[ORIGINALE] STILL KICKING PARTE 1-8

Dec 11, 2008 21:28

Titolo: Still Kicking
Fandom: Originale
Rating: Nc-17
Warning: Linguaggio, droga.
Conteggio Parole: 20000 (word)
Note: Diciamo che più che note sono credits. La canzone usata alla fine della parte tredici è dei Pantera, non è mia. Non ho molto altro da dire.
Riassunto: Quando arrivai a Los Angeles non avrei immaginato che sarei arrivato a tanto. Quando sono arrivato a Los Angeles non aspiravo neanche a sopravvivere, in effetti. Però c’era qualcosa che mi buttava dentro quella città caotica, qualcosa che mi aveva spinto ad andare verso un mondo nuovo e sconosciuto. Era qualcosa che mi scorreva dentro, qualcosa che mi urlava di correre, arrampicarmi su ogni muro e far vedere a tutti di cosa ero capace, chi sarei potuto diventare. Era l’unica cosa che mi costringeva a cercare un modo sempre diverso per far battere il mio cuore ogni giorno.
Era la musica.

Quando arrivai a Los Angeles non avrei immaginato che sarei arrivato a tanto. Quando sono arrivato a Los Angeles non aspiravo neanche a sopravvivere, in effetti. Però c’era qualcosa che mi buttava dentro quella città caotica, qualcosa che mi aveva spinto ad andare verso un mondo nuovo e sconosciuto. Era qualcosa che mi scorreva dentro, qualcosa che mi urlava di correre, arrampicarmi su ogni muro e far vedere a tutti di cosa ero capace, chi sarei potuto diventare. Era l’unica cosa che mi costringeva a cercare un modo sempre diverso per far battere il mio cuore ogni giorno.
Era la musica.

Avevo deciso d’andare via di casa. Avevo diciannove anni e non ero capace di fare assolutamente nulla se non aggrapparmi a stupide passioni e desideri.
Inoltre, non possedevo nulla che non fosse qualche vestito e una vecchia Gibson dal manico un po’ storto e senza corde, unico pezzo di mio padre. La vendetti, misi un po’ di roba in uno zaino e presi il primo pullman verso una nuova vita.
Non avevo idea di cosa fare una volta arrivato a destinazione, così feci la cosa più ovvia che mi sarebbe potuta passare per la testa. Scesi dal pullman e comprai un pacco di sigarette.
Proprio in mezzo alla strada me ne accesi una e respirando una grande boccata di fumo, stetti a guardare il cielo arancione.
Era luglio, era il 1984 e io ero appena arrivato a Los Angeles.

Leslie.
La prima volta che sentii questo nome avevo trovato che fosse perfetto.
Leslie era la mia prima ragazza, avevo tredici anni e con lei non facevo altro che cantare. Leslie aveva una di quelle voci calde, corpose, nere. Lei era proprio così, con la sua pelle color cioccolato, la sua altezza improbabile e i suoi capelli lucidi e morbidissimi. Viveva accanto casa mia, Leslie; aveva tantissimi dischi che sentivamo tutto il giorno giocando ad imitare Janis Joplin.
Leslie la conoscevo da tutta la vita, Leslie mi ha insegnato a far sentire la mia voce anche fra la confusione, così come mi ha insegnato a baciare.
Ma aveva anche una famiglia solida, Leslie, un padre desideroso di migliorare le loro condizioni. Così quando ebbe l’opportunità di andar a lavorare a Detroit, portò con sé la moglie e i figli.
L’ultima volta che vidi Leslie stava piangendo, non voleva lasciarmi. Ma io le giurai che non mi sarei mai dimenticato di lei. Lei mi fece giurare di non smettere mai di cantare.
Quando vidi l’oceano per la prima volta, pensai a lei. Pensai se aveva avuto modo di vederlo, in questi anni. Quando mi ci buttai dentro ancora vestito pensai a Jeff.
Jeff arrivò con la partenza di Leslie e della sua famiglia, trasferito da una città leggendaria come Las Vegas ad una polverosa come Elko. Viveva con sua madre, una donna bionda, giovane e molto bella che, come dicevano alcuni, nella città delle luci faceva la spogliarellista.
Incontrai Jeff fuori la porta di casa, mentre fumava. Mi guardò dal pianerottolo e mi chiese se ne volevo una. Io accettai, e fumai con lui la mia prima sigaretta.
Jeff diventò subito quello che mi piace definire il mio migliore amico. Gli avevo parlato di Leslie, gli avevo detto quanto mi mancava. Mi disse che aveva un bellissimo nome, la mia ragazza. Sembrava quasi musica. Suonava il basso ed insieme ci divertivamo distruggendo i Kiss ed i Black Sabbath, insieme giocavamo a pallone sotto la pioggia per poi buttarci a terra, sull’asfalto bagnato, ridendo beati. Con Jeff mi ubriacai per la prima volta, con lui mi buttai nella prima rissa, con lui stavo ore fra l’erba a ridere e ad immaginare un futuro migliore di quello che ci sarebbe spettato fra le stradine piene di terra rossa della nostra città, con lui dividevo ogni pacco di sigarette, ogni birra, ogni idea e ogni sogno, con lui scrissi la mia prima canzone e con lui avevo progettato d’andare via verso l’oceano.
Ma Jeff aveva abbandonato ogni sogno insieme alla morte di sua madre e aveva distrutto tutto con una bottiglia di whisky. Quando gli dissi che stavo per andare, mi rispose tirandomi dietro una bottiglia vuota di vodka.

A Los Angeles i soldi finirono presto. La vecchia Gibson non mi era fruttata molto e non avevo fatto i conti con i prezzi di una grande città. Un mese dopo il mio arrivo non avevo concluso niente. Ero sempre un ragazzo non abituato alla grandezza di una metropoli e con una sola e poco sfruttabile capacità. Ero venuto a Los Angeles per coltivare il sogno che Leslie aveva fatto nascere in me, per mantenere la promessa che le avevo fatto, per dare forma alla mia vita, per viverla appieno. Mi avevano sbattuto fuori dalla stanza che avevo preso in un motel, vendetti tutti i vestiti se non quelli che avevo in dosso e contai più volte i cinque dollari che mi rimanevano in tasca. Finirono anche quelli.
E così mi ritrovai in uno slum, appoggiato ad una vetrina malmessa.
Avevo provato a far qualcosa, a cercare un modo per far soldi, o almeno, per farne abbastanza da potermi mettere un tetto sulla testa.
Ovviamente, non c’ero riuscito. Non avevo nessuna particolare dote o qualità che non stesse nella mia voce e quella, non importava a nessuno.
Per un momento pensai anche di sfruttare il mio aspetto, immaginando chissà che maniera rapida ma non indolore per tirar su qualcosa. Scartai l’idea pensando a Leslie.
