Inori - oneshot (HiroSuke / Kis-my-ft2) - Prima Parte

Apr 12, 2010 22:37

ITALIAN ONLY!
Sorry FL, I just have to post this fanfic as soon as possible~ ♥

Ammetto che mi fa un pochino strano scrivere in italiano su livejournal, non ci sono assolutamente più abituata... XD
Comunque! *_* Notizie importanti non ce ne sono, a parte che il mese prossimo prenderò in custodia uno dei micini di okuribi_dreams e sinceramente non vedo proprio l'ora! *_* Oggi ho parlato con le mie coinquiline per chiedere loro se fosse un problema e... erano quasi più contente di me all'idea! XD Giovedì vado a vederli~ ♥

Ma non è per questo che ho aggiornato! XD

Visto che è stato messo su il Revelation Post della anonimeme italiana, finalmente posso postare la fanfic che ho scritto per l'occasione! *_*

Lo so che non lo faccio mai, ma... me le concedete due paroline? ç_ç Ecco, dunque... la storia è ispirata all'esibizione di Inori dei Kis-my-ft2 durante il Playzone... praticamente ho ampliato gli spunti della performance per farne una storia con un senso compiuto. Perdonatemi in anticipo le inesattezze storiche, SO che ci sono e alcune sono volute (chiamatele licenze poetiche se proprio volete XD)... altre sono dovute alla mia imperdonabile ignoranza (con tutto che comunque io e Gaia abbiamo pure comprato libri / preso in prestito manuali in biblioteca per documentarci a dovere).

Mi sono particolarmente affezionata a questa storia. Più che alla Pin, non so perché. Mi ha assorbito completamente, il finale che ho scritto l'ho visto in sogno una notte... e chi mi conosce sa che io non ricordo mai i miei sogni! XD

Spero che la apprezzerete, davvero, ma questa volta più che mai siate sincere con critiche e commenti, ci tengo in modo particolare. ♥

kai_uke questa è tutta per te ♥

Purtroppo devo dividerla in due post, è troppo lunga per un post unico! T_T Perdonatemi, non è mia intenzione spammarvi la pagina amici! T_T

Titolo: Inori
Pairing: HiroSuke (Kitayama Hiromitsu X Fujigaya Taisuke)
Genere: oneshot - AU - storica - angst
Rating: PG-13
Prompt: *ispirata dalla performance di "inori" del playzone* Hirosuke sono due ribelli/guerrieri dello stesso 'battaglione' con l'intento di catturare uno spietato criminale che è riuscito a sappare dalla prigione imperiale. Alla ricerca di questo losco individuo, passano tante notti insieme, combattono fianco a fianco e cose simili, fino ad innamorarsi e a proteggersi a vicenda(se volete eh). Semplice...a voi il finale, se farla finire bene o male, sarò felice comunque<3 adoro entrambe le soluzioni *_* mbeheheh.
Disclaimers: Eccerto, sono proprio miei, guardate... >_>


L’aria era quella fredda e un po’ umida dei giorni autunnali, quella dei venti taglienti e del profumo delle foglie rosse ai piedi degli alberi. L’inverno alle porte e un autunno inclemente si attaccavano alla pelle e ai vestiti come predatori feroci, facendo tremare i corpi giovani e allenati, ma non per questo meno sensibili.

Avevano camminato per tutta la notte, come quella precedente, come quella prima ancora, e come avrebbero fatto per tutte le notti successive che li separavano dal loro obiettivo. Era stata una proposta di Miyata quella di muoversi di notte; Kitayama non poteva dire di esserne entusiasta, ma doveva ammettere che così facendo avevano molte più probabilità di passare inosservati e avvicinarsi il più possibile senza essere scorti dai gruppi in retroguardia. Tanto più che, ormai era evidente, non erano gli unici a muoversi approfittando del favore del buio.

Si guardò intorno, studiando la posizione. Mentre i suoi occhi passavano su quella piccola radura circondata dagli alberi, la sua mente registrava ogni più piccola traccia d’animale, ogni asperità del terreno, ogni frutto commestibile. Se tutto non fosse stato perfettamente sotto il suo controllo, avrebbe ordinato ai suoi uomini di camminare ancora fino alla radura successiva, o magari quella dopo ancora. Nessun lamento avrebbe potuto impedirgli di trascinarli lontano da una possibile trappola, anche a costo di attirarsi l’odio di quegli stessi ragazzi, perché di questo in fondo si trattava, che lui cercava così disperatamente di mantenere in vita.

Quando girò la testa troppo in fretta al verso spaventato di un uccello affamato, lo colse un capogiro così violento che dovette appoggiarsi alla ruvida corteccia di un tronco morente per non perdere l’equilibrio. Si passò una mano sulla fronte e la ritirò coperta di sangue: la ferita doveva essersi riaperta.

“Comandante?”

Una mano sulla sua spalla, e subito Kitayama fu in piedi, rivestito del suo solito autocontrollo. Si voltò verso quella voce dal tono così preoccupato, a cui tante volte aveva rimproverato un eccesso di sentimentalismo.
Fujigaya. Chi se non lui?

“Sto benissimo. Per oggi ci accampiamo qui. Nikaido, Tamamori, procurate cibo e acqua per tutti.”

La mano sulla sua spalla scivolò via lentamente, quasi in una carezza, e Kitayama fissò gli occhi gentili di Fujigaya che sembravano non volersi staccare dalla sua fronte sanguinante. C’era qualcosa che lo disturbava in quello sguardo, qualcosa su cui avrebbe preferito non fermarsi a riflettere. O almeno, non quando la sua concentrazione era richiesta altrove.

Un rantolo a pochi passi da loro attirò la sua attenzione. Tamamori era pesantemente appoggiato alla sua lancia, il respiro pesante e la fronte sudata. Kitayama provò uno strano brivido quando Fujigaya corse al fianco del ragazzo e gli scostò i capelli dal viso, dolcemente. Gli sussurrò qualcosa che non riuscì a sentire, poi lo aiutò a sedersi con la schiena contro un grosso albero. Miyata fu subito in ginocchio accanto a lui.

