ritornammo a casa.
A casa Keith si buttò sul letto e disse beh, io festeggio lo stesso. Io ti seguo, dissi e aprii una bottiglia di whisky, una delle ultime rimaste dalla spesa precedente. Ne bevvi avidamente un lungo sorso e bruciava cazzo, bruciava da morire. Il secondo sorso è sempre più lungo, più pieno e corposo, più soddisfacente. La gola non brucia più tanto e non ti si stringe lo stomaco quando senti scendere quello che hai appena buttato giù.
Ero appoggiato con le spalle al muro ed era come se per un momento fossimo stati soltanto io e la bottiglia. Non c’era nessun altro. Non c’era nient’altro. Non c’era niente dentro la mia testa, che girava e mi spingeva a non pensare.
Voltai lo sguardo, quasi per assicurarmi che davvero fosse come pensavo. Keith e Rave erano seduti invece, stavano avvicinando la fiamma di un accendino alla punta di un affare - una pipa- di latta, lungo e dritto. Avvicinavano la fiamma e la guardavano finché non fece crack e Keith inspirò profondamente, tendendo il braccio verso Rave. Rave mi guardava e vedeva che li stavo fissando, che li stavo spiando, in un certo senso. Mi disse ehi Leslie, che c’è, ne vuoi un po’? Io volevo dire no, volevo sul serio, ma Rave si alzò percorse quel metro che ci separava e si sedette accanto a me avvicinandomi quell’affare alla bocca, poggiandocelo sopra. Io posai a terra la bottiglia vuota per tre quarti e aprì le labbra e sentì il sapore del ferro. Inspirai, buttai giù. Era una scarica bianca, di luce. Era come miele di menta, bollente e liquido. Tossii e Rave rise piano, pianissimo, e ritornò accanto a Keith. Caricarono di nuovo e di nuovo si sentì crack. Quando finirono i cristalli - niente acqua, niente ammoniaca né cucchiai se hai i soldi - ficcarono dentro la pipa il sacchettino di plastica che li conteneva e si fumarono quello. Non fece crack, ma a loro sembrò non importare. Keith si allungò e senza alzarsi prese una bottiglia di rum dal sacchetto di supermarket che stava a lì per terra pieno di bottiglie vuote e piene da due settimane. La aprì e ne bevve quasi metà. Io finii la mia e volli posare la testa su qualcosa di morbido. Mi girava. Mi girava la testa ed era come se le pareti la porta Rave e Keith si stessero movendo. Non pensavo a niente. Niente. Solo una cosa stava nella mia testa, rimbombava e faceva male. Una cosa sola.
"A young boy got to Old Man seeking advice. Old man, I’ve broken something.
How is it broken?
In a million little pieces.
Unfortunately I can’t help you.
Why?
You can do nothing.
Why?
You can’t gather it up.
Why?
It’s so broken that you can’t gather it up. It is in a million little pieces.”
Poi, non sentii più niente.
La mattina dopo fui svegliato da Jeff che entrava rumorosamente, sbattendo la porta. Urlò oh ma che cazzo fate ancora a letto! Sono le quattro. Io avevo un mal di testa atroce, come se sulle mie tempie entrasse e uscisse ogni secondo una fottuta baionetta. Non mi alzai e non mi mossi, mi limitai a rigirarmi e a mettere le mani sulla testa che pulsava. Rave si mise a sedere e disse ciao Jeff, la prossima volta evita di svegliarmi così male. Jeff rispose semplicemente ok ed era strano e anche Rave lo notò. Gli chiese che cazzo hai Jeff e lui rispose semplicemente e quasi tranquillamente niente Rave, solo che Cindy è incinta. Rave disse solo cazzo e si alzò un po’ malfermo sulle gambe e andò al cesso. Io mi ero seduto sul letto e guardavo Jeff, pensavo wow, Cindy è incinta. Stai per diventare padre Jeff. Pensavo che fosse una cosa meravigliosa, un figlio. Una creatura tua da amare e proteggere, da educare e crescere. Guardavo i suoi occhi verdi socchiusi e vi potevo leggere dentro stanchezza e disperazione. Pensai che non avevano neanche come farlo venire alla luce, un figlio, lui e Cindy. Pensai e mentre pensavo Rave disse che schifo ad alta voce. Noi lo sentimmo e Jeff si alzò per dare un’occhiata e mi alzai anche io. Keith era seduto per terra e si stropicciava gli occhi con le mani. La tazza era sporca di vomito secco che probabilmente era di quella notte. Era anche un po’ a terra e un po’ addosso a Keith. Sporsi il collo e vidi che dentro la tazza c’erano anche due ampie strisce rosse. Rave lo guardava fisso e gli disse ti vuoi ammazzare, Keith? Keith non rispose, socchiuse gli occhi e sospirò. Rave alzò la voce. Ti vuoi ammazzare Cristo santo? Che cazzo hai fatto ieri sera? Keith lo guardò ancora seduto per terra e disse ci siamo fatti insieme, Rave. Ci abbiamo bevuto sopra insieme. Rave non gli disse niente, si limitò ad aprire con violenza un cassetto della cassettiera e lo fece così forte che pensai per un attimo l’avrebbe sbattuto contro il muro. Prese qualcosa e disse no Keith, evidentemente non ci siamo fatti assieme. Fece cadere per terra una bustina che dentro aveva una sola pillola rosa. Urlò e Jeff mi sussurrò all’orecchio è meglio scendere a prendere qualcosa per pulire qua sopra. Pigliamo anche della birra, ti farà passare il mal di testa. Rave urlava e io non lo sentivo neanche più. Uscii con Jeff e ci chiudemmo porta ed urla alle spalle.
Cindy era al settimo mese di gravidanza e ormai non riusciva a farsi entrare più nessuno dei suoi vestiti. Noi avevamo avuto un discreto successo al Roxy quella sera di quattro mesi fa, e da quel sabato avevamo girato un po’ tutti i pub e i localini dalla non ottima reputazione di Los Angeles.
Ci trovavamo con circa 400 dollari a settimana, dai quali escludevamo quelli che sarebbero stati di Jeff: lui li dava a Cindy per i medici e per la roba del bambino.