Così mi ritrovai davanti quella vetrina, seduto per terra, e dovevo avere un’aria vagamente disperata, non un ottimo odore e non un bell’aspetto. Il proprietario del negozio e io scendemmo presto a patti chiari. Io facevo qualche consegna occasionale e rara e prendevo qualche dollaro.
Non è che risolsi molto, alla fine.
La notte stavo lì, disteso. Guardavo il cielo nero e cantavo e mentre cantavo pensavo di ritornare a casa, di lasciare questa città della fortuna che ormai per me era solo una leggenda.
Forse avevo sbagliato a fare i conti, forse avrei dovuto saper far qualcosa, avrei dovuto avere un’istruzione, avrei dovuto essere meno pieno di belle speranze.
Mentre pensavo a casa, pensavo a Jeff. Pensavo alla sua espressione vuota, quando seppe che stavo andando via, che avevo deciso. Più pensavo a lui più in realtà non avrei voluto farlo. Più pensavo a lui, più volevo dimenticarlo.
Forse era agosto, forse era ancora luglio. Trovai una banconota da venti dollari e non mi trattenne nessun pensiero. Comprai un hamburger, un pacco di sigarette, comprai una bottiglia di vino e la lasciai vuota per strada.

Ricordo il colore del cielo di quel giorno e probabilmente non lo scorderò mai. Lo stavo guardando. Guardavo il rosso del cielo immischiarsi al bianco delle nuvole, che diventavano rosa. Rosa liquido, rosa panna e fragole, rosa pelle di ragazza, rosa morbido caramelle gommose, rosa soffice zucchero filato, mentre il sole andava scendendo e diventando sempre più rosso, arancione.
Pensavo ancora una volta a casa, mentre vedevo il sole sciogliersi, pensavo ad occhi chiusi disteso sul marciapiede ancora caldo, con le mani sotto la nuca, quando sentii qualcosa venirmi addosso e saltai a sedere imprecando.
- Ma che cazzo ci fai così in mezzo alla strada, dio!
Guardai il tipo che camminando mi aveva letteralmente calpestato. Era alto, aveva i capelli neri, lunghissimi e lisci. Aveva la pelle olivastra, portava dei jeans stretti, un paio di stivali a punta, aveva una sigaretta in bocca e teneva qualcosa sulle spalle. Dalla sua espressione confusa capii subito che era così distratto da non avermi visto.
- Ci vivo.
- Beh, magari non stare proprio così, sul marciapiede! Stavo per rompermi una gamba, o peggio ancora…
Non finì di parlare perché lo interruppi. Avevo notato che sulle spalle portava una custodia rigida, uno strumento musicale, probabilmente una chitarra: era piccola per essere un basso e grande per qualunque altra cosa.
- Una chitarra?
- Sì, fresca d’una fottuta riparazione che m’è costata un mese di schiena rotta.
- Suoni?
- Che cazzo mi porto a fare una chitarra, sennò? Certo che sei sveglio, eh…
- E hai un gruppo?
- Senti amico, ma che te ne frega?
- Io so cantare.
- Oh, anche io, quando sono ubriaco.
- Sul serio. Scommetto che non ce l’hai un cantante, o non saresti ancora qui ad ascoltarmi.
- Ok amico, non ce l’abbiamo un cantante, e non ci interessa neanche far provare qualcuno, ok?
- Fai un’eccezione.
- Ma che eccezione! E poi, che roba canti, country?
Mi alzai in piedi. Era molto più alto di me, e sicuramente più grande. In tutta risposta schioccai le dita e, dandomi un po’ il tempo, ricordando il basso scordato di Jeff e i gorgheggi melodiosi di Leslie, iniziando ad intonare A National Acrobat dei Black Sabbath, socchiudendo gli occhi e ritornando alla nuvola di fumo che io e Jeff ci creavamo intorno quando suonavamo, allo sguardo stupito di Leslie quando ascoltammo insieme per la prima volta il rock n roll.
- Ehi amico. Com’è che ti chiami?
Mi aveva colto un po’ alla sprovvista. Non ricordavo l’ultima persona ad avermi chiamato per nome, ma non era stato qui, a Los Angeles. Il mio nome era un ricordo legato ad Elko, alla polvere, alla pioggia e agli LP rotti e graffiati. Pensavo a lei. E lei divenne il mio nome.
- Leslie.
- Leslie?
- Leslie.
- Beh, ok. Senti... visto che non hai molto da fare, a quanto vedo. Magari… insomma, mi uccideranno per questo. Mi squarteranno vivo, a portar in prova uno sconosciuto. Però amico, cazzo se sai cantare. Facciamo che ti porto con me, ok? Non è molto lontano.
Fu così che conobbi Keith e, dal primo metro di strada che percorremmo insieme, capii che avrebbe cambiato la mia vita.
Keith, Keitheen, parlava veloce, spedito, magari un po’ troppo per essere frutto della natura. Sorrideva, un sorriso grandissimo e annerito da catrame e nicotina, diceva d’avere ventidue anni, di venire da Sacramento, d’aver provato a mettere su qualcosa simile ad una band con alcuni amici incontrati in chissà che strano modo. Diceva che vivevano lì in zona, tutti insieme e che facendosi il culo un po’ alla volta riuscivano a mangiare e a trovare qualche soldo per divertirsi, e quando diceva divertirsi lo faceva sorridendo un po’ strano, come se fosse ovvio quello al quale alludeva. Diceva che al bassista forse non sarei piaciuto e che Rave m’avrebbe dato una possibilità in più per la mia bella faccia.
Io non dissi niente e lo ascoltai in silenzio mentre camminavamo e il faro che era il sole andava spegnendosi piano.
Keith aveva continuato a parlare ed era riuscito a trascinare anche me nella sua euforia dall’apparenza artificiale, facendomi ridere dopo tanto tempo. Gli raccontai della polvere del Nevada, della mia musica, del mio viaggio verso un nuovo inizio.
Era poco che camminavamo, quando, avvicinandosi ad una saracinesca, Keith diede una spinta con la spalla all’alluminio debole e qualcuno da dentro sollevo la barriera.
Dentro quello spazio piccolo e abbastanza sporco, che odorava di chiuso e di umidità, c’erano due altri ragazzi. Uno era nascosto, seduto dietro la sua batteria, l’altro era in piedi con bel Fender - così simile a quello di Jeff - in mano.
Keith mi prese per il polso e mi presentò ai suoi compagni, che non sorridevano come lui né avevano i suoi stessi occhi. Quello che era Rave, il batterista, mi guardò subito un po’ storto e mi strinse la mano. L’altro, il bassista, si chiamava Jeff. Ebbi un brivido strano, qualcosa che mi attraversò la mano quando me la strinse. Fissai quel ragazzo con insistenza, cercando di ritrovare il vero Jeff in quel tipo. Non gli somigliava per niente e questo mi rendeva inquieto.