“Comandante, credo che Yuta abbia bisogno di riposare, la ferita alla spalla non si è ancora rimarginata bene.”

Kitayama non aveva mai capito perché Fujigaya si ostinasse a chiamare tutti per nome. Sosteneva che fosse un modo per rendere il gruppo più unito, e forse aveva ragione. Comunque nessuno si era mai lamentato, quindi non c’era motivo per rimproverarlo.

“Posso andare io al posto suo…”
“No Miyata, ho bisogno di te qui. Controlla la spalla di Tamamori, se la ferita fa infezione sarà un bel problema. Senga, vai tu.”

Era così che doveva comportarsi un buon comandante, in modo freddo, pratico ed efficace. Era l’unico modo che conosceva per svolgere quella missione al meglio e sperare di riportare indietro quei ragazzi. Possibilmente vivi.

*

C’era voluto diverso tempo perché Kitayama si sentisse abbastanza tranquillo e smettesse di controllare ogni singola mossa di ognuno dei suoi uomini. Yokoo stava facendo un giro di perlustrazione, volevano evitare di essere colti impreparati in uno dei loro rari momenti di pausa, e Senga e Nikaido ancora non erano tornati. Avrebbe voluto chiedere a Miyata come stesse Tamamori, addormentato su un letto di foglie rosse e gialle, ma sapeva che se fosse stato qualcosa di grave qualcuno sarebbe andato ad avvertirlo. Poteva lasciare a Fujigaya amenità come preoccupazione e altruismo.

Fujigaya.

Dal quadretto di terra che aveva scelto come giaciglio, poteva vederlo bene. Era in ginocchio, nudo fino alla vita, e tremava leggermente per il freddo di quelle prime ore mattutine. La katana era appoggiata al suo fianco, così vicino che avrebbe potuto afferrarla in un batter di ciglio. Aveva immerso un panno nell’acqua gelida di un piccolo ruscelletto e stava cercando di lavare via dal suo corpo sudore, sangue rappreso e sporcizia, per lo meno a livello superficiale. Odiava essere sporco, Kitayama lo sapeva, e ogni volta si sorprendeva di come in quel corpo così mascolino si potessero nascondere vezzi che sarebbero stati molto più adatti ad una fanciulla.

Aveva un bel corpo, Fujigaya, e tutte le caratteristiche fisiche che facevano di lui un ottimo samurai, ma era troppo gentile, a volte, troppo clemente, e in più di un’occasione Kitayama si era ritrovato a preoccuparsi per la sua incolumità nel bel mezzo di una battaglia. Non era lo stesso per gli altri. Miyata, Yokoo, Tamamori, Nikaido, Senga. Li conosceva solo da qualche settimana, da quando erano stati messi sotto il suo comando per svolgere quella missione suicida.

Ma conosceva Fujigaya da sempre e, sebbene non fosse solito mostrare le proprie emozioni, sapeva che in fondo al cuore, in quella teca di sentimenti che non apriva mai, era Fujigaya quello che voleva a tutti i costi portare a casa vivo.

Si era offerto volontario, gli aveva confidato suo padre scuotendo la testa. Volontario per una missione che non gli avrebbe portato né gloria né ricompense, al massimo gli sarebbe costata la vita. Aveva anche dovuto insistere con il reggente, perché la famiglia Fujigaya era ben vista da Toyotomi Hideyoshi e quest’ultimo non avrebbe voluto mandare uno di quei ragazzi a morte certa. Ma era stato irremovibile, gli avevano detto, e aveva dichiarato che se anche lui fosse morto, aveva due fratelli minori che avrebbero portato avanti il nome e gli impegni della famiglia.

Non era lo stesso per i Kitayama. Nel tentativo di accumulare potere e accelerare la loro ascesa politica, il nonno e il padre di Hiromitsu avevano continuato a servire il reggente, mentre in gran segreto stringevano alleanze con il sempre più potente Tokugawa Ieyasu. Ma il dubbio aveva sfiorato la mente del kanpaku che, con un occhio di riguardo per quella famiglia così influente, aveva deciso di punirli assegnando quella rischiosa missione al loro unico, giovane erede.

Per questo motivo Kitayama voleva riportare quei ragazzi alle loro case: era consapevole del fatto che la loro vita fosse stata messa in pericolo in quel modo solo a causa dell’avidità della sua famiglia.
Gli pulsava la fronte.

“Hiromitsu?”

Kitayama alzò lo sguardo, trovandosi davanti Fujigaya. Era ancora nudo fino alla vita, nonostante il freddo quasi pungente, e aveva la pelle umida d’acqua e la katana in mano. Gli sorrideva con il capo lievemente chinato verso destra, come se aspettasse il permesso per fare qualcosa. Kitayama si trattenne dal ricambiare il sorriso. Non lo chiamava mai per nome davanti agli altri, non aveva mai voluto minare la sua autorità. Solo quando erano soli si prendeva questa confidenza.

“Prenderai freddo.”
“Ti preoccupi per me?”
“Diciamo che non saresti molto utile alla missione con la febbre alta.”

Fujigaya ridacchiò e si rivestì con calma, rabbrividendo al contatto con la stoffa ruvida e fredda. Si sedette vicino a lui, un passo più avanti, e non lo guardò in viso per molti minuti.

“La missione… pensi mai ad altro, Hiromi? A qualcosa che non sia il tuo dovere?”
“Il mio dovere è la mia vita, Fujigaya.”
“Taisuke.”
“Fujigaya.”

Ne avevano già parlato qualche giorno prima, quando Fujigaya aveva insistito perché Kitayama, almeno durante le loro chiacchierate private, lo chiamasse per nome. C’era stato un periodo in cui l’aveva fatto, ma erano passati molti anni da allora e non erano più due bambini che giocavano a fare i samurai con spade di legno.

Fujigaya sorrise e abbassò il capo, mentre giocherellava con alcune foglie secche tra le mani. Sorrideva sempre, anche quando altri non l’avrebbero fatto.

“A cosa pensavi, seriamente? Ti conosco, comandante, e so che sei turbato da qualcosa. O forse hai perso troppo sangue e non sei più in grado di ragionare?”