Keith vomitava sempre più spesso e qualche volta - quando buttava giù troppe cose insieme, magari con un goccio di whisky a coronare il tutto - veniva giù un po’ di sangue; qualche volta aveva perso conoscenza.
Sia per una sbronza violenta che per uno svenimento da crack e cocaina, lui e Rave litigavano furiosamente, o meglio, Rave urlava addosso a Keith e Keith lo faceva di rimando.
Più soldi tiravamo su più Keith stava di merda e ci toccò d’annullare anche un paio d’ingaggi da 200 dollari a testa.
Io, dentro di me, ero ancora lo stesso, il Leslie che s’era esibito al Machine Head, terrorizzato ma coi brividi d’eccitazione lungo la schiena. Bevevo di più - molto di più - e ogni tanto non dicevo no ad un po’ di coca, ma nient’altro.
Andavo a letto con Harley e nel mentre pensavo a Leslie, anche se Elko andava piano svanendo e probabilmente sarebbe andata via se Leslie e Jeff non l’avessero tenuta ancorata alla mia testa.
Fra noi le cose non andavano benissimo. Non avevamo scritto più nulla e avevamo tirato fuori ogni singolo pezzo di Zack quando era stato necessario. Provavamo sempre meno e sempre più spesso venivamo illusi con la promessa di un discografico che sentendoci avrebbe voluto farci registrare un EP. Non c’era mai stato nessun discografico. Non sapevamo nemmeno che aspetto potesse avere uno di questi tipi.
Rave era sempre più in giro e sempre più spesso lo trovavamo disteso e sbronzo sul “vialetto di casa”.
Jeff era sempre più pensieroso e distante. Con Jeff parlavo. Avevo scoperto che non era il tipo che credevo. Era realista, intelligente, e avrei osato definirlo molto più adulto di noi. Ci voleva bene, anche se non lo dimostrava. Almeno, noi non lo ricordavamo mai, perché é sempre un’impresa riconoscere la faccia di chi ti tiene la testa quando ne hai più bisogno e ricordarlo il giorno dopo, ma dentro di me - e dentro i frammenti di ricordi ubriachi - quella persona era proprio Jeff.
A Jeff avevo raccontato di Elko, di Leslie e di quell’amico così importante dal suo stesso nome. Lui aveva evitato di parlarmi della sua adolescenza, dicendomi solo d’essere arrivato sette anni fa a Los Angeles, su un treno, e d’avervi incontrato sopra Rave. Erano entrambi diciannovenni, erano scesi insieme perché in tre giorni di treno avevano scoperto d’avere molto in comune - la musica, specialmente - e avevano deciso di muovere insieme i primi passi in questa città sconosciuta. Mi aveva detto di come girata la stazione avevano trovato un ragazzino mezzo morto d’eroina nel bel mezzo d’una strada, di come l’avevano portato in ospedale e che se fossero arrivati solo due minuti dopo quel ragazzino sarebbe morto. Non mi aveva detto chi fosse, non ce ne fu bisogno: l’avevo ben chiaro da me.
Io e Keith non parlavamo più molto, non che lo facessimo tanto da quella prima notte lì con loro.
Ci limitavamo soltanto a “ciao” da qualche settimana ormai, quando, una sera che tornavo dopo aver scopato ed essere stato buttato fuori da Harley sentii Keith più vicino a me di quanto non avrei potuto mai immaginare.
Ero entrato in casa nervoso e stanco, desiderando magari aprire una bottiglia di vodka e finirla in fretta. Ringraziai in un primo momento che non ci fosse nessuno dentro ma sentii dei rumori e andai al cesso per vedere. Keith stava aggrappato alla tazza con forza. Mi avvicinai, mi inginocchiai accanto a lui e senza dire una parola gli spostai i capelli, tenendoglieli insieme alla testa e alle spalle, perché veniva scosso da conati davvero violenti e anche quando smise di vomitare continuava a piegarsi in avanti come se stesse continuando a farlo, gemendo un po’, ma davvero poco, di dolore.
Lo guidai ad appoggiare le spalle al muro e lo osservai sempre in silenzio. Non sapevo così fare se non guardarlo così, con gli occhi chiusi, il viso pallido, le labbra viola e socchiuse e delle gocce di sangue agli angoli della bocca e sul mento. Mi alzai e bagnai una pezza e avvicinandomi gli pulii la bocca e lui, avendo aperto gli occhi, mi guardava vitreo ed inespressivo. Stavo per muovermi per sciacquare la pezza, ma lui si buttò addosso a me, stringendomi così forte da farmi quasi male. Io non avevo capito e non sapevo che fare, così anche se titubante ricambiai l’abbraccio e lui pianse sulla mia spalla per quelle che mi sembrarono ore fin quando smise e capii che in realtà si era semplicemente addormentato.
Lo portai di peso a letto e nonostante fosse più alto di me mi sembrò leggero. Mi sedetti e poi mi addormentai a mia volta.
Mi aveva svegliato proprio la voce di Keith, ed era ancora notte.
- Vengo da Sacramento. Mia madre si chiama Gloria, è italiana. Sono un vero figlio di puttana, Leslie, sai? Un figlio di puttana bucomane che ha cominciato a dare eroina a suo figlio di dodici anni. Sono otto anni che ho scoperto che se vuoi farti basta un sacchetto della spesa, Leslie. Se questo l’avesse saputo mia madre forse avrebbe evitato di scopare con chiunque la pagasse e io non sarei mai nato.
Lo ascoltavo in silenzio e senza muovermi. La sua voce era poco più d’un sussurro, ma era sicura nella sua debolezza. Sapevo che non era lucido, non mi era mai sembrato lo fosse così tanto.
