[Camelot] Make it better (Merlin/Sir Kay)

Mar 11, 2011 03:56

Titolo: (Take a sad song and) Make it Better
Fandom: Camelot
Personaggi/Pairing: Merlin/Kay, nominée Arthur, Morgan, Lot
Rating: PG
Conteggio Parole: 6K (tonde tonde \o\) (fidipu)
Prompt: Mago, per la quarta settimana della Cow-T di maridichallenge.
Avvertimenti: slash, spoiler per buona parte del pilot, linguaggio. Possibile OOC perché, beh, la caratterizzazione era un bel po' lasciata all'immaginazione, right? *ride*
Note: Sto postando dal cellulare & ho l'insonnia di nuovo, yay me *g*.
- Esiste davvero un Bestiario di un tale Philippe de Thaon, scritto intorno al 1121, quindi chiaramente Merlin non avrebbe potuto averlo, ma, ehi, è Merlin, lui ha i poteeeeeri. *ride*
- La dipsa è il serpente velenoso più popolare nei bestiari medievali, secondo Wiki si diceva che chi fosse stato morso da questo gioioso piccolo animaletto sarebbe morto prima ancora di accorgersi del fattaccio. :3
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



(take a sad song and)
~ Make it Better.

Kay non ha un’opinione precisa sulla magia: non la disprezza, non l’ammira particolarmente, anche se, dal basso della sua minima esperienza nel campo - infusi di erbe medicinali che funzionano davvero, formule per accendere il fuoco che invece non hanno mai dato risultati decenti, sciocchezze del genere, insomma, - si rende conto che, magari, ad averla in dono per davvero potrebbe essere estremamente, paurosamente utile. Allo stesso modo, non disprezza e non ammira a priori chiunque millanti di saperne fare uso; il punto è che a Kay non piace farsi opinioni a priori, ecco tutto, perché suo padre gli ha insegnato che uno sputasentenze è una persona che parla tanto e pensa poco e ascolta ancora meno, e a Kay, generalmente, piace molto pensare, e ancora di più ascoltare.
Perciò, insomma, quando Merlin rivela di essere uno stregone - e anche uno stregone potente, almeno a giudicare dagli avvertimenti accorati che la loro madre bisbiglia all’orecchio di Kay, mentre lo abbraccia prima che lui e Arthur vadano via, verosimilmente per sempre, - Kay non si ritrova con un immediato giudizio di lui tra le mani. Gli piacerebbe poter pensare che, oh, santo cielo, è uno stregone, un abominio che cammina, Domineddio abbia pietà della sua anima, come farebbe la totalità della popolazione del suo villaggio; gli piacerebbe, allo stesso modo, potersi dire che dev’essere eccezionale e straordinario essere in grado di fare davvero cose che gli altri - la gente normale, tanto per cominciare, - non possono neppure immaginare - non cose stupide, tipo sapere in quale notte tagliare i capelli di Arthur per farli ricrescere tre volte più in fretta; cose davvero incredibili, cose grandiose, cose che cambino il mondo. Non ci riesce, però, perché è abituato ad aspettare che le persone facciano e dicano cose, prima di abbandonarsi a simpatie o antipatie di sorta, e Merlin, davvero, è così tranquillo e neutro e quasi assente che per Kay è difficile tentare di costruirsi anche solo una prima impressione di lui.
Anche Arthur sembra essere piuttosto confuso dallo stregone, per la verità, ma è comprensibile: si tratta dell’uomo che gli ha appena rivelato che tre quarti delle cose che credeva reali, ops, in effetti erano delle grosse bugie arrabattate alla meno peggio per tenere segreti i suoi nobili natali. Molto spiacente, Principe Arthur; ora, per favore, sii gentile e riprenditi il trono.
È per una ragione esclusivamente pratica, quindi, - non si può viaggiare con qualcuno e praticamente affidare la propria vita nelle sue mani se prima non si decide che la persona in questione è degna di tanta fiducia, giusto? Giusto, - che Kay comincia a fissare Merlin nell’attimo esatto in cui i loro cavalli lasciano le terre di suo padre, e non smette per tutto il resto del giorno e di quello successivo e di quello dopo ancora.