Kitayama si portò istintivamente una mano alla fronte e non nascose una smorfia di dolore, anche se nemmeno un gemito uscì dalle sue labbra. Si pulì la mano su una manica già sporca di sangue, prima di voltarsi e fissare ostinatamente un nido vuoto sul ramo più basso di un albero. Quegli uccellini erano stati degli sprovveduti, a quella altezza il nido sarebbe stato facilmente raggiungibile dagli animali affamati di prede inermi. Avrebbero dovuto pensare ai loro piccoli e non farsi vincere dalla pigrizia o dall’illusione di sicurezza che quel grosso albero poteva ispirare. Non esistevano luoghi sicuri, avrebbero dovuto pensare ai piccoli. I figli erano importanti, non era giusto che pagassero per gli errori dei genitori.

“Hiromi!”

Kitayama scosse la testa, cercando di schiarirsi le idee. Fujigaya era inginocchiato al suo fianco, il sorriso sostituito da un’espressione preoccupata. Lo aveva afferrato per un braccio, evitandogli di rovinare su un fianco, e non sembrava intenzionato a lasciarlo andare. Lo fece appoggiare a un albero, e Kitayama lo lasciò fare. Si fidava di Taisuke.

“Sei uno stupido, fammi vedere la fronte.”

Gli scostò i capelli dal viso, allontanandoli dalla ferita alla tempia che aveva ripreso a sanguinare. La lama non era penetrata in profondità e non aveva nemmeno sfiorato l’occhio, quindi poteva ritenersi fortunato. Fujigaya recuperò il panno con cui poco prima si era lavato al ruscello; era ancora umido, l’aveva risciacquato bene prima di infilarlo di nuovo nella cintura. Glielo passò delicatamente attorno alla ferita per ripulirla e lo sentì tremare sotto le sue mani.

“Non sta guardando nessuno, se ti fa male puoi anche dirlo. Stupido Hiromitsu.”

Kitayama sospirò, non poteva nascondergli niente. Di qualunque tipo fosse, tra loro c’era un legame che nessuno dei due era ancora riuscito a comprendere. Kitayama no di sicuro. Non avevano bisogno di parole per comunicare, erano in grado di percepire l’uno le emozioni dell’altro, si comportavano come fratelli, cercavano la reciproca compagnia come un assetato cerca l’acqua.
Eppure, non riuscivano mai ad essere del tutto sinceri uno con l’altro.

“Perché hai chiesto di essere messo sotto il mio comando?”

Fujigaya non si fermò. Usò il corto pugnale per tagliare due strisce di tessuto pulito. Cominciò a fasciare strettamente la fronte di Kitayama, con delicatezza. Le sue mani portavano i segni di una vita passata a brandire la spada, ma all’occorrenza sapevano essere gentili quanto quelle di una donna.

“Non so di cosa tu stia parlando. Il kanpaku in persona mi ha messo ai tuoi ordini, non ho potuto rifiutare.”
“Perché stai mentendo? So che ti sei offerto volontario.”

Fujigaya finì di fasciargli la fronte senza dire una parola. Non serviva continuare a mentire, non lo avrebbe ingannato. Anche se manteneva sempre una facciata di cortese indifferenza nei suoi confronti, nessuno lo conosceva meglio di lui. Niente come combattere fianco a fianco ti permetteva di capire davvero un uomo, almeno per un samurai.

Si allontanò da lui fissando la fasciatura con occhio critico, poi annuì soddisfatto: quella ferita non gli avrebbe più dato problemi.

“Hiromi… sei stato messo a capo di un gruppetto di ragazzini senza esperienza. Questa missione avrebbe bisogno di almeno uno squadrone di samurai a cavallo, se le notizie su quel criminale hanno almeno un briciolo di verità.”
“…e quindi?”
“E quindi niente, stupido. Non ci pensare.”

Era facile per lui dirgli di non pensarci, ma Kitayama non pensava ad altro da giorni. All’inizio gli era stato grato, semplicemente, perché l’idea di mettersi a capo di un gruppo di perfetti sconosciuti non gli era mai andata a genio, e sapere di avere come braccio destro un samurai di cui conosceva il valore era stata la migliore notizia degli ultimi mesi.

Poi c’era stato il primo scontro notturno con le retrovie dei criminali a cui davano la caccia. Gli uomini che avevano aiutato l’assassino a fuggire dalla prigione imperiale, quel Yara Tomoyuki di cui tanto aveva sentito parlare, non erano semplici contadini armati di falci. Erano guerrieri armati di spade e lance e frecce perforanti.

Durante quel primo, violento scontro, Kitayama aveva capito tre cose.

La prima era che, nonostante la giovane età, i ragazzi sotto il suo comando erano coraggiosi e abili. Aveva visto Yokoo tenere testa a due uomini contemporaneamente e Senga, il piccolo Senga, schivare le lame d’acciaio per colpire i nemici alle spalle, rapido come un fulmine. Quando aveva cercato Fujigaya con lo sguardo - inconsciamente, continuava a ripetere a se stesso - l’aveva visto evitare i nemici con un’eleganza sovrannaturale, quasi stesse scivolando sul terreno, e colpire in modo così preciso che spesso i suoi avversari non avevano nemmeno il tempo di rendersi conto di essere morti prima di toccare terra.

La seconda era che quegli uomini vestiti di nero erano tanti. Tanti e spietati. Non avevano esitato a tendere un’imboscata tra gli alberi, a coglierli di sorpresa, e Kitayama era profondamente convinto che non ci fosse onore in quel modo di combattere. Li avevano circondati, puntando sulla superiorità numerica, e ancora non capiva come avessero fatto a uscirne tutti vivi e con ferite superficiali.