- Allora… Leslie, ci fai sentire qualcosa o sei venuto qui per farci perdere tempo?
La voce di Rave era dura, forte. Gli risposi che no, non ero venuto per far perdere loro tempo ma per cantare. E allora canta, mi venne risposto. Lo feci, cantai una canzone lunga e melodiosa, I Can’t Quite You Babe dei Led Zeppelin. La mia voce aveva riempito lo scantinato e ogni nota sembrava rimbalzare sul muro. Presi un respiro fra le due strofe che nella canzone erano interrotte dall’assolo di Jimmy Page e, nel farlo, sentii una prima nota stonata e sentii dopo un assolo acuto di B. C. Rich, che mi sembrava doloroso ma appassionato. Ripresi a cantare e Keith mi accompagnava con la sua chitarra nera e lucida, sentii anche le prime note di basso farsi avanti e per finire, anche se mi sembrava che all’inizio fosse un suono riluttante, anche Rave si abbandonò alla musica.
La canzone aveva finito il testo e la musica, ma noi eravamo andati avanti, un po’ improvvisando, un po’ cucendo insieme canzoni sparse.
Quando ci fermammo, mi sedetti stanco su un amplificatore e sentii la voce di Jeff dirmi che domani sarei potuto ritornare, che a loro sarebbe piaciuto provare di nuovo con me.
Così il giorno dopo andai, suonammo ancora e lo facemmo per una settimana, finché Keith mi strinse la mano e mi disse “benvenuto negli Hangover”, poi mi diede una pacca sulla spalla e mi sembrava che avesse anche voluto abbracciarmi. Mi aveva ricordato mia madre, quando voleva stringermi ma non lo faceva mai perché forse mi vedeva - sentiva - troppo distante da lei.

Ero entrato a far parte degli Hangover, “dopo sbronza”: non erano un progetto serio, non erano neanche un progetto, a dirla tutta. Erano soltanto tre amici che provavano a fare insieme la cosa che più piaceva loro fare e cercavano di sopravvivere.
Avevo continuato a stare lì, dietro la vetrina, fin quando i ragazzi, tutti e tre insieme, mi proposero di andare a stare da loro, a patto che contribuissi con l’affitto, perché in tre ormai non ce la facevano decisamente più: l’affitto del garage dove provavamo era aumentato e non potevamo perderlo.
Abitavano nello stesso quartiere in cui mi ero venuto a trovare, in un palazzo non ben messo, accanto ad un pub abbastanza vuoto. Stavano al terzo piano e quando salii su trovai la porta
- la 157 - socchiusa.
Ricordo che mi guardai in torno più volte, prima di dare un leggero colpo sulla porta. Era silenzioso e la luce era spenta, dentro.
Quando bussai, la voce di Keith mi disse chiaramente di entrare.
Rimasi un po’ sorpreso. La stanza era illuminata di rosso, la luce entrava dall’insegna del pub messa proprio accanto all’unica finestra aperta.
Jeff era seduto su un materasso steso per terra senza lenzuola né cuscini ed avvinghiata a lui stava una bionda in un vestito nero. Era Cindy, la sua ragazza, sua moglie, un giorno. Ma questo non lo sapevo ancora.
Keith era seduto su un altro di quei materassi, una piazza e mezzo per evidenti ragioni di spazio, messi uno a fianco della parete sinistra e l’altro di fronte la porta. Era appoggiato con le spalle al muro e alla finestra e i capelli gli volavano indietro, illuminandosi di rosso. Rave non c’era.
- Entra, dai.
Ricordo che entrai un po’ stranito. Dove avrei dovuto stare io, se sembrava non bastare lo spazio per tre? Chiesi se era tutta lì, la casa, e Keith serissimo mi rispose di sì. Una voce conoscente mi raggiunse da destra, urlando che avevamo pure il cesso e che non si poteva volere di più.
Rave era spuntato da un ingresso senza porta e coperto da una tenda marrone nel bel mezzo della parete di destra. Mi salutò con un cenno e si andò a sedere accanto a Keith.
- Là dentro c’è anche una cassettiera, se hai roba da infilarci. Tanto lo spazio c’è. E per dormire, t’abbiamo persino procurato un materasso. Beh, veramente l’avevamo già, era di Zack… E’ lì dentro, sopra la cassettiera. Magari te lo scendi tu da là sopra, mettilo dove vuoi, poi.
Avrò avuto una faccia davvero strana, perché Rave sorrise e poi diede una spinta sulla spalla di Keith, che stava guardando dietro i materassi.
- Cazzo Keith, ancora che perdi tempo?
Keith rispose che non lo trovava. Non lo trovava! Rave si girò e si mise a cercare anche lui, quando esclamò che cazzo Keith, sei proprio cieco e pulì con il bordo della maglietta un cucchiaio. Keith mi disse se per favore potevo prendere un bicchiere d’acqua e un po’ di bicarbonato. Rave disse lascia perdere, non sai dove stanno, siediti, non stare in piedi come un coglione, e sparì in bagno, e da Jeff e la sua tipa proveniva qualche mugolio che mi sembrava di gente addormentata. Keith sbuffò e disse che certo, loro dormivano quanto volevano, tanto la loro dose se la sono fatti da qualche altra parte.
Rave si era andato a sedere, di nuovo, e stava trafficando con il bicarbonato, l’acqua e un accendino: qualche minuto dopo un sonoro crack risuonò nella stanza e i due si passarono più volte una pipa di latta.
Io m’ero seduto per terra, ancora un poco stranito dalla situazione.
- Scommetto che da bere non c’è un cazzo!
- No Rave… Dio, vuoi stare zitto? Non urlare così, mi fai scoppiare la testa!
- Quanti soldi ci rimangono?
Keith rispose che non lo sapeva, forse dieci dollari, forse cinque forse quindici e si teneva la testa con una mano, appoggiando il collo sulla finestra e buttando la testa indietro, che sembrava stesse sempre per sbattere contro l’insegna luminosa. Rave sbatté la porta gridando che andava a prendere qualcosa perché cazzo non è possibile che non ci sia mai niente da bere.
- Dio, un giorno di questi gli spacco la faccia…
Keith sollevò la testa dalla finestra e mi guardò sorridendo. Accennai anche io a qualcosa che fosse simile ad un sorriso e dissi che prendevo il mio materasso, ma lui mi guardò serissimo e disse non c’è bisogno Leslie, Rave non torna stasera. Neanche per fare rumore, ho mal di testa, e tirarlo giù da lì sopra farà un casino immenso. Io avevo annuito ancora perplesso e lui doveva essersene accorto, perché precisò che dormivo lì e domani avremmo risolto tutto.