Lo stregone non sembra accorgersi del modo in cui Kay esamina ogni suo movimento, ogni suo respiro, o del fatto che cavalca sempre una spanna più avanti di Arthur, sporgendosi un po’ sulla sella solo per riuscire a rubare un dettaglio del suo viso, dei suoi occhi vispi, delle sue labbra, della sua mandibola forte, della curva morbida del suo collo. Quando si volta verso di loro per raccontare un aneddoto storico di nessuna importanza o spiegare le proprietà di questa o quella pianta medicinale che ha intravisto sul sentiero, Merlin non sembra badare alle guance di Kay che d’improvviso s’incendiano per il terrore che lo stregone possa essersi accorto della sua ispezione poco cortese.
Non dà alcun segno di essere consapevole della sola esistenza di Kay neppure quando si accampano per la notte e Arthur, ad un certo punto, finalmente la smette di tempestarlo di domande, e si mette a fissare suo fratello - beh, il suo fratellastro, a questo punto, - che apertamente fissa lui, che invece fissa il folto della foresta come se ci vedesse il futuro. E più di una volta Kay ha colto nei suoi occhi un’inquietudine incerta, e una tensione insolita nelle sue spalle, e forse, forse, in quei momenti Merlin stava davvero guardando il loro destino dritto in faccia.
Niente di tutto questo, comunque, aiuta Kay a farsi un’idea precisa dello stregone, della sua personalità, ed è vagamente deludente che il metodo sperimentale di Ector si sia rivelato di tale inutilità. A Kay piaceva pensare che suo padre fosse praticamente infallibile, grazie tante, e l’aver scoperto che quel coglione madornale di Arthur non era esattamente suo figlio gli aveva dato un grosso aiuto in quel senso, ma ora? Un fallimento su tutta la linea, studiare il modo che Merlin ha di stare seduto in sella non gli è servito a capire se è davvero il mostro inquietante che i suoi abiti suggeriscono.
Ed è frustrante, è oltremodo frustrante, ma non c’è molto che Kay possa fare, se non fissarlo ancora un po’. E non accorgersi di un fitto ramo di agrifoglio che sporge sul sentiero, se non quando è troppo tardi e ci è già praticamente passato attraverso, stronzo d’un cavallo troppo basso per farsi male o per vedere le piante moleste, graffiandosi goffamente tutto il braccio destro e persino la faccia.
Arthur lo prende in giro per il resto della giornata, senza la minima traccia di pietà, e smette solo quando Kay, irritato, gli domanda se sarà il tipo di re che ride delle disgrazie del suo popolo. Forse era una replica un po’ troppo cattiva, un po’ gratuita, ma, santo cielo, Arthur lo ha tormentato per ore e il braccio gli fa davvero male, d’accordo?
Più tardi, nel cuore della notte, mentre Arthur già dorme, ancora imbronciato persino nel sonno, Merlin viene a sedersi su un masso accanto a quello su cui è appollaiato Kay, e ha fatto rumore apposta per non spaventarlo comparendogli accanto, perché quel cavolo di stregone normalmente è più silenzioso di un campo di grano in piena estate. Non dice nulla, ma gli porge una piccolissima ciotola di legno, piena di un unguento che profuma di buono.
Kay lo guarda, non ha neppure bisogno di formulare la domanda che gli ronza nella testa come un alveare perché Merlin capisca; tutto quello che riceve in risposta, però, è solo l’ombra di un sorriso, illuminata a stento dal riverbero aranciato del fuoco. Merlin non gli dà il tempo neppure di respirare, ma gli preme la ciotola tra le mani ed è subito in piedi.
«Applicalo sulle ferite ora e domattina, e per mezzogiorno sarai guarito,» dice, ed è la prima volta che si sia rivolto direttamente a Kay, non ad Arthur e, come un danno collaterale, a Kay, e non è il genere di cose che dovrebbero essere significative abbastanza da essere notate, non lo è per davvero; nondimeno, Kay non riesce a non farci caso, e si ritrova a sorridere per un tempo che gli pare infinito, e che comunque è sufficiente perché il fuoco quasi si spenga e Arthur si svegli e gli domandi perché diavolo ha su quell’espressione assolutamente idiota.