La terza, e ultima, era che più di una volta, durante gli scontri, si era trovato vicino a Fujigaya. Non sapeva se fosse un caso o il destino o chi dei due si spostasse per primo, ma quando il pugnale lanciato da quella mano codarda verso il suo viso gli aveva fatto temere che fosse finita, si era sentito trascinare via da una presa ferrea. Il pugnale l’aveva colpito solo di striscio, e lui si era ritrovato davanti lo sguardo angosciato di Taisuke. Avevano continuato così per i minuti successivi, Kitayama con un occhio sul nemico e uno sul compagno, e Fujigaya sempre a pochi passi da lui. Aveva staccato un braccio di netto a un uomo che aveva osato avvicinarsi troppo alle spalle del ragazzo più giovane, con una rabbia che non si addiceva al suo carattere.

Quando i nemici avevano battuto in ritirata, si erano guardati per qualche secondo, in silenzio, il respiro pesante e i muscoli indolenziti. Poi Fujigaya aveva sorriso, chinando lo sguardo, e si era accasciato a terra per la stanchezza. Kitayama si era guardato intorno e solo in quel momento si era ricordato di avere altri compagni. Grazie agli dèi stavano tutti bene, solo Tamamori sembrava aver riportato una ferita un po’ più seria alla spalla, ma Miyata se ne stava già occupando e Yokoo non era molto lontano, forse anche loro avevano optato per il gioco di squadra. Senga piangeva silenziosamente, non riusciva a capire se di sollievo per esserne uscito intero o per lo spavento della sua prima vera battaglia. Nikaido aveva una mano sulla sua testa, mentre nell’altra stringeva ancora con forza la katana insanguinata.

“Comandante! Comandante!”

Kitayama si riscosse, scacciando dalla sua mente le immagini di quel primo scontro. Erano passati alcuni giorni, ma era ancora tutto troppo vivido nella sua testa. La voce di Senga, però, era così carica di nervosismo che Kitayama si ritrovò lucido e in piedi prima ancora di rendersene conto. Fujigaya si era allontanato da lui di qualche passo. Sapeva che dovevano mantenere le distanze in presenza degli altri, ma non riuscì a impedirsi di fare un passo nella sua direzione, senza pensarci.

“Cos’è successo?”
“Comandante, Nikaido e io stavamo seguendo una lepre nel bosco…” aveva il respiro affaticato, sembrava aver corso a lungo. Quando sentì nominare l’altro ragazzo, si guardò intorno ma non lo vide da nessuna parte. Fujigaya aggrottò la fronte quando i loro sguardi si incrociarono. “Siamo stati attirati da delle voci. Quando ci siamo avvicinati, abbiamo visto quattro uomini vestiti di nero, sembravano proprio far parte del gruppo di Yara.”

Kitayama sobbalzò a quelle parole. Se Nikaido e Senga si erano imbattuti nei criminali solo inseguendo una lepre nel bosco, dovevano essere molto più vicini di quanto si aspettasse. Troppo vicini. Strinse la mano sull’elsa della spada, come se quel semplice gesto potesse ridargli tutta la sicurezza che stava lentamente perdendo.

“E, comandante…” Senga sembrò incespicare sulle parole, come se non sapesse bene come continuare. Fujigaya gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, offrendogli da bere dalla sua borraccia. Il più giovane sorrise, accettando quella piccola gentilezza. “Li abbiamo sentiti dire delle cose… parlavano di un piano del loro capo, di una… di una trappola. Vogliono prendere degli ostaggi dai villaggi vicini, comandante. Donne e bambini. Vogliono costringerci a uscire allo scoperto per poterci togliere di mezzo.”

Tamamori e Miyata si erano avvicinati quando Kitayama li aveva chiamati con lo sguardo poco prima. Erano scuri in volto, ma Kitayama poteva capirli. Erano pessime notizie.

“Comandante, c’è un sentiero non molto lontano da qui. Porta da un piccolo villaggio di contadini al fiume e non è mai stato una via pericolosa. Donne e bambini spesso viaggiano da soli per quella strada.” Tamamori era cresciuto in quella zona, tutti loro lo sapevano. Probabilmente più di una volta non avevano smarrito la strada solo grazie a lui.

Rimasero in silenzio per qualche minuto, riflettendo. Kitayama sentiva gli sguardi di tutti concentrati su di lui e non poté impedirsi di sentire un peso doloroso sullo stomaco. Era la prima volta, da quando erano partiti, che doveva prendere una decisione così importante.

“Kento, dov’è Takashi?” Fujigaya aveva sempre un tono dolce quando si rivolgeva al più piccolo, ma forse era solo un’impressione. Fujigaya aveva un tono dolce quando parlava con chiunque.

“Lui e Yokoo sono rimasti a controllare la situazione, mi hanno mandato indietro ad avvertire il comandante. Hanno detto che ero il più veloce.” Non era del tutto vero, Nikaido era veloce almeno quanto lui, ma non era difficile immaginare che avessero voluto proteggerlo, mandandolo il più lontano possibile dal pericolo di venire scoperti e attaccati.

“Va bene. Tamamori, quali sono le probabilità che Yara punti proprio a quel sentiero?”
“Altissime. In questa zona c’è solo quel villaggio, e non hanno abbastanza uomini per attaccarlo direttamente. Aspetteranno che passi qualcuno per quel sentiero, quei codardi.”
“Non abbiamo scelta, dobbiamo tenere la strada sotto controllo.”

L’idea non gli piaceva. Se fosse stato a capo di un gruppo più numeroso di uomini non ci sarebbe stato alcun problema, ma in quel caso si trattava di organizzare sette guerrieri in un territorio ostile e di metterli a perlustrare una vasta zona che, per quanto ne potevano sapere, forse già brulicava di criminali senza onore.

Senza un suo cenno, nessuno osava muoversi. Avevano tutti lo sguardo basso e corrucciato, un’espressione allo stesso tempo fiera e severa in viso. Era come se sapessero che lì, in quel momento, si stava decidendo del loro futuro.

Kitayama sospirò, ma prima che potesse dare un ordine qualsiasi la sua attenzione fu catturata da un rumore di cespugli smossi in lontananza, dall’altra parte della radura. Poteva essere un animale, lo sapeva benissimo, ma non era sopravvissuto fino a quel momento solo grazie alla fortuna.

Estrasse la katana lentamente e fece un cenno con il capo a Fujigaya perché facesse lo stesso. Miyata e Senga, armi alla mano, si misero ai due lati di Tamamori.