Mi avvicinai e mi sedetti vicino a lui, con tutta l’aria che entrava dalla finestra e mi scombinava i capelli. Lui mi chiese se mi dispiaceva se si metteva a dormire, ma Rave gli faceva venire mal di testa quando grida così. Anzi sempre, tranne quando suona. Io gli sorrisi e gli dissi che non mi dispiaceva, che mi mettevo a dormire anche io perché era tanto che non mettevo la testa su qualcosa di morbido. Lui sorrise di nuovo e guardò fuori. Io lo osservavo e vidi che qualcosa non andava nei suoi occhi. Conoscevo Keith da una settimana, ma fin da subito mi ero convinto che quel ragazzo lasciasse trasparire troppo dai suoi occhi grandi e blu. Quando rideva, rideva pure una scintilla dentro ai suoi occhi. Quando rideva ma rideva di dexedrina la scintilla dentro i suoi occhi c’era e non bruciava. Quando non rideva i suoi occhi a volte sembravano specchi di lago calmo, a volte un mare in tempesta. Questa volta erano troppo bui, gli occhi di Keith. Continuava a guardare fuori e la luce rossa gli illuminava la faccia. Mormorò qualcosa che somigliava ad un brutto stronzo, poi girò lo sguardo, si sfilò veloce la maglietta e si distese, io ero già sul bordo del materasso e quando sentii il suo peso mi girai verso di lui.
- Siete molto amici, tu e Rave, vero?
Era come sorpreso dalla mia domanda. Forse credeva che non me ne fossi accorto, eppure la tensione fra loro due era presente e tangibile, sempre. Mi rispose di sì, che si conoscevano da troppo tempo per non essere amici. Io gli chiesi se era un po’ come me e Jeff. Lui sorrise e disse che anche se non sapeva chi fosse Jeff, non era in quel modo. Mi disse buonanotte ed era tanto tempo che non lo sentivo. Mi girai verso la porta e saltai in aria quando sentii il suo braccio stringermi la vita. Spalancai gli occhi violentemente e trattenni un respiro. In quel momento pensai a Leslie e capii che no, non era proprio come fra me e Jeff.
Allungai una mano verso il polso di Keith e piano, mi tolsi il suo braccio di dosso. Quella notte sognai di cantare di nuovo con Leslie. Sognai Jeff che si faceva di crack, e che mi guardava.
Keith mi risvegliò con una scossa la mattina dopo. Lui e Jeff avevano trovato Rave addormentato - svenuto post sbronza - davanti l’ingresso del palazzo fatiscente. Appena aprì gli occhi sentì la voce bassa di Rave, senza particolare nota. Ci annunciava la nostra rovina.
- Abbiamo un ingaggio, coglioni!

Provammo per due settimane, prima di arrivare al fatidico giorno del nostro primo ingaggio. Il posto non era niente di più che un localino di periferia, ma andava più che bene ed era tanto averlo trovato.
Per tutto il tempo continuammo tutti a chiederci come Rave fosse riuscito a procurarci quel daffare, ma lui si limitava a rispondere che il padrone del locale aveva perso una scommessa, e che la posta in gioco era un ingaggio in pieno sabato. Noi eravamo molto scettici, ma ci andava più che bene. Il fine giustificava qualunque mezzo.
Era la prima volta che con gli Hangover provavo pezzi originali. Erano otto canzoni, quelle che avremmo suonato, ed erano state scritte tutte da Keith. Le trovavo - le trovo - molto belle. Avevano una parte vocale molto ampia, sviluppata, che a tratti rendevo bassa e cupa, in altri graffiante e sensuale. Ogni strumento, la mia voce compresa, trovava il posto perfetto dentro quelle canzoni. Le adoravo tutte, le sentivo anche un po’ mie. Quella che preferivo però era senza dubbio Wasted Sound. Rave mi aveva detto ridendo che Keith era fatto, quando l’aveva scritta. Jeff invece mi aveva detto serio che l’aveva scritta quando se n’era andato Zack. Io non avevo chiesto oltre e avevo accettato entrambe le versioni. Tutti noi pensavamo fosse il pezzo più bello e decidemmo di suonarlo per primo, quella sera.
Arrivammo al Machine Head verso le dieci, rigorosamente a piedi. Pensai a Leslie, pensai a Jeff. Pensai che dovesse esserci anche lui con me, anche lui con me in questo viaggio faticoso che però sembrava stare dando qualche soddisfazione. Pensai che Leslie avrebbe amato essere lì, fra il pubblico, a sentirmi cantare. Pensai che dopo lo spettacolo le sarei corso in contro, l’avrei baciata e poi avremmo fatto l’amore tutta la notte.
Ma con me c’erano solo tre ragazzi silenziosi, già sudati, dalle palpebre perfettamente truccate e dagli indumenti brillanti; ragazzi con le occhiaie scavate e i denti che battevano, ragazzi che, più era il tempo che passavo con loro, più mi sembravano rassegnati e privi di voglia di urlare.
Il locale era piccolo, spoglio, ma un bel numero di gente era presente, quella sera. Il proprietario del locale era un uomo di circa quarant’anni, che ci accolse sul retro del palcoscenico un po’ improvvisato.
Quando salimmo su, il caldo era davvero atroce. Fuori c’erano già trenta gradi, ma le luci erano così vicine e così forti da bruciarmi la pelle.
Mi sentivo un po’ a disagio, il giorno della mia prima esibizione. Mi avevano detto che non esisteva farlo in jeans, così mi avevano trovato un paio di pantaloni neri, aderenti e terribilmente caldi. In mancanza d’altro da mettere che andasse bene, mi bastavano quelli: avrei cantato a petto nudo. Mi sentivo a disagio da quando Rave mi aveva preso il viso sorprendendomi e facendomi stare fermo mi aveva truccato come una puttana, così com’erano truccati anche loro. Mi disse fa parte della scena, Leslie. Lo so che fa schifo ma dopo un po’ ti ci abitui al rossetto, basta che non te lo mangi perché è amaro cazzo, amaro da vomitare. Mi aveva osservato orgoglioso del suo lavoro sulla mia faccia e mi aveva detto stai benissimo ma muoviti che se arriviamo tardi siamo fottuti.
Jeff aveva attaccato gli amplificatori e, una volta acceso tutto, le luci si abbassarono un po’ e dal suo Fender vennero fuori le prime note di Wasted Sound. Pronunciai la prima parola, “you”, e sentì una grande morsa al cuore, come se in quel momento mancasse qualcosa. Il martellare pulsante e veloce della batteria di Rave si fece avanti e anche la mia voce riempì quello spazio così piccolo. Non vedevo nulla, tutto davanti a me era buio, e pensai che forse questo non era altro che un bene: era la prima volta che cantavo davanti a tanta gente, ma era anche la prima volta che cantavo qualcosa che mi faceva venire i brividi, che salivano lungo tutta la schiena. I’ve wasted my life and with all my cheating promises I’ve burned the yours e ripresi silenziosamente fiato ascoltando la chitarra di Keith gemere un assolo fra i più dolorosi che io avessi mai sentito; urlava, gridava e si lamentava, quel pezzo, con la sola forza di sei corde.