*

Il castello di Camelot è, senza ombra di dubbio, un rudere.
Merlin ha cercato di minimizzare gli evidenti danni strutturali, la mancanza di un soffitto, l’invasione di piante rampicanti e la generale decadenza dell’edificio, ma neppure Arthur s’è bevuto le sue chiacchiere, perciò lo stregone ha desistito molto in fretta. Kay, dal canto suo, è stato talmente matto da arrivare fin qui senza neppure fare una piega quando il suo fratellino ha ammazzato un uomo nel bel mezzo del viaggio, perciò può benissimo sopportare di passare una notte o due in una grande fortezza in rovina. L’hanno costruita i Romani, buon Dio, ed è ancora in piedi, in buona parte, quindi, sì, ne vale la pena, decisamente ne vale la pena.
Tanto più che Kay non è mai stato un appassionato dell’accamparsi sotto le stelle, e anche un accenno di mura basta a renderlo un po’ più tranquillo. Tanto più che quand’altro gli capiterà di essere circondato di cavalieri in armatura più che felici di inchinarsi ai piedi di Arthur? Questa storia del legittimo erede al trono diventa sempre più divertente ad ogni sguardo educatamente adorante che si posa sulle spalle magre del suo fratellino. Forse Kay la sta prendendo troppo alla leggera, magari sarebbe il caso che si rintanasse in un angolo e impazzisse di angoscia e preoccupazione perché Arthur sarà re e questo comporterà guerre e combattimenti e il rischio di morire e centinaia di altre cose spaventosamente pericolose e non esiste che riesca a sopportare tutto quanto, semplicemente non esiste, eppure, per qualche strana, assurda ragione che può essere imputabile esclusivamente alla sua incapacità di convincersi che, ehi, è tutto vero, continua a sentirsi leggero come un fiocco di neve, spensieratamente contento di poter passare la notte in un castello costruito dai Romani.
Merlin sembra condividere il suo entusiasmo, perlomeno, e per quanto la vicinanza dello stregone lo getti ancora in un vago stato d’imbarazzantissimo imbarazzo, Kay è piuttosto rincuorato dal fatto di non essere l’unico stronzo che non si assilla di problemi e domande e dubbi e tutto il resto. Che è precisamente quello che Arthur sta facendo da quando hanno lasciato casa, più o meno, ma è comprensibile: è lui a metterci la faccia, in fondo, e a rischiarci il collo, soprattutto, non certo Kay, non allo stesso modo, e sono sue le spalle su cui ricadrà il peso del regno intero, a meno che lo stregone e i suoi amici a cavallo non siano soltanto dei pazzi visionari. Kay potrà prendere per sé un po’ del suo carico e fare il possibile per mantenerlo vivo il più a lungo possibile, ma al resto dovrà pensare Arthur, e dovrà pensarci davvero.