Dissi non importa come nasciamo, importa cosa facciamo. E lui mi rispose Leslie, come nasciamo e ciò che influenza di più le nostre azioni. Io stetti in silenzio e lui sussurrando ancora più piano mi disse Leslie, verresti qui e io decisi di mandare a fanculo tutte le paranoie perché cazzo Keith era mio amico e se aveva bisogno di avere qualcuno vicino certo l’avrei aiutato. Così mi alzai, mi distesi a fianco a lui e questa volta mi lasciai stringere, sentendo di nuovo le sue lacrime sulla maglietta. Sentii le sue labbra premere su quella chiazza di bagnato sulle mie spalle e non dissi niente. Avrei voluto dire molte cose. Avrei voluto fare molte cose. Ma non feci e non dissi niente, addormentandomi.
Non sapevo quanto tempo fosse passato, ma una mano mi scosse e aprendo gli occhi vidi Rave inginocchiato per terra. Mi disse grazie Leslie. Avevo ancora le braccia di Keith addosso e mi stringeva sempre forte. Mi sollevai piano e andai verso il mio letto, guardando Rave distendesi, senza sfiorarlo.
Era successo altre volte, altre volte Keith era stato male sul serio. Sono stato male anche io, finendo una bottiglia in cinque minuti e vomitando tutta la notte. Mi capitava abbastanza spesso, ma quando mi riprendevo tutto andava bene, tutto ricominciava da capo. Era stata una sbronza, niente di più, pronto per un’altra. Niente che pesasse, niente che restasse.
Mi accorgevo che per gli altri però, non era così. Jeff stava male e dopo ogni volta lo vedevo sempre più stanco, sempre più carico e quasi soffocato dagli eventi. Mi parlava di questo figlio con incredibili aspettative, con grande gioia di vederlo suo, di vederlo nascere, con grande voglia di amare ed essere amati, me ne parlava e gli brillavano gli occhi d’amore e speranza. Spesso il bagliore spariva in un attimo, giusto il tempo di ricordare che non c’era modo per camparlo, un figlio, che continuando così non avrebbe mai potuto dargli tutto ciò che desiderava, non sarebbe cresciuto come avrebbe voluto crescesse. Prima di lasciare che la mancanza di speranza prendesse il sopravvento, diceva spesso voglio solo dargli quello che io non ho avuto, Leslie. Vorrei solo questo e mi fa rabbia il non poterlo fare. Non così, non per come sono io, io che non farò niente di buono della mia vita, che non ho mai fatto niente di buono.
Keith stava male e la volta dopo stava ancora più male. Stava male in modo strano, Keith. Keith non stava male solo quando vomitava, perdeva conoscenza o si piegava in due dai crampi, Keith stava male quando ti abbozzava un sorriso spento negli occhi e quando sospirava guardando in basso; Keith stava male mentre si faceva e guardava il vuoto e stava male quando ti guardava come per volerti chiedere qualcosa, come per dare risposta a tutto quello che cercava. Stava male quando guardava fuori dalla finestra e il rosso della luce gli illuminava i capelli e il profilo e ripeteva sottovoce le parole della sua “Sinner”, ripeteva che deve spiegarsi un peccato che non esiste, che deve cercare, che deve sconfiggere. Keith sembrava stare bene solo con la chitarra in mano, quando sfuggiva a tutto ciò che lo circondava, buttava la testa all’indietro e stringeva il corpo dell’unica cosa che amasse veramente, facendola vibrare e parlare e urlare al suo posto, ma questo Keith lo faceva sempre meno spesso, ormai.
Dalla sera in cui mi aveva abbracciato avevo cominciato a credere che avrei potuto fare qualcosa, qualunque cosa, per ritornare a suonare, a sentirci bene, ad esibirci senza essere presi a calci in culo dai direttori dei locali perché avevamo fatto pena.
Più pena facevamo, meno soldi prendevamo. Più pena facevamo, meno ingaggi trovavamo.
Erano circa due mesi che ci trovavamo nella situazione economica in cui stavamo il giorno in cui arrivai. Era una sera come tante, una di quelle sere in cui Jeff stava da Cindy, io a sbattermi Harley sfogando su di lei rabbia, tristezza e frustrazione, una sera in cui Rave andava in giro per scommettere qualunque altro ingaggio, una sera in cui Keith girava per le fumerie di crack della città e non ritornava a casa.
Era una sera fredda, ero particolarmente nervoso e ero stato poco gentile con Harley , quasi violento, ma non mi dispiaceva. Mi dispiaceva che mi avesse buttato fuori dopo il mio terzo silenzio alle sue domande su cosa cazzo mi passasse per la testa. Mi dispiaceva solo perché fuori faceva un freddo boia e senza quattrini non avevo molto da fare in città.
Non avevo soldi per bere, non avevo soldi per farmi di qualunque cosa, non avevo soldi per una donna. Potevo solo tornarmene a casa.
Fu quello che feci. Salii le scale fino al terzo piano, e già al secondo sentivo delle voci urlare ed indistinte, ma non capivo cosa stavano dicendo. Non mi sorpresi più di tanto, c’era sempre gente che litigava, lì dentro, a tutte le ore.
Quando arrivai al terzo piano tutto cambiò. Cambiò perché non erano indistinte, non erano sconosciute. Mi fiondai dentro e la porta era - come sempre - aperta.