Le altre canzoni che suonammo erano belle, erano bellissime: ma nessun’altra mi aveva fatto tremare come Wasted Sound. Questa canzone era nel cuore di tutti noi e vi sarebbe sempre rimasta. Quando di noi non sarebbe rimasto più niente, quella canzone avrebbe continuato ad echeggiare nella memoria di tutti quelli che avevano avuto modo di capire quanto per noi - per Keith - significasse realmente.
Quando, a mezzanotte, terminò anche l’ultimo dei pezzi, “Smashed”, ci ritirammo sul retro del palcoscenico. Eravamo stanchi e sudati e Rave non c’era.
Quando uscimmo dal locale, ancora stravolti e sempre più stanchi, lo trovammo già fuori ad aspettarci, cinque ragazze - cinque belle ragazze - a seguito. Disse ehi stronzi, ce le siamo proprio meritate. Le ragazze annuirono e qualcuna fra loro disse che eravamo davvero bravi, che eravamo piaciuti sul serio a tutte loro. Rave le guardava tutte e cinque insieme come se volesse sbranarle e io, che non avevo mai visto donne simili se non in qualche film guardato di nascosto e di notte con Jeff, le guardavo a mia volta. Rave disse loro chiaramente che da noi non c’era spazio per tutti quanti, così una delle ragazze, Harley, propose d’andare da lei, che aveva spazio per tutti e magari, disse sorridendo, c’avrebbe pure regalato qualcosa. Senza obbiettare la seguimmo tutti, beccandoci anche un bel po’ di strada a piedi.
Harley ci aprì la porta di un bel palazzo, meglio di tutto quello che avevo visto in vita mia. Appena superammo la soglia di casa, ci buttammo tutti e quattro sul divano, senza esitare. Rave aveva una donna attaccata addosso peggio di una ventosa, ma non sembrava proprio dispiacergli. Io vidi Harley avvicinarsi a me e sedersi sulle mie gambe, facendo aderire i nostri petti. Mi disse lo sai Leslie, che sei proprio carino? Io le risposi baciandola, infilando le mani fra i suoi capelli castani e morbidi. Lei si spinse un po’ su di me e io le strinsi i fianchi. Le mie mani si facevano strada da sole sotto la sua maglietta colorata e in quel momento pensai a come tutto quello era stato diverso con Leslie, pensai a lei e per un momento mi sembrò d’avere su di me il suo corpo morbido invece che quella ragazza bellissima e magrissima. Pensai che l’unica volta in cui litigai con Jeff era stata per una ragazza, Miley, solare e simpatica che fisicamente somigliava tanto ad Harley. Ero pazzo di Miley, ma lei lo era di Jeff e me ne feci una ragione perché cazzo il mio migliore amico era più importante. Sentivo addosso a me pezzi di Harley dovunque, la sua bocca e le sue mani, e girai la testa intorno alla stanza illuminata. Rave, Keith e tre delle amiche di Harley non c’erano più, ritirati in privato. Jeff e un’altra tipa stavano ancora sul divano, e lui reggeva una bottiglia ambrata in mano. Harley mi sussurrò andiamo di là e io annuì, alzandomi e prendendola per mano mentre mi guidava verso la sua stanza.
Passando buttai un’occhiata al balcone. Keith e una bella bionda erano lì.
Non ci feci caso più di tanto e mi lasciai condurre da Harley sopra il suo letto.
Quando io e lei ritornammo in salotto, erano già tutti lì e tre bottiglie di liquori vari erano vuote per terra. Io e Harley ci sedemmo vicini e una delle sue amiche aprì un’altra bottiglia e disse per stasera ve la regaliamo, ragazzi, siete stati carini con noi, e tirò fuori un pacchetto davvero piccolo di bianco sporco, quasi beige. Jeff trasalì e disse no ragazze, noi non ci facciamo di ero, proprio no. Loro dissero quasi in coro che avevano solo questo e che se non c’andava bene potevamo pure alzarci il culo e provare a cercare un po’ di coca ancora così presto. Rave e Jeff si guardarono rassegnati e dissero va bene e io mi sorpresi dalla facilità con cui avevano cambiato parere. Pensai a Jeff, pensai al suo sguardo prima della mia partenza. Pensai alla prima volta in cui l’avevo trovato disteso nel suo stesso vomito con due bottiglie di vodka accanto. Pensai questo e, afferrata la bottiglia che avevano appena aperto, ne vuotai metà in una sola volta. Le ragazze stavano preparando le dosi ma Jeff disse lascia stare, di bucarmi non ho voglia e ne sniffò un po’ sul tavolino. Le ragazze ci guardarono sorridendo e dissero ah, e così non l’avete mai fatto, non fa nulla, facciamo noi. Una di loro si avvicinò a Rave e gli strinse il braccio con una cinta e dopo aver trovato quello che cercava fece quello che doveva, mentre il viso di Rave assumeva una piega ogni attimo diversa e per un momento pensai di avervi letto anche la paura. Keith lo guardava fisso, tenendo le mani fra i capelli della ragazza bionda con cui era prima, tenendosela sulle ginocchia e aveva due tipe vicinissime. Tutte quelle ragazze lì dentro sembravano voler proprio mettere le mani addosso a Keith e chiamale stupide, era sicuramente lui il più bello fra noi. Rave aveva chiuso gli occhi e tremò con forza quando li riaprì, respirando veloce. Harley si preparava il braccio e mi chiese se io non provavo. Io le risposi di no. Le ragazze dissero che ne era rimasta per un altro buco solo. Keith disse provo io e la ragazza che gli stava in braccio disse fa fare a me. Rave la scostò con una manata non troppo gentile e disse no, a lui faccio io. Lei rispose ma non sai come si fa e lui non mi importa, faccio io.
Si avvicinò a Keith e gli afferrò il braccio, passandoci sopra le dita più volte. Glielo strinse e gli tremavano le mani. Keith gli annuì come se lui gli avesse domandato qualcosa e Rave lo fece e doveva avergli fatto pure male, perché Keith si morse il labbro inferiore con forza. Chiuse gli occhi con le labbra socchiuse e li riaprì poco dopo.
- Cazzo, anche meglio del crack…
Rave disse no, mi sento a terra io. Keith gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio qualcosa che gli fece cambiare espressione per un attimo.
Le ragazze ci dissero all’improvviso che non potevamo più rimanere perché cazzo, Harley non viveva mica sola in una casa così e un po’ infastiditi ce ne ritornammo in quella topaia che chiamavamo casa.