*

La prima notte a Camelot si preannuncia un disastro. Kay e Arthur esplorano un po’ il castello - per la precisione, Kay si aggira per i corridoi con in mano una fiaccola e, due passi dietro di lui, Arthur continua a lamentarsi e lamentarsi e lamentarsi e piangersi addosso ed è così noioso e insopportabile che Kay smette di ascoltarlo molto presto, è una cosa che gli è sempre riuscita particolarmente bene, - e poi decidono che, sì, è diroccato esattamente come sembrava dall’esterno, forse anche peggio; alla fine Arthur prende per sé l’unica stanza col soffitto intatto, il che lascia a Kay un ampio margine di scelta tra cinquanta e passa camere in differenti stati di devastazione.
Siccome non ha alcuna fretta di mettersi a dormire - il sonno non ne vuole sapere di arrivare, per quanto Merlin, a cena, abbia ripetuto e ripetuto e ripetuto fino alla nausea che è necessario che recuperino le forze, tempi oscuri li aspettano eccetera eccetera eccetera, - Kay decide di vagare ancora un po’ per il castello, in cerca di un soffitto intero o, perlomeno, di un letto sufficientemente lontano dal russare di suo fratello. Ora che può sottrarsi alla tortura con cui Arthur l’ha tormentato nelle ultime decadi, non c’è motivo per cui non debba farlo.
Si perde quasi subito tra le ragnatele e l’edera, naturalmente, e ha una crescente necessità di mettersi a urlare e correre in tondo finché un qualche pio cavaliere di suo fratello non sarà giunto in suo soccorso, ma gli sembra più intelligente infilarsi nella prima porta che trova, sperando di ritrovarsi miracolosamente all’ingresso del castello, o di nuovo a casa o qualcosa del genere. Non accade niente di magico o straordinario, prevedibilmente: Kay si ritrova in una stanza identica a tutte quelle che ha visto finora, piccola, buia, completa di soffitto sfondato e mobili marciti per l’umidità. Muove un paio di passi in avanti, perché gli è sembrato di vedere qualcosa muoversi al di là della finestra senza imposte e vorrebbe controllare che non ci sia un mostro in agguato pronto a saltargli alla gola non appena si distrae un secondo, ma inciampa in una radice e quasi casca per terra.
Avrebbe potuto rompersi l’osso del collo o sfondare il pavimento di pietra e ritrovarsi al piano di sotto, morto o gravemente ferito, e invece riesce a rimanere in piedi; nel tentativo di riacquistare un equlibrio più o meno accettabile, mulina in giro la fiaccola, e illumina tre file di mensole inchiodate alla parete, cariche e quasi piegate dal peso di svariati, spessi libri coperti di polvere.
Incuriosito, Kay decide di indagare oltre; sceglie un volume a caso e ne esamina la copertina di pelle logora, impreziosita di borchie rese opache dal passare degli anni, forse dei secoli. Lo appoggia alla mensola e lo apre, osservando, alla luce della fiaccola, i caratteri eleganti che si srotolano ordinatamente lungo le pagine come l’ordito su un telaio, ma non riesce a comprendere l’argomento perché l’alfabeto gli è sconosciuto; compaiono delle rune, di tanto in tanto, e simboli misteriosi, e a Kay tanto basta per capire che si tratta di un libro di magia. Un libro di magia, come lui non ne ha mai visti prima. Affascinato, spalanca il volume successivo, che è un bestiario in latino, pieno di creature dall’aria spaventosa e pericolosissima, e quello dopo ancora, le cui pagine sono tutte vuote, dalla prima all’ultima, solo pergamena ingiallita e rovinata, e ancora un altro, e continuerebbe a curiosare tra cose che non capisce pienamente fino al mattino, se una mano vagamente callosa non gli si piantasse su una spalla, costringendolo a voltarsi.
Toh, c’è Merlin.
«Kay,» dice, la voce bassa e decisa che dà a Kay una pelle d’oca niente affatto spiacevole, ma ad ogni modo imbarazzante. «Mi stavi cercando?»
«Cos--? Uhm, no. No, veramente no. Io mi sono… mi sono perso, credo,» balbetta Kay, sorpreso, confuso, distratto dalla vicinanza dello stregone. «Mi dispiace. Stavo solo curiosando, ho trovato questi libri e… beh. Sì. Potreste voler dare un’occhiata voi stesso, sembrano… interessanti.»
Inaspettatamente, Merlin ride, non per schernire Kay o prenderlo apertamente per il culo, ma come se fosse divertito per davvero, forse con una punta di tenerezza, e, santo cielo, come fa questo a non essere un sogno? Un incubo?
«Non c’è bisogno che li legga,» sta dicendo Merlin, intanto, e Kay riesce a sentire il suo respiro caldo sul viso e ne deduce che in qulache modo lo stregone deve essersi avvicinato troppo, decisamente troppo. «Li conosco, sono miei.»
«Questi libri… sono vostri?»
Merlin annuisce, e la fiamma vivida della fiaccola di Kay si riflette perfettamente nei suoi occhi neri, ma è ridotta ad una scintilla piccolissima e maliziosa e quasi terrificante.
«Questa stanza è mia, in effetti, per essere precisi,» dice, e Kay si sente avvampare. «Ho trascorso molto tempo tra le mura di Camelot. Alcuni di questi libri,» e accarezza con affetto la costola di un volume particolarmente grosso, «mi appartengono da sempre, altri li ho ricevuti in dono da ragazzo, qualcuno l’ho scritto io stesso. Li ho lasciati qui perché ormai non ho più bisogno di consultarli, potrei recitarli a memoria.»
Kay annuisce, e rimane semplicemente a guardare - ormai può dirsi un esperto - mentre Merlin si perde in chissà che ricordo, gli occhi su un libro che, per quel poco che Kay riesce a decifrare dalle rune scarabocchiate lungo il dorso, tratta di algebra e moti delle stelle.
Lo stregone si riscuote, dopo un po’, e concede a Kay un sorriso quasi di scuse.
«Dicevi di esserti perso?» chiede, gentilmente, e Kay annuisce di nuovo, rapito dalla smorfia cordiale sul suo viso. «Posso mostrarti una stanza in cui passare la notte.» E subito lo precede lungo il corridoio, su per due rampe di scale, fino ad una magnifica camera da letto grande due volte la stalla in cui Kay ha dormito negli ultimi vent’anni.
La prima notte a Camelot si preannunciava un disastro, e invece si rivela sorprendente, e bella.