C’era Rave che urlava. Urlava Keith cazzo Keith, basta, ti prego cazzo, ti prego e Keith stava inginocchiato per terra, Rave in piedi dall’alto gli teneva ferme le spalle e in qualche modo le mani, perché Keith cercava in tutti i modi di graffiarsi, di schiaffeggiarsi, continuava a dire levameli di dosso Jake, levami questi cazzo di schifosissimi insetti di dosso! Levali, levali! Aiutami! Rave lo pregava di smettere di graffiarsi, di smettere di urlare perché non c’era nessun fottuto insetto addosso a lui, e lo teneva fermo. Quando entrai di soppiatto Rave mi guardò sudato e stanco e disse aiutami Leslie io mi avvicinai a lui e presi Keith per un braccio, cercando con Rave di trascinarlo a letto. Keith mi guardò sudato più di Rave e con i denti che battevano da far rumore, la faccia graffiata a sangue e mi disse non li vedi Leslie, non lo senti? Io non c’è niente, Keith, non c’è niente. Lui diede uno strattone davvero forte a Rave e mi prese il braccio con entrambe le mani. Non le sentite? Non le sentite le pareti? Come cazzo fate a non sentire niente! Rave staccò Keith dal mio braccio e gli prese le spalle, tenendogli il mento con una mano guardandolo dritto negli occhi e urlando come mai l’avevo sentito urlare in vita mia noi non sentiamo niente, non vediamo niente perché non c’è niente, Keith! È solo il tuo cervello fottuto! Solo il tuo cervello finito, coglione! È così che vuoi morire, Keith? È così cazzo? Vuoi andare all’Inferno delirando e sentendo ogni cazzo di pezzo di fegato che ti rimane salirti in gola? Rave tolse la mano da sotto il suo mento. Lo schiaffo fu così forte da risuonare per tutta la stanza. Keith lo guardava fisso immobile. Fu tutto un secondo e io non capii, in un primo e lungo momento. Vidi solo Keith avvicinarsi, avvicinarsi di molto e velocemente, e Rave spingerlo via con una manata subito dopo, facendolo cadere seduto sul letto. Keith aveva lo sguardo lucido. Era troppo buio per vedere il colore dei suoi occhi. Mi sentivo fuori posto. Mi sentivo un estraneo, di nuovo. Mi sentivo come se stessi spiando dal buco di una serratura. Rave disse scusa, lo disse forte. Keith si distese e si passò le mani ancora sulla faccia, dicendo piano, senza urlare, senza dimenarsi per favore, Leslie, fai smettere queste pareti. Si avvicinano. Fanno un rumore insopportabile. Non dissi niente. Mi limitai ad osservare Rave spostargli le mani dal viso che stavano nuovamente grattando ferocemente - scacciando via gli insetti - e tenergli i polsi insieme, fermi. Gli diceva piano sta fermo, Keith. Io dissi non c’è niente che io possa fare, vero Rave? e lui disse se ti rimangono un po’ di spiccioli va a prendere una dose di coca. È questo che gli fa vedere ‘ste stronzate. Keith tremò violentemente ma Rave lo teneva fermo e lui era troppo debole ormai per ribellarsi. Andai di là, aprii la cassettiera e presi quindici dollari, che non sarebbero serviti a molto, ma era un qualcosa.
Uscii silenziosamente e pensavo. Pensavo che non avevo mai visto qualcuno dare uno schiaffo con una tale disperazione negli occhi. Con la morte nel cuore.
Quando tornai dentro, ore più tardi, Rave era seduto contro una parete, con la testa fra le mani. Keith dormiva forse, forse era svenuto, forse era stanco. Mi sedetti appoggiato alla parete di fronte, non dissi niente. Lui parlò.
- A volte penso che non dovrei… non dovrei essere così. Non dovrei essere così, Leslie. Ma non posso farci niente. Non posso sul serio. È una stretta, una morsa, una tortura, lo è provare a non esserlo ed esserlo. Non dovrei. Mi fa del male.
Io non gli risposi, concordando col silenzio che non avrebbe dovuto essere così. Ma per cosa stesse quel così, non lo sapevo, non riuscivo a capirlo. Non volevo capirlo.
Passarono due settimane senza particolare sconvolgimento. Avevamo ottenuto un ingaggio alla periferia della nostra periferia per meno di cinquanta dollari a testa e facemmo così schifo che ringraziammo di averne avuti venticinque.
Quella sera Harley era fra il pubblico, come ormai faceva spesso. Dopo la nostra dissacrante esibizione mi aspettò fuori e mi baciò quando mi vide.
La strinsi delicatamente, alla vita, le sue braccia intorno al collo mentre mi baciava. Avevo smesso di pensare a Leslie quando stavo con lei; adesso nei miei pensieri c’era Harley, o meglio, il corpo di Harley. Non avevo mai pensato ad Harley come una persona con cui poter parlare, con cui poter cantare, come Leslie. A volte provavo tenerezza per lei, specie quando le buttavo addosso nel peggiore dei modi tutto il mio nervosismo e poi la sentivo piangere sul cuscino, magari aspettando che le chiedessi scusa e la consolassi. Non lo feci mai.
Quella sera, come quasi tutte le altre, mi aveva invitato a casa sua. Io non le dissi di no, e mi divisi così dagli altri. Jeff andava a dormire da Cindy ormai, tutte le sere. Lei era all’ottavo mese di gravidanza e Jeff non se la sentiva mai di lasciarla sola tutto questo tempo, di notte soprattutto. Rave e Keith proseguirono insieme, ma io ero più che sicuro che si sarebbero divisi strada facendo; da quella sera di due settimane fa non s’erano più rivolti la parola. Si limitavano a sguardi tristi e rassegnati, entrambi.
Camminavo abbracciato ad Harley come se la amassi. Camminavo abbracciato ad Harley e dopo tanto tempo pensai a casa. Ci pensai così intensamente che smisi di camminare, smisi di camminare e girando intorno lo sguardo il cielo diventò terso e limpido, le strade bucate e gli angoli pieni di terra rossa. Harley chiedeva che cazzo mi era preso, io le dissi Harley, ti raggiungo subito. Aspetta qui, ok e lei annuì semplicemente, senza pensare, senza osservare. Camminai verso uno sportello di plexiglass all’angolo della strada. Cercai un quarto di dollaro nelle tasche, lo trovai e lo feci scivolare nel corpo dell’aggeggio. Alzai la cornetta e feci il numero. Non mi importava se erano le tre di notte, non mi importava di nulla. Quando sentii qualcuno rispondere, quella voce assonnata e dolce, sorrisi e il mio cuore fece un tuffo.
- Pronto…
- Ciao…
- Sei tu? Eric? Sei tu?
- Ciao mamma. Scusa l’orario, lo so che dormivi.
- Non importa, tesoro. Non importa. Non importa. Non importa.
- Ok, non importa. Va… tutto bene?
- È tutto come sempre, Eric. Tutto come sempre. Mi manchi, amore mio. Mi manchi. Mi sento così sola, senza di te.
- Tornerò. Ti verrò a trovare, prometto. Non so adesso, non so quando. Ma verrò. Mi manchi anche tu.