Mi sembrava di dormire già da molto quando mi parve di sentire tutti i vetri del quartiere andare in mille pezzi e mi svegliai di soprassalto. Stavo sognando qualcosa di colorato e dai contorni sbiaditi che dimenticai subito quando sentii qualcuno sussurrare.
La luce rossa dell’insegna a neon illuminava Keith e Rave. Erano loro, a parlare. Erano loro ed erano stretti, abbracciati. Spalancai gli occhi, quasi per mettere a fuoco quell’immagine stranissima che non avrei mai pensato di dover vedere e mi sentii fuori posto, un intruso. Rave parlava piano e Keith aveva il viso nascosto fra il suo collo e la sua spalla. Mi sembrò di sentire un singhiozzo, ma pensai di essermi sbagliato. Non volevo realmente sentire cosa stavano dicendo, non volevo davvero, ma non potevo non farlo. Mi resi conto anche che non avevo immaginato quel singhiozzo: Keith stava piangendo.
- Mi… per un attimo, per un attimo… per un attimo mi è sembrato d’aver dimenticato… per un attimo io ho dimenticato… solo per un attimo…
- Lo sai bene Keith… lo sai che non puoi, che non possiamo. È inutile provarle tutte, Keith, è inutile. Non ce la faremo mai, non possiamo cancellare tutto.
- Vorrei. Vorrei tantissimo. Quando… quando hai infilato quell’ago… stavo… stavo sognando, stavo tremando. Era come se fossi dentro una canzone, come se fossi di nuovo dentro una melodia. Non riesco più a scrivere. Non riesco più a fare niente perché non mi rimane più niente… Lasciami almeno comprare un attimo di pace, un’altra volta…
- Keith… quando non ti rimarrà più niente davvero potrai farlo. Ci sono io, qua con te. E non me ne vado. Non la compri, la pace. Non la compri sotto nessuna forma: né bianca, ne marrone, né in pillole. Cerca di guardare oltre, Keith. Fallo per me. Fallo per la musica che ami tanto. Abbiamo preso i nostri primi 200 dollari, chi ci dice che non possano diventare 200 mila?
- Grazie Jake… grazie.
Jake, allora era questo il vero nome di Rave. Jake. Vidi Rave sfiorare - accarezzare - i capelli di Keith e sentì il rumore di un bacio e quello di un sospiro. Mi girai dall’altro lato, verso il muro. Non volevo vedere oltre, non volevo sentire oltre. Cercai di riaddormentarmi e, quando chiusi gli occhi, nessun colore prese forma nei miei sogni.
La mattina dopo fui svegliato dalla confusione. Avevamo fra le mani 200 dollari e quando aprì gli occhi mi ritrovai davanti scatole di take away, bottiglie - di vetro - di birra, un sacchetto di supermarket stracolmo di bottiglie di vodka e whisky di bassa qualità e, vicino a me, un pacco di Lucky Strike. Lucky Strike, cazzo, non una sigaretta da quattro soldi. Le mie sigarette, quelle che non toccavo da mesi perché in quei mesi non avevo mai avuto due dollari da spendere così. Spalancai gli occhi un po’ sorpreso mentre i ragazzi si sedevano per terra e sorridevano. Gli chiesi ma quanto cazzo avete speso e Rave mi rispose non preoccuparti, non siamo così coglioni da buttare via tutto in una volta. Ci rimangono ancora 125 dollari. Io allora dissi non è possibile che abbiate speso 75 dollari e Rave disse va’ di là, così capisci perché abbiamo speso 75 dollari, ma prima mangia cazzo Leslie, sei magro da fare impressione e scommetto che non mangi così tanto da un casino. Io annuì e li guardai attentamente tutti e tre, rendendomi conto che non erano tanto più in forma di me. Keith si accorse del mio sguardo e disse come noi, del resto. Si allungò e dal sacchetto prese una bottiglia di gin che appena sveglio in effetti ci voleva proprio. La aprì e ce la passammo mentre mangiavamo, quando all’improvviso ci girammo tutti verso la porta, attirati dal rumore di qualcuno che bussava. Jeff disse di entrare e quando la porta si aprì lei entrò dentro e senza dire niente si sedette per terra accanto a me.
Era mezzogiorno eppure Harley portava già i tacchi a spillo e la minigonna, anche se di jeans. Si sedette a gambe incrociate per terra lasciandoci molto a vedere e mi convinsi che sicuramente l’aveva fatto di proposito. Rave disse che cazzo vuoi Harley e lei sorrise e si avvicinò a me ancora un poco.
- Da te niente, Rave. Magari da Leslie, ma tu tesoro non sei proprio il mio tipo. Però non sono qui per qualcosa che voglio io, ragazzi, ma mio padre.
Keith si strozzò quasi con il gin mentre beveva e le chiese ancora un po’ sconvolto cosa volesse da noi suo padre.
- Mio padre è in società con il proprietario del Roxy, Keith. Rave non te l’ha detto?
- No, Rave non m’ha detto niente. La domanda però resta Harley, che vogliono?
- Vogliono che vi esibiate al Roxy, fra due settimane. Avete fatto fare incassi incredibili al Machine Head. Un amico di mio padre era lì ieri sera e pensa che per risollevare il locale ci voglia proprio un po’ di musica come quella che propone il Machine, se non di meglio.
- La paga?
- Cento dollari a testa.
- Dov’è la fregatura, Harley?
- Nessuna fregatura, Keith. Anzi, si dice che la sera in cui vi esibirete ci sarà pure un discografico, fra il pubblico. Non ditemi che non vi va di fare un EP e firmare un contratto…
Si era guardata intorno e aveva arricciato il naso come per dire cazzo, vivete in un buco lurido dove entrate a malapena, senza luce e senza gas, non potete rifiutare.
- Dov’è la fregatura, Harley?
- Ti ho detto che non c’è nessuna cazzo di fregatura. Però…
- Ah, ecco.
- Però c’è una… chiamiamola condizione.
- Sentiamo.
- Dovete presentarvi con 5 canzoni nuove. Nuove significa mai sentite. Avete due settimane.
Keith si alzò in piedi, quasi a volere sovrastare Harley che stava ancora seduta con le cosce sotto i nostri occhi. Non se ne parla disse, ma noi lo guardammo come a dire certo che se ne parla, sono 400 dollari e non li abbiamo mai visti tutti questi soldi insieme. Lui disse allora fra due settimane, eh? Harley annuì e lui disse avrete queste fottute cinque canzoni, se faranno schifo non so dirtelo Harley, adesso vattene. Harley si alzò in piedi, si sistemò la gonna e ammiccò verso di me, per poi dire ok ragazzi, ci vediamo. Diede un ultimo sguardo dentro e si chiuse la porta alle spalle, uscendo.