Nel giro di pochi istanti, Kitayama passò in rassegna tutte le possibili cause di quel rumore.

Poteva essere un animale. Potevano essere Nikaido o Yokoo o entrambi di ritorno dalla perlustrazione. Poteva essere un esploratore nemico. Poteva essere una trappola, nel qual caso i criminali li avrebbero attaccati alle spalle e li avrebbero colti impreparati.

Fujigaya si mosse nella direzione da cui proveniva il rumore. Da quella posizione, lievemente sopraelevata, Kitayama poteva vedere bene la schiena del ragazzo che si muoveva piano, completamente allo scoperto. Taisuke non era uno sprovveduto, ma mai come in quel momento Hiromitsu avrebbe desiderato che il compagno indossasse l’armatura del samurai. Magari non sarebbe stata efficace contro una freccia ben scoccata, ma avrebbe dato loro una sicurezza in più. Invece era stato loro ordinato di lasciarle a casa, linde e inutili, perché avrebbero rallentato il loro cammino e reso i loro passi più pesanti. Aveva protestato, prima di partire, aveva affermato con forza che un samurai senza la sua armatura valeva come metà guerriero, ma il reggente era stato irremovibile.

E ora Kitayama, mentre vedeva il suo compagno più caro camminare verso il pericolo a testa alta, non poteva fare a meno di sentirsi in colpa, ancora una volta, per la disgrazia che la sua famiglia aveva portato sulle teste di quei ragazzi.

“Comandante, vedo qualcosa…”

La voce di Miyata, appena un sussurro, gli fece spostare lo sguardo verso la vegetazione dall’altra parte della radura. Ora non solo poteva sentire il rumore di passi affrettati, ma poteva anche vedere i rami bassi degli alberi e gli arbusti muoversi al passaggio di quello che certamente non era un animale.

“Preparatevi. Se sono nemici, non cedete terreno. Non possono averci circondato in così poco tempo.”

Si mosse velocemente sul tappeto di foglie secche, senza preoccuparsi di fare rumore; ormai era evidente che, chiunque fosse, si stava dirigendo esattamente verso di loro. Quando si affiancò a Fujigaya, questi gli rivolse solo uno sguardo di sbieco, ma ebbe come l’impressione che avesse rilassato leggermente le spalle.

“Hiromi…”
“Concentrati.”
“Sono concentrato.”
“Non è il momento di fare conversazione.”
“Volevo solo dirti che è un onore combattere con te. Se questo è il mio ultimo giorno, sono felice di morire al tuo fianco.”

Kitayama sentì il cuore accelerare i battiti, e, per più istanti di quanti fossero perdonabili in quella situazione di allerta, si voltò verso il compagno. Quello non era un discorso che aveva intenzione di sentire prima di una battaglia. Per quanto tutti i samurai fossero disposti e pronti a morire per il proprio onore e quello del loro signore, la morte non era il più felice degli argomenti e fin da subito, come da tacito accordo, nessuno ne aveva mai parlato nel gruppo. Tutti sapevano che quella missione li avrebbe portati con ogni probabilità alla morte, ma nessuno era mai stato disposto ad ammetterlo così candidamente come aveva appena fatto Fujigaya. Erano giovani per capire la perfezione della morte. Troppo giovani. Potevano concepirla a livello teorico, ma messi davanti alla possibilità reale si trovavano indecisi e tremanti.

L’immagine di quel corpo familiare abbandonato in una pozza di sangue gli sconvolse la vista per un attimo, e forse per la prima volta si rese conto di quanto quel pensiero lo inorridisse. Non solo lo inorridiva, gli faceva male al petto come se l’avessero appena trafitto.

Non l’avrebbe mai permesso.

“Comandante! Yokoo e Nikaido!”

Kitayama non capì subito perché Senga sembrasse turbato nel pronunciare i nomi dei due compagni, ma il ragazzo, dalla posizione sopraelevata che lui aveva abbandonato poco prima, forse riusciva a scorgere il motivo per cui i due samurai, affannati e spaventati, stavano correndo tanto velocemente.

Poco prima di emergere nella radura, Nikaido inciampò nella radice di un albero e rovinò a terra. Forse aveva corso troppo, o forse gli abiti gli si erano impigliati negli arbusti, ma non si rimise subito in piedi.

“Takashi!”

Fujigaya era un fulmine quando si trattava di lanciarsi nella mischia per difendere qualcuno. Dimenticava prudenza e attenzione. Kitayama corse dietro di lui, mentre anche Yokoo si era fermato e aveva estratto la spada per tornare indietro e aiutare il più giovane. Ma era stanco, era evidente, e solo la percezione del pericolo imminente gli permetteva di non lasciar cadere a terra la katana.

“Yokoo, indietro! Quanti sono?”
“Tre, comandante,” quasi non riusciva a parlare, ogni sillaba interrotta dal tentativo della sua gola di incanalare quanta più aria possibile. “Gli altri li abbiamo seminati.”
“Va bene, vai indietro. Fujigaya!”

Taisuke aveva raggiunto Nikaido, ormai, e mentre gli occhi non si staccavano dalla profondità della vegetazione, una mano era tesa a tirare in piedi il compagno.

“Sì comandante!”
“Tornate indietro, entrambi. Se sono solo in tre, voglio vederli in faccia senza l’impiccio degli alberi. Tutti al centro della radura, subito!”

Quando i tre uomini vestiti di nero sbucarono nello stesso punto in cui Nikaido e Yokoo li avevano preceduti pochi istanti prima, quello che videro fu un gruppo di giovani samurai fieri e ben armati. Kitayama aveva estratto anche la spada corta, il wakizashi, ed era un passo avanti a tutti gli altri.

Non ci furono convenevoli né inutili scambi di battute, ma anche con due uomini spossati e uno ferito, i samurai restavano comunque in superiorità numerica. Tamamori fece la sua parte, superando la paura del dolore alla spalla, e prima che Kitayama potesse ordinare di tenerne in vita uno per avere delle risposte, tre cadaveri già giacevano sulle foglie più rosse che mai.