- O tesoro, cosa fai? Cosa… è come ne parlavi, Los Angeles?
- No mamma. È diversa, è quasi… una trappola. Ma io sto bene, vivo bene.
- Non mentirmi, Eric.
- Non lo farò più. Mamma… come sta Jeff?
- Jeff sta bene.
- Non mentirmi, mamma.
- Torna. Abbiamo tutti bisogno di te.
Serrai le palpebre, mi morsi il labbro forte. Chiusi il telefono, di scatto. Non volevo sentire altro, non volevo che casa entrasse di nuovo dentro di me, mi sembrava di tradirla con quell’amante possessiva che era Los Angeles. Mia madre, Jeff. Ricordi che mi erano sembrati quasi un sogno durante quei mesi, un bel sogno al quale aggrapparmi quando ne sentivo il bisogno, una nuvola.
Harley mi chiamò a gran voce, mi chiamava da un po’, ma era come se non l’avessi sentita. Quando le tornai vicino mi chiese a chi avevo telefonato e io le risposi semplicemente a casa. Lei capi forse, o forse non capì proprio niente. Fatto sta che non parlò ed era proprio il silenzio quello che desideravo.
Arrivammo a casa sua, ci spogliammo veloci e finimmo sul suo letto. Forse le facevo male, forse la stavo trattando male. Non mi importava.
Quando venne, mi strinse forte e disse che mi amava. Cercai di farle male in tutti i modi, per sentirmi dire ti odio Leslie, mi fai schifo, ma lei continuava a sussurrarmelo all’orecchio, ti amo, ti amo, ti amo. Era terribile ed era meraviglioso, era rivoltante ed era opprimente.
Quando le caddi addosso non troppo gentilmente lei mi abbracciava ancora, forte. Mi spostai dall’altro lato del letto, accanto a lei.
Mi si accoccolò addosso, con la testa sul mio petto. Mi disse non ho mai amato nessuno prima. Sono contenta che sia tu il mio primo amore. Io non le dissi niente, lei continuò a parlare. Disse lo so che tu non mi ami, Leslie. Mi va bene così. Sul serio. Però ti prego, dimmi cos’hai. Io le dissi che non le interessava assolutamente. Lei si fece ancora più piccola contro di me e disse c’entra Keith, scommetto. Quel ragazzo ha sempre causato casini. Io ero amica di Zack, sai? È stata la sua rovina, Keith. Sul serio. Vedeva in quel coglione non so che cosa, che grande artista, che grande poeta. Zack gli voleva bene sul serio, Keith non guardava in faccia nessuno. Quando ho sentito Wasted Sound al Machine Head ho pianto, Leslie. La tua voce, quelle parole. Era tutto così disperato e così bello. Sentii sul mio petto due gocce scendere. Harley si stringeva più forte. L’ha ucciso lui. È stato lui. L’ha ucciso senza fare niente, essendo così maledettamente… Keith. Io scossi la testa e le misi una mano fra i capelli. Le dissi mi sa che non sono io il tuo primo amore, Harley. Zack è morto in moto. Keith non c’entra un cazzo, né con la morte di Zack né con me. Lei non ribatté oltre, ma i suoi occhi erano scintillanti di rabbia.
Ci addormentammo così stretti, mentre io pensavo a casa.
Fummo svegliati dal bussare alla porta. Harley pensò fossero i suoi, così mi disse di stare fermo immobile in camera. Quando aprì la porta la sentì dire oh, ciao. È successo qualcosa e un’altra voce conosciuta ma lontana o debole. Non erano i suoi, così mi alzai e infilato qualcosa andai all’ingresso.
Era Cindy. Era Cindy, era rossa in viso, con gli occhi gonfi, le guance ancora umide. Aveva una pancia enorme, si reggeva in piedi appoggiandosi alla porta. Harley le disse entra, e lei disse vestitevi e sbrigatevi, passiamo a prendere Rave. Non so dov’è, ma lo troveremo. Io le dissi piano cos’è successo Cindy? E lei guardandomi in faccia, prendendo un respiro grande mi disse con voce ferma Keith sta male. Keith forse morirà, forse no, Leslie.
Sentii come un palazzo intero crollarmi addosso, tutto sulle spalle. Keith stava male, Keith stava così male da poterne morire. Non riuscii a pensare. Dissi solo andiamo. Scendemmo giù in fretta, prendemmo la macchina del padre di Harley e cercammo Rave. Lo trovammo dove sospettavo, un pub scadente alla fine della periferia. Ci guardò arrivare tutti e tre, bianchi come cadaveri. Che è successo ci chiese alzandosi dal tavolino. Io dissi solo Keith. Rave prese un respiro, aprì la bocca e espirò come in un grido, ma dalla sua bocca non uscì nulla. Ci seguì in silenzio in macchina, andammo tutti e quattro dritti al pronto soccorso del distretto, dove Jeff stava con Keith.
Quando arrivammo c’era un casino incredibile di gente sanguinante, ferita, bruciata. Classico spettacolo da pronto soccorso, coda immensa e infermiere urlanti. Jeff litigava con una di loro. Non gli importava poi molto di un ragazzo che stava morendo con chissà quanta merda nel sangue. Ci avvicinammo a Jeff, che smise di litigare con la donna. Aveva gli occhi lucidi. Ci disse che Keith era già dentro, ma che non avevano fatto niente di quello che sarebbe stato necessario. Stavano perdendo tempo con sciocchezze inutili. A noi però non rimaneva che sederci ed aspettare. Un dottore si avvicinò a Jeff e disse lo stiamo portando in ospedale, ragazzi. L’ospedale comunicava col pronto soccorso, ma non entravi lì dentro se prima non passavi da quel luogo infernale.