Appena fu fuori Keith si mise ad urlare merda, come le scriviamo cinque canzoni in due settimane? Come cazzo facciamo, non abbiamo neanche il tempo per provarle. Noi gli dicemmo sta calmo Keith, lavoreremo insieme e ce la faremo, abbiamo fatto bene ad accettare; 400 dollari sono un bordello di soldi. Lui annuì scoraggiato e si sedette ritornando a mangiare. Lo guardai e pensai che Keith non avrebbe buttato giù una sola riga e non lo pensai ritornando a quanto avevo sentito - avevo rubato - quella notte, lo pensai perché aveva lo sguardo di chi cerca in ogni dettaglio l’appiglio per tirarsi su e ricominciare. C’era un silenzio strano fra noi, dopo la sfuriata di Keith, come se tutti noi sapessimo che probabilmente non ce l’avremmo mai fatta, che non avremmo mai combinato nulla e che la serata al Machine Head era stata solo un illusione, finché Rave alzò lo sguardo da terra, per primo.
- Che cazzo sono ‘ste facce? Abbiamo un ingaggio per 400 bigliettoni Dio, e voi state così a rimuginare, invece che mettervi a spremervi le meningi e fare uscire fuori qualche cazzo di canzone… Cazzo Keith, stanno diventando tutt’e due come te!
Keith sollevò lo sguardo verso Rave e gli lanciò un’occhiata che per me era ancora indecifrabile, a quei tempi. A quello sguardo dai tratti duri, Rave abbassò la voce.
- E tu che fai Rave, se non rompere a noi i coglioni? Ci stai pensando, tu, ad una canzone?
- A dir la verità, Keitheen, io ce l’ho già, una canzone.
Keith spalancò gli occhi per la sorpresa, io alzai lo sguardo e fissai entrambi e dovevo avere un’aria sbigottita. Rave aveva una canzone. Eravamo a meno quattro. Keith gli disse e dov’è ‘sta cazzo di canzone e lui disse tieni, mentre si alzava per prendere qualcosa dalla tasca posteriore dei jeans. Ne tirò fuori un foglio spiegazzato e macchiato, ma era comunque un foglio e sopra c’era scritto qualcosa. Keith lo aprì velocemente e per un attimo temei che l’avrebbe fatto in mille pezzi. Lo guardò, lo girò e lo rigirò, mentre noi eravamo in attesa.
- Ma è una cazzo di canzone d’amore, Rave!
Al che io e Jeff, insieme, scoppiammo a ridere con forza, trascinando anche Keith nella risata. Rave aveva scritto una canzone d’amore e probabilmente non ero il solo in quella stanza a non aspettarselo da un tipo come lui. Keith rideva e diceva cazzo amico, è melensa da far schifo. Se volevi scrivere alla tua donna, almeno potevi evitare certe frasi da caramella. Rideva forte, ridevamo tutti, ma Rave era serissimo e guardava Keith storto, strano, aggrottando le sopracciglia come a volergli dire qualcosa, a volergli indicare qualcosa. Keith però non lesse niente nel suo viso e lesse ad alta voce I’m here with you dear, don’t cry, don’t worry about anything e disse cazzo Rave da quando sei così dolce con le tue donne? Quando Rave gli disse quasi urlando sei una testa di cazzo Keith e poi aggiunse piano, davvero piano sembra quasi che tu non mi conosca. Si alzò e sbatté forte la porta, così forte da farmi pensare che l’avesse tirata giù. Keith aveva smesso di ridere e fissava intensamente il foglio, io gli chiesi di farmi leggere e lui me lo diede con un sorriso. La grafia di Rave era spigolosa e piccola, il foglio era spiegazzato e macchiato sì, ma non vecchio. Lessi attentamente le parole, le lessi con calma e capì qualcosa che forse non avrei dovuto capire. Keith aveva ragione, Rave non era così dolce con le sue donne.
Lo passai a Jeff che scorse il testo velocemente.
- Eppure… avevo composto qualcosa che sta bene con queste parole. Le valorizza. Forse, con una bella melodia, non sembreranno più così banali.
Avrei voluto ribattere e dire che non c’era nulla di banale in quella canzone. Ma questo nessuno sembrava averlo capito. Pensai allo sguardo incazzato di Rave, che sembrava volesse prendere Keith per le spalle e dirgli guarda, coglione, svegliati e guarda qua, guarda e dimmi cosa leggi qua in mezzo. Through the lines.
Keith disse perfetto, allora costruiamoci qualcosa su.
Raggiungemmo il garage, accendemmo gli amplificatori e attaccammo il tutto, cominciando a provare a creare qualcosa sulla base di ciò che aveva composto Jeff.
Keith se ne uscì con un riff niente male e io cercavo di modellare su quel testo la mia voce. Jeff si stava occupando della parte ritmica e senza la batteria non potevamo fare un granché. Dopo un’ora di prove e tentativi eravamo ancora a quasi nulla, ma un’idea di canzone c’era già.
Keith era nervoso, era così distratto da riuscire a sbagliare gli accordi della sua stessa chitarra.
Ad un certo punto si mise ad urlare che cazzo ragazzi basta, tanto non ce la faremo mai, soprattutto se quello stronzo se ne va e ci lascia così. Posò la chitarra e ci disse che andava a cercare Rave.
Io e Jeff decidemmo di continuare da soli il lavoro che avevamo cominciato, anche se eravamo abbastanza sicuri di non riuscire a fare molto. Jeff stava scrivendo quello che avevamo combinato fino ad allora. Io gli dissi speriamo che Keith si faccia venire in mente qualcosa di più di un riff e lui disse non preoccuparti Leslie, Keith gli assoli sa anche improvvisarli, anche se scrivessimo qualcosa poi lui sul palco farebbe di testa sua e cambierebbe tutto, come fa sempre. Jeff sorrideva, mentre diceva questo; pensai che fosse un suo modo particolare di dire che Keith era un gran bravo chitarrista. Lo guardai bene, mentre spegneva l’amplificatore della chitarra e staccava i fili. Era un ragazzo alto, castano, un tipo davvero comune, se non fosse stato per i suoi occhi di un colore che non avevo mai visto prima, in nessuno. Rave diceva che erano verde invidia. A me, in quel momento, sembravano più un verde prato. Avrei osato definirlo verde speranza.
Gli chiesi allora da quanto tempo esistessero gli Hangover e lui sempre sorridendo, tranquillo, rispose che erano ormai tre anni, e che in tutto il tempo non erano riusciti a combinare niente, eppure Zack aveva scritto molta bella roba. Io la riprenderei, Leslie, ma Keith si rifiuta categoricamente e neanche a dirlo, anche Rave.