Sospirò, chiudendo gli occhi per pochi secondi. Fujigaya era scuro in volto e Kitayama sapeva che non era orgoglioso di quella battaglia. Sette contro tre, non c’era onore in quello scontro.

“Comandante…”

Nikaido e Yokoo erano ai suoi piedi, piegati su un ginocchio in segno di profonda umiliazione. Il più giovane doveva avere una lieve ferita al polpaccio perché vedeva del sangue fresco sull’hakama scuro.

Nessuno disse niente, non ce n’era bisogno.

“Ditemi cos’è successo.”

Yokoo non alzò nemmeno lo sguardo da terra. “Stavamo tenendo d’occhio alcuni degli uomini di Yara. Parlavano di ostaggi, di una strada dal fiume al villaggio, di una trappola… quando abbiamo avuto abbastanza informazioni abbiamo mandato Senga ad avvertirvi. Lui è… il più veloce.” Kitayama sorrise a quell’incertezza. “Li abbiamo seguiti per un po’, ma poi…”

Si bloccò di colpo, incerto su come continuare, e Nikaido fece un passo avanti. “E’ stata colpa mia, comandante. Ho messo un piede in fallo e sono caduto, attirando l’attenzione degli uomini. Abbiamo estratto subito le spade, pronti a combattere, ma il rumore della battaglia ha attirato altri di quei criminali e…”

Non c’era bisogno che lo dicesse, e Kitayama quasi pensò di risparmiargli l’umiliazione di ammettere una tale codardia. Fujigaya si inginocchiò accanto a Nikaido e gli fece sollevare il viso. Sorrideva, tranquillo, e solo gli occhi leggermente liquidi tradivano qualcosa di diverso dalla calma serafica.

“Non importa se siete fuggiti, Takashi. Siete vivi. Sono felice.”

Kitayama avrebbe dovuto dissentire con forza, alcuni comandanti avrebbero preteso un suicidio rituale in quel preciso momento per mondare il disonore che quel comportamento vigliacco aveva portato sul gruppo e soprattutto su di lui. Avrebbe dovuto almeno redarguire Fujigaya, perché non doveva permettersi di mettere bocca in questioni ufficiali.

Ma la verità era che era assolutamente d’accordo. Non gli importava niente che fossero fuggiti, erano vivi, era felice. E, soprattutto, l’immagine del corpo senza vita di Fujigaya che gli aveva attraversato la mente negli attimi prima della battaglia era ancora vivida, troppo vivida.

“Sono d’accordo. Non ci pensate. E’ già una missione difficile in sette, in cinque sarebbe stato assolutamente impossibile proseguire. Curate le vostre ferite, da stanotte cominceremo a tenere sotto controllo la strada. Fujigaya, vieni con me.”

Freddo ed efficiente, ecco come gli altri dovevano vederlo. Voleva il loro rispetto, non la loro amicizia. Per quella ci sarebbe stato tempo se mai fossero tornati a casa sani e salvi. Non gli dispiaceva l’idea di passare del tempo con quei ragazzi in giorni più sereni. Gli piacevano.

E mentre Nikaido e Yokoo si lasciavano finalmente cadere a terra, sopraffatti dalla stanchezza, Taisuke lo seguì, docile, al di là di alcuni robusti alberi che li avrebbero nascosti alla vista del gruppo.

Kitayama non ebbe neppure il tempo di aprire bocca prima di trovarsi davanti Fujigaya, inginocchiato a terra, il capo chino. Lo guardò per qualche secondo senza parlare, lievemente confuso: il motivo per cui gli aveva chiesto di seguirlo in un angolo appartato della radura non aveva niente a che vedere con il ragazzo praticamente prostrato ai suoi piedi.

“Ti chiedo perdono, comandante. Non avrei dovuto parlare. Takashi e Wataru hanno sbagliato e avevi tutto il diritto di punirli, è solo che…”
“Taisuke, tirati su.”

Fujigaya alzò la testa di scatto, sorpreso. Sentire Kitayama chiamarlo per nome aveva molta più forza di qualsiasi ordine avesse potuto impartirgli. Era una sensazione strana quella che provava in quel momento. Un calore piacevole al centro del petto, e un lieve brivido lungo la schiena. Tutto questo solo per un nome.

Si rilassò visibilmente, accennando un sorriso, e Kitayama stranamente lo imitò. Era ormai evidente che quella chiacchierata non aveva niente di ufficiale.

“Dico davvero, Fujigaya. Sarò forse un pessimo comandante, ma non desidero punire due ragazzi per aver preferito la vita alla morte. Siamo già troppo pochi. Hai solo dato voce ai miei pensieri.”
“Allora perché mi hai chiamato in disparte, Hiromi?”

Aveva un tono dolce, Fujigaya, e un lieve sorriso incoraggiante sulle labbra. Tutta quella situazione stava diventando imbarazzante per Kitayama. Non aveva una risposta alla domanda di Taisuke. Quando l’adrenalina della battaglia lo aveva abbandonato, la sua mente era come impazzita. Immagini di sangue e morte l’avevano invasa e aveva desiderato la compagnia del ragazzo prima ancora di verbalizzare il suo pensiero. Fujigaya aveva un’ottima influenza sulla sua tranquillità emotiva. Lo rilassava.

“Per quello che hai detto prima.”
“Prima?”
“Hai detto… hai detto che saresti stato felice di morire al mio fianco.”

Fujigaya inclinò la testa da un lato, perplesso. Anche se era strano vedere Kitayama in quello stato psicologicamente instabile, non poteva dire di capire del tutto la situazione.

“Sì… e quindi? So che morirò durante questa missione, tutti lo sappiamo. Ho scelto io di seguirti, a differenza degli altri, e questo significa che ho scelto io di morire. Al tuo fianco.”

Hiromitsu scosse la testa un paio di volte, camminando nervosamente come un animale in gabbia. Non c’era nulla di sbagliato nel ragionamento di Taisuke. Nulla che qualcuno potesse rimproverargli. Era l’espressione più innocente e pura del loro essere samurai.
Eppure trovava tutto tremendamente difficile da capire.