Vedemmo Keith uscire in barella, con due infermiere accanto. Uscirono fuori per farlo entrare nel corridoio dell’ospedale. Ad un tratto l’infermiera con la barella si fermò. Si girò verso di noi. Mi spiace, disse. Io la guardai respirando veloce, col cuore a mille che s’era fermato e aveva ripreso centomila volte più veloce. Sentii le guance bagnarsi, ma non volevo. Le infermiere andarono via, lo lasciarono lì. Noi ci avvicinammo. Era lì, era Keith. Era uguale a qualche ora prima, solo un po’ più pallido. Era come sempre. Harley gli sfiorò i capelli con la mano. Non potevo fare a meno d’osservarlo. Sembrava tranquillo, sembrava rilassato. Non sembrava felice, sembrava solo calmo. Rave non si era avvicinato. Ci guardava da lontano immobile, con la bocca socchiusa. Ci guardammo in viso, tutti noi. Ci guardammo pallidi e sconvolti.
Quel giorno perdemmo qualcosa di importante, un pezzo di noi. Un pezzo di noi se n’era andato con Keith. Keith s’era portato via con sé un pezzo insostituibile della nostra vita, del nostro animo, cuore e cervello. Keith era lì tranquillo. Mi aveva abbracciato, mi aveva versato addosso lacrime. Avevo capito che voleva e cercava qualcosa, Keith. Cercava aiuto, cercava qualcuno che lo ascoltasse, cercava una spalla, non lo so. So solo che tutti noi, tutti, avevamo fallito. Avevamo fallito. Il silenzio intorno a noi non era silenzio ma era ugualmente assordante. Fra noi, soltanto una voce si sentì debole. Keith, disse. Disse Keith. Lo disse Rave.
Rimanemmo lì tutta la notte, seduti sui gradini di un’entrata secondaria del pronto soccorso. Nessuno di noi sembrava voler dire niente, anche se c’era molto da sentire, per tutti. Rave fu il primo a parlare, con la voce incrinata e la testa nascosta fra le ginocchia.
- Dove… insomma Jeff, dove l’hai… trovato?
Jeff non rispose subito, ma poi disse in garage. Era lì appoggiato ad un amplificatore. Nessuno gli chiese che cazzo ci facesse in garage, non c’importava.
Decidemmo di tornare a casa. Non potevamo fare niente, non avevamo modo di fare niente.
Per giorni non ci rivolgemmo praticamente la parola. Non ce n’era motivo, credo che nessuno di noi ne vedesse l’utilità. Non c’eravamo più preoccupati di nulla. Per tre giorni non bevemmo un solo goccio, nessuno di noi toccò né pillole né cristalli né polveri.
Evitavamo di guardarci, di incontrare gli sguardi. Avevamo paura di noi stessi e del fuori. Avevamo paura della mancanza e del presente.
Non lo conoscevo, Keith. Non avevo mai ritenuto di conoscerlo o di sapere chi fosse. Potevo solo vedere cosa era lui all’esterno, cosa era la sua musica. Keith probabilmente sentiva di non avere niente. C’era la musica, c’era per tutti noi. Era come se Keith buttasse dentro la sua musica il se stesso più nascosto. Pensai spesso a “Sinner”, in quei giorni. Pensai a quella canzone che narrava di peccati, peccatori e di cocci di esistenza. Pensai a quella sera in cui mi aveva abbracciato e tremavo pensandoci. Tremavo perché sentivo di non aver fatto abbastanza ricambiando un abbraccio. Probabilmente niente sarebbe stato abbastanza. Pensai a quella notte di tre settimane fa. Dopo quella sera avevo avuto addosso una strana sensazione, come d’aver raccolto, afferrato qualcosa pur non capendola. In quei tre giorni capii, era che non c’era niente da fare. Non c’era davvero niente da fare. Negli occhi di Keith avevo letto dolore e allo stesso tempo qualcosa di simile al menefreghismo verso tutto ciò che lo circondava, verso se stesso.
Al quarto giorno bussarono alla porta. In ospedale ci avevano chiesto dove abitavamo, se potevamo pagare un funerale. Noi avevamo detto no e fornito l’indirizzo, così al quarto giorno di silenzi e pensieri e sofferenza e astinenza ci trovammo davanti una ragazza giovane, in tailleur.
Ci disse d’essere dell’ospedale, ci disse che avevano fatto l’autopsia. Sentii che tutti noi eravamo rabbrividiti a quella parola. Autopsia. Ci fece vedere dei fogli. Depressione del sistema nervoso centrale. Successiva paralisi respiratoria. Sovradosaggio di Erytroxylon Coca e Ketamina.
Non lessi oltre. Non volevo sapere in che razza di stato avevano trovato il corpo di Keith, quanto erano fottuti il suo cervello il suo fegato i suoi reni e il suo cuore. Non mi interessava.
Ci disse poi che il funerale sarebbe stato organizzato dall’ospedale e che lei era l’assistente sociale che se ne sarebbe occupata. O Keith diventava un corpo in un’aula universitaria, magari da usare in una bella lezione sulle tossicodipendenze, o l’ospedale lo archiviava come “decesso di nullatenente”. Nessuno di noi voleva che Keith finisse smembrato, così venne decisa la seconda. Tutta quella burocrazia non sarebbe spettata a noi. Ma a quanto pare, eravamo le uniche persone in rapporto con lui. Nessuno sapeva abbastanza del passato di Keith da poter rintracciare qualcuno che gli pagasse un funerale da essere umano. L’assistente sociale ci disse che era già tutto pronto. Sarebbe stato il giorno dopo.
Niente preti e cose del genere, niente di niente. Noi tre, Harley, Cindy e l’assistente sociale. Era una giornata bellissima. Faceva freddo, ma il cielo era chiaro e splendeva di quel sole che illumina ma non riscalda.
Quel pomeriggio stesso Katherine decise di nascere.
Era bellissima, piccola, tonda, con gli occhi grandi ed i capelli neri. Quel pomeriggio dopo giorni che erano sembrati interminabili Rave parlò e mi ero quasi dimenticato della sua voce. Quando la sentii di nuovo però mi accorsi che era cambiata. Niente più strafottenza, niente più superbia e aggressività in quel tono. Disse è stupenda, è davvero stupenda. Lo disse mentre eravamo dietro la parete a vetri della nursery. Aveva gli occhi lucidi e si mordeva le labbra. Pensai a quando Rave mi aveva detto di non voler essere così. Non mi ero più chiesto nulla su quel “così”, nulla. Davanti alla vetrina della nursery lo guardavo trattenere le lacrime, lo guardavo negli occhi dopo giorni. Era quello che stava facendo dal primo momento. Tratteneva, tratteneva tutto. Parlai, parlai perché mi venne in mente, parlai perché tutto aveva maledettamente senso.