Zack. Avevo sentito tante volte questo nome, da quando vivevo con i ragazzi - il che faceva da circa un mese - ma non mi ero mai chiesto nulla su questa persona misteriosa, né qualcuno mi avevo detto nulla su di lui. Sapevo solo che dormivo su quello che era il suo, di letto e che Keith aveva scritto Wasted Sound quando se n’era andato. In che senso, non me l’ero domandato.
- Jeff, senti… ma… chi è Zack? Insomma, sembra che c’entri dappertutto. Chi è?
- Non te l’hanno detto, Leslie? C’avrei scommesso. A Rave e Keith non piace parlarne. Zack era il nostro cantante, prima di te.
- Che… insomma…
- Se mi stai chiedendo che fine ha fatto, Leslie, è morto.
L’aveva detto con tanta freddezza che per un attimo non mi sembrò quasi il ragazzo che avevo conosciuto, nonostante Jeff fosse schivo, stesse sempre come isolato dal casino degli altri e infondo anche mio.
- Come… no, aspetta. E Wasted Sound? Che c’entra con Zack? Mi hai detto tu stesso che Keith…
- Keith era molto affezionato a Zack. Ma questo, credo l’abbia capito solo quando quella stessa sera ha scritto quella cazzo di canzone. Erano molto simili, ti assicuro che Keith era molto più silenzioso, prima. Come Zack.
- Io… hai con te qualcuna delle canzoni di Zack, Jeff? Le ricordi? Lo so che hai detto che Keith e Rave non vogliono più toccarle. Ma io penso sia sbagliato. Se muore l’uomo, non muore la sua musica.
Lui mi guardò come se avessi appena detto qualcosa di straordinario, ma nei suoi occhi c’era qualcosa che mi diceva che pensava che non avremmo mai potuto convincere quei due testardi. Disse io le ricordo, Leslie, eccome se le ricordo. Ma andiamo a prenderle, così leggi i testi. Zack era un bravo scrittore, un bravo compositore. Io gli dissi e se Keith ritorna mentre siamo via e lui disse sta tranquillo, ci metteremo poco. Keith è andato a cercare Rave, può anche arrivare dall’altro lato della città, per trovarlo.
Mentre camminavamo verso casa, rimanemmo silenziosi, fin quasi davanti la porta di casa, quando Jeff mi disse ehi Leslie, fatti chiedere una cosa. È il tuo vero nome questo e io gli dissi, spontaneamente e senza pensarci più di tanto no Jeff, non lo è. E come ti chiami allora, disse lui. Io pensai che era ora di ridire il mio nome, forse. Era ora di sentirlo vibrare di nuovo nell’aria, era ora di cominciare a chiamare casa anche Los Angeles, era ora di smettere di pensare che non è bella la pioggia se poi rimane la sabbia rossa. Gli risposi, con un tremito nella voce per quella parola che non dicevo e non sentivo dire da quello che mi sembrava davvero molto tempo. Lui mi disse è un bel nome, il tuo. Come mai hai scelto Leslie, poi? Una donna, scommetto. Te lo leggo in faccia, ragazzino. Nasconditi meglio.
Rimasi sorpreso e dissi che l’avevo scelto perché quel nome era il nome della musica, per me. Jeff mi guardò molto serio e disse sarebbe davvero bello se ognuno trovasse un nome alla sua musica, Leslie, ma non tutti ne sono capaci o non tutti vogliono.
Entrammo a casa e non c’era nessuno. Jeff rimase sulla soglia e disse sono tutte nella cassettiera, una scatola nell’ultimo cassetto. Entrai di là per prendere la scatola, ma mi fermai sulla soglia del nostro bagno, mentre Keith mi faceva segno di stare zitto. Io non lo feci e gridai che cazzo stai facendo e Jeff venne subito dicendo Leslie, ma chi c’è entrò e prese per un braccio Keith. Era seduto per terra, le spalle appoggiate al lavandino. Aveva in bocca una penna e in mano un foglio. Keith stava scrivendo qualcosa. Ma non fu quello a farmi urlare più incazzato che mai. Era che dentro il lavandino c’era una rig; ce n’era una e c’erano delle goccioline di sangue. Che cazzo fai Keith, che cazzo stai facendo si può sapere? Anche Jeff l’aveva notata e aveva preso Keith per un braccio e l’aveva fatto alzare e così si guardarono negli occhi. Keith sembrava tranquillo come non l’avevo mai visto. Disse sto scrivendo una canzone, Jeff. Mi avete disturbato. Che cazzo scrivi una canzone, dissi io, ti sei fatto Keith? Jeff aggiunse c’hai mentito, Keith. Una cazzata bella e buona. Keith ci guardò e ci disse tanto non avremmo combinato niente. Jeff disse ah perché tu stai combinando molto, facendoti d’ero come un coglione, Keith. Lui non rispose e gli porse il foglio su cui stava scrivendo come a dirgli leggi, leggi. Jeff lo fece, lesse, e poi guardò Keith e me, ci guardò intensamente con i suoi occhi verdi e mi passò il foglio. Quando lessi le parole che vi erano scritte sopra, con la grafia piccola di Keith, capì il perché di uno sguardo intenso come quello di Jeff poco prima. Quelle erano parole; quella era una melodia; quella era una canzone.
E aveva un testo semplicemente meraviglioso.
Keith sorrideva e noi avevamo già dimenticato tutti i problemi di prima, mentre entusiasti parlavamo della nuova canzone, della sua musica, degli assoli di chitarra e basso che Keith aveva immaginato forti e veloci, della mia voce che aveva immaginato languida. Sentimmo Rave sbattere la porta proprio mentre parlavamo della parte vocale. Ci raggiunse e disse che cazzo fate ancora qui e Keith gli porse il foglio e gli disse abbiamo una canzone, Rave. Lui ci squadrò e disse beh menomale, perché ci rimangono solo settanta dollari. Che cazzo hai fatto con tutti questi soldi Rave urlò Jeff, ma Rave rise e rispose li ho spesi bene, ho preso un po’ di cose da mangiare. Non so come, ma quando Rave disse da mangiare, capì che non era di cibo che stava parlando. Jeff disse non prendermi per il culo Rave, almeno 20 te li sei fottuti in whisky, cazzo, puzzi. Lui si mise a ridere di nuovo e poi a gridare e beh, io non posso prenderne venti e lui può spenderne 40 per scrivere una cazzo di canzone. Keith disse io spendo quaranta dollari, scrivo e te ne faccio intascare cento, con le mie canzoni, Rave. Rave gli sorrise e disse già, cazzo, la penna s’era dimenticata chi sei, Keith, da quanto tempo è che non la prendi in mano veramente. Keith aggrottò la fronte e disse leggila, testa di cazzo, leggila. Rave prese il foglio e lo scorse velocemente. Poi sussurrò cazzo Keith e disse beh, quand’è che cominciamo a provarla?

originale, autore: felelem

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