“Hiromi, mi spieghi qual è il problema? Ti stai comportando in modo strano. Sembra quasi che tu non sia pronto a morire.”
“Non è questo…”
“E allora cosa ti turba?”
“Se tu muori…” Kitayama si bloccò, le mani strette a pugno e lo sguardo fisso in quello del compagno. “Se tu muori, Fujigaya, questa missione non avrà più alcun senso!”

Taisuke sorrise, semplicemente. Chiunque altro sarebbe rimasto sorpreso, raramente il comandante perdeva la sua fredda compostezza, ma non lui. Lo conosceva troppo bene. Piuttosto, era felice di essere il motivo di tanto turbamento, non aveva mai nascosto a se stesso quanto i suoi sentimenti per Kitayama fossero più intensi dell’amicizia.

“Dov’è finito il tuo senso del dovere, comandante? La missione prima di tutto?”

Kitayama sospirò e chiuse gli occhi per qualche secondo. Non capiva perché stesse dicendo quelle cose a Fujigaya, era come se la sua bocca si aprisse prima ancora di formulare le frasi nella sua mente. Tutto quello per cui si era addestrato per anni, il giovane ma freddo ed efficiente comandante, si stava sgretolando nel più imprevedibile dei modi. E a scatenarlo, beffa suprema, non era stata che un’immagine, l’immagine di un corpo amato immerso in una pozza di sangue, come risultato del suo fallimento.

Vivo. Desiderava che Fujigaya restasse vivo, il resto non aveva importanza.

“Preferisco veder morire il mio senso dell’onore piuttosto che te.”

Se chiunque l’avesse sentito, uomo, donna o bambino, si sarebbe preso gioco di lui. Avrebbe perso il suo rango, i suoi privilegi, il suo nome. Sarebbe stata la sua fine. Loro non erano che pedine in un gioco molto più grande di quanto potessero immaginare ed erano cresciuti nella consapevolezza di esserlo. Non c’era spazio per futili sentimentalismi.

In qualsiasi altra situzione, Kitayama avrebbe preferito togliersi la vita piuttosto che mostrarsi in quel modo a chiunque, ma con Fujigaya era… diverso.

Lentamente percepì il suo braccio sollevarsi e la sua mano avvicinarsi al viso di Taisuke. Non aveva il coraggio di guardarlo in viso, non aveva l’ardire di sollevare gli occhi da terra. Se dovevano morire da lì a poche ore, però, non voleva lasciare questioni in sospeso.

Quella sarebbe stata l’unica volta in cui non avrebbe marciato a testa alta.

“Comandante!”

Prima che le sue dita potessero anche solo sfiorare il viso di Fujigaya, la voce lievemente infantile di Senga gli fece ritrarre di scatto il braccio. Si voltò verso il ragazzo come se nulla fosse successo, i muscoli irrigiditi dalla tensione. Anche Fujigaya sembrava a disagio, ma probabilmente Senga non si sarebbe mai accorto di nulla.

“Qualche problema?”
“Nessun problema, comandante, ma dobbiamo organizzarci per la notte e mi hanno mandato a chiamarti. Io… mi dispiace, ho interrotto una conversazione importante?”

Kitayama sorrise all’ingenua domanda del ragazzo e al suo sguardo confuso. Era giovane, disperatamente alla ricerca di ogni tipo di approvazione da parte degli adulti. Parte del suo temperamento era dovuto al desiderio di essere accettato in quel gruppo che ancora tendeva a considerarlo un bambino. A ogni battaglia, Kitayama sperava che quel desiderio di essere un adulto non lo portasse ad essere avventato.

“No, hai fatto bene a chiamarmi. Arriviamo subito.”

Senga sorrise soddisfatto e annuì impettito, prima di voltarsi e correre verso il resto del gruppo. Il ragazzo correva sempre, anche quando non ce n’era bisogno. L’energia della gioventù.

Kitayama s’incamminò più lentamente dietro di lui. Sapeva che la conversazione con Fujigaya era ben lontana dall’essere finita, ma quasi tutto il suo coraggio era svanito all’arrivo di Senga. Gli sembrava di essersi reso abbastanza ridicolo con il suo braccio destro, senza bisogno di infierire ulteriormente sul suo amor proprio.

Era così assorto nei suoi pensieri che, quando una mano del ragazzo gli sfiorò il braccio, quasi estrasse la katana dal fodero. Aveva bisogno di ritrovare la concentrazione.

“Hiromi…”

Fujigaya aveva ritratto subito la mano, come se toccare il suo comandante in quel modo così familiare non rientrasse nei suoi privilegi. Aveva lo sguardo basso, quasi fosse indeciso se parlare o meno, e vederlo così insolitamente intimidito fu forse l’unico motivo per cui Kitayama non esitò a guardarlo in volto.

“Sì?”
“Il boschetto… te lo ricordi il boschetto in cui giocavamo da piccoli? Quello con il grosso tronco cavo in cui ci nascondevamo e fingevamo di essere dei samurai in missione… te lo ricordi?”

La mente di Hiromitsu si aprì ai ricordi di una coppia di bambini vivaci e rumorosi nascosti nell’ampia cavità di un albero scavato da un fulmine. Era il loro posto speciale, come avrebbe potuto dimenticarlo. Un luogo che avevano trovato per puro caso durante una lezione all’aperto e che erano sicuri di conoscere solo loro. Durante tutto l’anno avevano continuato a portare nell’albero piccoli tesori e riserve di cibo, quasi una seconda casa in cui potevano parlare e giocare e stare insieme senza nessun altro intorno.

L’avevano abbandonato una volta cresciuti, quando la vita aveva sostituito l’immaginazione e le spade d’acciaio i bastoni di legno. Non erano mai più tornati in quel luogo, ed era certo che non ci sarebbero tornati mai più.

“Lo ricordo. Chissà se quell’albero esiste ancora…”
“Esiste. Prima di partire ci sono tornato. Era sempre circondato di fiori bellissimi, di tutti i colori. Mi piacevano quei fiori.”