- Rave… hai mai pensato che…che “Sinner” fosse…
- Fosse cosa, Leslie? Non è niente. Quella canzone non altro che il frutto della mente contorta di quel coglione. Non è altro che questo. Semplicemente.
Non si era neanche girato. Aveva parlato con il viso fisso su tutti quei bambini, come incantato, e aveva risposto con voce fredda. Sembrava la solita, ma io sapevo che non lo era.
Provai a parlare di nuovo. Lui mi fermo, evidentemente mi vedeva riflesso nel vetro. Disse non dire niente, Leslie. Noi due dobbiamo fare una cosa. Noi due. Jeff non deve, non può pensarci di nuovo. È tutto finito. È tutto finito come doveva finire tempo fa. Gli Hangover sono morti, Leslie.
Il giorno dopo aprimmo la saracinesca del garage che aveva visto Keith morire. Il suono di questa parola, associata a lui, mi fa ancora impressione e mi mette ancora oggi i brividi. Rave smontò la sua batteria, disse che si sarebbe messo subito alla ricerca di un qualcuno che volesse comprarla. Era una bella batteria, doppio pedale e doppia cassa. Ci aveva speso su molti soldi. Basso e amplificatore li avremmo portati a Jeff a casa di Cindy, quella che ormai era casa sua. L’avrei riportato io. Rave non voleva, categoricamente. Dissi e della… della chitarra? Rave mi guardò duro e liquido allo stesso tempo. La tengo io. Non credo vi dispiaccia, se la tengo io. Io non dissi niente. Sollevai l’amplificatore della chitarra perché quello l’avremmo venduto e magari avremmo dato i soldi a Jeff e Cindy. Lo sollevai e sotto c’era un foglio. Aprendolo riconobbi la scrittura di Keith. Non volevo leggere, ma lo feci comunque. Era una canzone. Era una canzone d’addio. Mi infilai il foglio in tasca, attento che Rave non se ne accorgesse.
Rave riprese a parlare. S’era alzato in piedi e fumava.
- Keith amava questa cazzo di chitarra. La amava sul serio, come nessun’altro, come nient’altro. È sempre stato il suo unico amore. E dire che quando l’ha presa in mano la prima volta non sapeva manco come tenerla. Jeff aveva detto ma sì, fagli provare, che ci costa. Ha imparato da solo, sai Leslie? Totalmente, completamente da solo. La musica è stata sua fin da subito, lui c’è sempre stato dentro. C’è dentro, Leslie. La sua anima è sempre stata musica. Quando gl’è mancata la musica, gli è crollato il terreno sotto i piedi. Quando è morto Zack, è come se fosse morto un pezzo di Keith. Keith e Zack erano simili nel loro amare solo ed esclusivamente la musica. Zack non sarebbe mai morto. Keith ha fatto l’ultima cazzata di una vita di coglione.
Avrei voluto dirgli che Keith non si era mica ammazzato. Io non ci avevo mai pensato, nemmeno un secondo. Keith aveva commesso un errore, come tutti. Non avevo pensato che Keith avesse detto addio a tutti noi. A me con delle lacrime, a Rave con un bacio. Perché pensandoci adesso, ad anni di distanza, è questo quello che Rave aveva respinto con una manata. Un bacio d’addio.
In quel periodo però, l’ipotesi che Keith si fosse suicidato non aveva toccato la mia mente nemmeno una volta. Rave non aveva pensato a nient’altro. Mi ero seduto sull’amplificatore del basso. Dissi cos’è quel così, Rave. Lui mi guardò enigmatico, poi mi si avvicinò. Ho sempre odiato sentirmi così Leslie. Ora come quel giorno. Sapevo mi avrebbe fatto male. Me ne sta facendo troppo, Leslie, davvero troppo. Odio stare male, ma non posso farci niente. Vorrei non averlo conosciuto, vorrei che non me ne fosse mai importato così tanto. Vorrei che non fosse stato così. Così mi dà troppa, troppa sofferenza. Ed è orribile, Leslie. È un girarti e non vedere niente. È addormentarsi e non sentire un cazzo di motivo per svegliarsi. È non riuscire a piangere. È che lui sarà sempre il ragazzino che non sapeva tenere in mano una chitarra, che voleva scappare verso New York, lontano dalla California. È che io sarò sempre quello che non gli permetteva di andarsene. L’ho sempre fermato sulla soglia della porta, Leslie. Sempre. Questa volta non ci sono stato.
Lo guardavo mordendomi l’interno di una guancia nervosamente. Quello non era il Rave che conoscevo, era un Rave che soffriva, e lo faceva più di chiunque altro fra noi. Era un Rave che quasi mi aveva dato l’impressione di sentirsi in colpa, di prendersi la responsabilità di ciò che era successo. Gli dissi quello che stavo per dirgli in ospedale. Glielo dissi con calma e misurazione, con voce quieta e bassa. Gli dissi sei tu il suo peccato, Rave. “Sinner” è tua.
Gli dissi questo e un pugno mi colpì in piena faccia, facendomi cadere indietro dall’amplificatore. Fece un male boia. Sentivo qualcosa di liquido sotto il naso e la voce di Rave mi raggiungeva anche se urlava attutita.
- Stai dicendo che è colpa mia, Leslie? Che cazzo stai insinuando? Ma si può sapere che diamine di idea ti sei fatto di lui?
Mi asciugai il sangue da sotto il naso con la manica. Mi misi in piedi.
- Nessuna idea, Rave.
Stava per colpirmi di nuovo, ma si fermò a mezz’aria, come ripensandoci. Mi afferrò per il collo della maglia, sollevandomi di qualche centimetro. Aveva un’espressione che non avevo mai visto in lui, che non avevo visto mai in nessuno. Aveva gli occhi che chiedevano aiuto e le labbra che si sfogavano e le mani che respingevano e si sfogavano a loro volta.