Era tipico di Taisuke prestare attenzione a particolari come i fiori e i colori. Di quel luogo, Kitayama ricordava al massimo lo spessore dell’antica corteccia e il profumo forte della resina che si attaccava ai vestiti. Ma Taisuke era fatto così, più dolce e sensibile di quanto lui sarebbe mai stato.

“Hiromi, promettimi una cosa. Quando questa missione sarà finita, torneremo insieme all’albero. Voglio rivedere quei fiori insieme a te, anche se solo per una volta. Per favore.”

A Kitayama si strinse il cuore, mentre i loro occhi si incontravano e nemmeno l’imbarazzo riusciva a costringerlo ad abbassare il capo. Taisuke era serio come raramente lo aveva visto, sempre pronto a offrire risate e sorrisi per mantenere alto il morale della squadra. Aveva le guance lievemente più rosse di quanto Hiromitsu ricordasse, ma neanche per un attimo pensò che potesse essere arrossito. Erano le donne innamorate ad arrossire, non i guerrieri dell’imperatore.

E c’era la richiesta di una doppia promessa nelle parole di Fujigaya. Il ragazzo non gli stava chiedendo solo di andare di nuovo in quel loro posto speciale. C’era qualcosa oltre la superficie delle parole. C’era un urlo silenzioso, la speranza e la promessa che entrambi sarebbero rimasti in vita, entrambi avrebbero visto l’alba del giorno dopo e avrebbero trascorso insieme giorni più tranquilli.

Forse, semplicemente, Fujigaya gli stava chiedendo di promettergli che sarebbero rimasti insieme. Come quando erano bambini, eppure in modo diverso.

“Te lo prometto, Taisuke. Torneremo a vedere i tuoi fiori quando tutto questo sarà solo un ricordo. Quindi… resta vivo. Da solo non saprei nemmeno trovare la strada per l’albero.”

Fujigaya sorrise. “Bugiardo. Andiamo, comandante, torniamo alla missione.”

*

Il piano era semplice: secondo le informazioni raccolte da Yokoo e Nikaido, la strada che conduceva dal villaggio al fiume sarebbe stata presto occupata dai criminali di Yara. Se davvero avevano bisogno di ostaggi per farli uscire allo scoperto, li avrebbero sicuramente presi tra le donne e i bambini che spesso percorrevano da soli quel sentiero tranquillo per arrivare all’acqua.

Non si trattava di una strada lunga, ma come al solito il loro numero ristretto lasciava troppe incognite in ogni loro piano. Non potevano separarsi, non potevano permettere che nemmeno uno di loro andasse ad avvisare il villaggio perché ogni uomo poteva fare la differenza.
Kitayama aveva riflettuto in fretta ed era arrivato alla conclusione che pattugliare la strada restando nascosti tra gli alberi e gli arbusti sarebbe stata l’idea migliore. Per una volta, non avrebbero sentito la mancanza delle ingombranti armature.

“E’ tutto chiaro? Restate in contatto visivo con chi vi sta davanti e con chi vi sta dietro e state attenti a non fare rumore. Se Yara ha deciso di cambiare strategia, non voglio che i paesani si credano sotto attacco, non voglio scatenare incidenti diplomatici, visto che non abbiamo tempo di avvertire il villaggio. Ci divideremo in due squadre. Senga, Miyata, Tamamori e Nikaido su un lato della strada, Fujigaya, Yokoo ed io sull’altro. Come va la spalla, Tamamori?”

Il ragazzo sorrise, muovendo piano il braccio. La fasciatura era nascosta dal vestito, invisibile, e sembrava riuscire a maneggiare la lancia corta senza troppi problemi.

“Miyata è un ottimo medico, comandante. Posso combattere.”

Kitayama annuì e poggiò una mano sulla spalla di Miyata, accanto a lui. Era incredibile come ognuna delle loro capacità si integrasse perfettamente con quelle degli altri. Era come se fossero stati tutti destinati ad unirsi nella stessa squadra, e questo era il motivo principale per cui la speranza di uscirne vivo e vittorioso era cresciuta nel suo cuore nelle ultime ore.

“Perfetto. Ricordate, la salvezza dei paesani è la priorità assoluta. Sapete cosa significa.”

Non era una domanda, e tutti annuirono.

“Riposate ancora per qualche minuto, poi ci metteremo in marcia. Stanotte ci sarà luna piena. Sarà più facile tenere d’occhio la strada, Tamamori ha detto che non è coperta dai rami degli alberi, ma dovrete fare ancora più attenzione a non farvi vedere dal nemico. Per il resto…” Kitayama esitò. Nella sua vita gli era capitato di partecipare a qualche battaglia poco importante, e sapeva che il comandante era tenuto a dire qualcosa agli uomini che di lì a poco sarebbero andati a morire sul campo. Aveva sentito discorsi studiati e veementi improvvisazioni, ma ora gli sembrava così stupido, così ipocrita inneggiare alla bellezza della morte e all’importanza di morire con onore, quando l’unica cosa che desiderava realmente era che tutti i ragazzi che erano raccolti attorno a lui in quel momento ne uscissero vivi. Voleva che tornassero a casa dalle loro famiglie. Ci sarebbe stato tempo per una morte onorevole, quando sarebbero stati almeno in grado di capire quanto meravigliosa potesse essere la vita.

“Mi dispiace, so cosa vi aspettate di sentire: combattete con onore e affrontate la morte a testa alta, da veri samurai. Invece io vi dico: combattete con onore e non rinunciate troppo presto alla vita. Quando il sole sorgerà, voglio rivedervi tutti ancora vivi.”

Gli sguardi di tutti non avrebbero potuto essere più confusi, ma c’era un solo sguardo che a Kitayama interessava incrociare in quel momento.

Fujigaya sorrideva leggermente, le labbra appena sollevate, mentre annuiva nella sua direzione. Come sempre, bastò quel semplice contatto visivo per convincere Kitayama che non tutto era perduto e che la missione non era davvero impossibile.

Avrebbe mostrato di nuovo a Taisuke i fiori che tanto desiderava rivedere.

*

TBC

kis-my-ft2, genre: angst, pairing: hirosuke, rating: pg13, genre: au, fanfic

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