Si allontanò da me di qualche passo, mi girò le spalle e continuò a smontare la sua batteria. Presi il basso di Jeff e l’amplificatore, e mi incamminai verso casa sua.
Ad aprirmi, Jeff con Katherine in braccio. Mi disse ciao Leslie, entra. Io entrai e lui disse vado a posare la piccola da Cindy, un secondo. Tornò subito dopo e io mi ero seduto su una sedia. Lui si sedette nella sedia accanto e notò soltanto in quel momento che gli avevo portato il suo strumento. Disse e così è finita, eh. Cazzo. Io dissi sì Jeff, è finita. Ma sono sicuro che questo sarà il periodo più bello della tua vita. Sorrisi pensando alla bambina, a Cindy e a Jeff che aveva una famiglia, che l’aveva e se l’era creata, l’aveva e amava le sue due donne con tutto il cuore e glielo potevi leggere dritto negli occhi, che impazziva per loro.
Prese il basso in mano e mi disse con voce triste e così finirà nel ripostiglio, io gli dissi nel ripostiglio? Non vuoi più suonare? Mi rispose dicendomi non posso, Leslie, e questo mi fa male. Ma ho una figlia, una donna, e voglio far tutto per farle stare bene. Non posso più suonare, non combinerò niente suonando. Togliendomi la musica mi si toglie una parte di me, ma non è quella che serve per mandare avanti una famiglia, Leslie. Tu… tu cosa farai?
Ero sorpreso. Non ci avevo ancora pensato, non avevo ancora realizzato pienamente che tutto fosse finito. Mi aspettavo di esibirci ancora, di provare di nuovo insieme. Ogni giorno mi svegliavo convinto che niente fosse cambiato. Mi aspettavo di essere svegliato con una scossa sulla spalla e di dovere scendere subito al garage per provare, provare e sentire sudore e caldo e musica e brividi, sentire la mia voce che graffiava le pareti e i ragazzi che graffiavano la mia anima. Non avevo pensato ad un futuro, non avevo pensato alla fine degli Hangover e la realtà mi venne sbattuta in faccia con violenza da quella domanda. Pensai alla telefonata con mia madre. Torno a casa, risposi. Torno a casa presto. Jeff mi guardò abbozzando un sorriso dall’aria stanca. Capisco che tu non voglia restare qui, Leslie. Questo posto non aiuta, questo posto ci fa ricordare ogni fottuta cosa che in realtà vorremmo dimenticare. Ce le fa salire su in gola, ce le fa strisciare sulla pelle. Va’ via da qui, torna a casa, torna da chi ti ama. Qua troveresti solo ricordi appuntiti. Quando parti?
Risposi subito, parto domani, Jeff. Disse allora è un addio, questo. Annuii e ci scambiammo un abbraccio amico, una stretta sincera. Addio Jeff. Posso andare a salutare Cindy e la bambina? Jeff mi indicò la strada e aprì una porta. Cindy stava seduta a letto con Katherine fra le braccia.
Ciao Leslie, disse. Io la salutai e mi avvicinai un po’, per guardare la piccola. Prendila, se vuoi. Le dissi no Cindy, non so farlo. Sorrise. Tutti sanno farlo Leslie, si deve provare. Prendila.
Cindy sapeva già che quello era un addio. Lo sapeva e mentre tenevo con paura fra le braccia quella creatura minuscola, perfetta e così innocente da farmi male. Pensai che fosse davvero ora di tornare a casa. Sussurrai ciao piccola Kate. Ciao piccolina. Diedi a Cindy un bacio sulla guancia e le rimisi in braccio la bambina. Quando uscii vidi che Jeff era rimasto nell’ingresso, seduto dove era prima. Gli dissi ciao Jeff. Spero di rivederti un giorno. Disse ciao Leslie, casomai ci vediamo all’inferno. Sorrisi e uscii da casa di Jeff.
Casa di Cindy, casa di Jeff, casa loro, era vicina a casa di Harley. Pensai per un momento di andare a dire addio anche a lei, ma non lo feci. Rimasi sotto casa sua, guardando il campanello. Mi dispiaceva un po’ per lei. Mi dispiaceva non averla amata, mi dispiaceva non aver potuto amarla.
Me ne andai, semplicemente. Guardai quel portone per l’ultima volta e girando le spalle me ne andai.
La mattina dopo ero alla stazione. C’era un bus che portava ad Elko, che mi portava a casa. Lo presi senza esitazione, pagando il biglietto con i venticinque dollari che mi erano rimasti. Mi sedetti in fondo. Mi sedetti in fondo e quando il bus partì e sentii il motore accendersi, piansi.
Jeff aveva ragione. Si può pensare d’aver dimenticato, si può fingere d’averlo fatto. Ma quando si ritorna a Los Angeles, tutto ti colpisce in faccia come scaglie di vetro. Dopo tutti questi anni è strano, rivedere questo sole liquido sull’oceano. È strano tornare a Los Angeles davanti ad una lapide. È stato strano rileggere dopo tanti anni le parole che hai scritto. È stato terribile perché credevo di avervi dimenticati, credevo di riuscire a sopprimere i ricordi ogni volta che i vostri volti, una canzone, un momento venivano fuori nella mia testa. Sono quindici anni che mi impedisco di pensare a tutto questo. Quindici anni che non aprivo questo foglio. Quindici anni che aspettavo di restituirtelo in qualche modo.
I've written about my inner wars,
but I could give a shit about right now,
most of me is all strength
and all of me is at war with dope
but my eyes are clear in sight
my guts are blazing,
I might have a life
I can't hide, to erase, what I've done-
last year, and the years before
It still takes assholes of all kinds
on that fact I am still clear,
Cause I should know and now I do
I'm one of them
I'm just like you
I'm just like you
A man that stands his ground with strength
Last year, and years before
Can't hide myself
I won't try
It makes me strong
It makes me strong
It makes me strong
It blows away weakness
It blows away detachment
It blows away the depression inside
It blows away the mental withdrawal
It blows that shit away.
Fine.