*

Con la simpatica visita di Morgan e Lot diventa tutto un’immensa pazzia. Arthur è ancora più inquieto di prima - non serve a nulla che Kay gli ripeta decine e decine di volte che ha affrontato l’incontro con lo spirito giusto, che è stato bravo, che probabilmente nessunoa vrebbe saputo fare di meglio, al suo posto, - Merlin si chiude in un mutismo per niente incoraggiante e i Cavalieri di Camelot cominciano ad affilare le loro spade e stringere le fibbie delle armature. Kay prepara uno stufato di coniglio per pranzo in un’atmosfera che sembra quella di un mondo sul baratro della guerra.
E proprio quando sembra che le cose non possano andare peggio di così, quando la tensione nel castello è tale che Kay la potrebbe spalmare sul pane, quando Arthur non riesce neppure ad alzare lo sguardo da terra, tanto è terrorizzato dall’idea che sua sorella o uno dei suoi sicari possa materializzarglisi davanti se solo osa respirare, di punto in bianco, nel mezzo del pomeriggio più asfissiante che la storia della Britannia ricordi, Merlin decide di sparire.
Kay è il primo ad accorgersene, naturalmente, e per un po’ anche l’unico; quando Arthur comincia a fare domande - «Dov’è Merlin? Devo parlargli di questo, quello e quest’altro ancora,» - riesce a distrarlo abilmente, addirittura per un paio d’ore, senza destare sospetti. Ad un certo punto, però, diventa evidente che sta coprendo qualcosa di più di un uomo che «sta facendo un bagno caldo, sai, era esausto per il viaggio». Diventa evidente che sta tentando di fare in modo che Arthur non si accorga che lo stregone, furbo bastardo, ha deciso di togliere le tende.
Non appena Arthur capisce - e gli basta guardare Kay negli occhi per un momento, perché Kay non è davvero capace di reggere una bugia, - naturalmente dà di matto. Dà così tanto di matto, mordendosi le labbra finché tutta la faccia non gli diventa rosso fiammante per l’afflusso di sangue, stringendo i pugni fino a farsi sbiancare persino i polsi e insomma contenendo dentro quelle spalle esili una rabbia, una disperazione che Kay non riesce neppure a concepire, che finisce per crollare sul letto, esausto, più svenuto che addormentato, non appena il sole comincia a calare oltre l’orizzonte, macchiando il cielo di azzurro e di rosa.
Kay gli rimbocca le coperte con l’attenzione di un padre, fermandosi a guardare l’espressione ancora corrucciata e triste e persa del suo fratellino e domandandosi se questo è tutto quello che può fare per lui - esserci e basta, nient’altro, lavargli le mutande e offrirgli un sorriso incerto mentre le pareti del castello gli crollano sulla testa.
Non riesce a sopportare neppure l’idea di respirare la stessa aria di Arthur, allora, quando l’unica risposta sincera che può darsi è sì, sì, sì, mille volte sì, sono materialmente inutile per lui, sì; scappa fuori dalla sua stanza, senza neppure portarsi un mozzicone acceso di candela. Inciampa così tanto, lungo il corridoio, che a un certo punto rinuncia a proseguire e si lascia cadere per terra, sbucciandosi le ginocchia e i palmi delle mani. Il pulsare sordo del cuore lungo i margini sfrangiati delle ferite lo fa sentire un po’ meglio, un po’ più vivo, un po’ meno colpevole nei confronti di Arthur perché ehi, almeno sta sanguinando. Almeno sta facendo qualcosa.
Si appoggia alla parete di roccia ruvida, chiude gli occhi, respira a pieni polmoni l’aria già fredda del tramonto e pensa, Kay, che se è questo, tutto quello che può fare per Arthur, avrebbe fatto meglio a rimanersene a casa. Ci sono modi di ferirsi e mutilarsi a vita in tutti i posti del mondo, non era necessario che lo seguisse fino a Camelot, che incontrasse la sua sorellastra, e re Lot, e tutti quei cavalieri senza macchia e senza paura, ridicolmente perfetti. Non era necessario che incontrasse Merlin, quei suoi occhi scuri come il pozzo di una miniera che conduce nelle viscere della Terra, quel potere, puro e semplice, che sembra emanare da ogni singolo frammento della sua pelle, del suo sorriso, della sua voce.
Non era necessario. Kay non è necessario a niente e a nessuno, se non a occupare spazio e cucinare il pranzo.
Poi sente un fracasso come di vetri infranti provenire da dietro l’angolo - dalla direzione in cui c’è la stanza di Merlin, suggerisce qualcosa sul fondo del suo petto che Kay ascolta solo a metà, - e tanto basta perché si liberi del momento di autocommiserazione, si rialzi e si avvii da quella parte.
Il corridoio è buio e ora Kay cammina con attenzione, saggiando il terreno prima di avanzare anche solo di mezzo passo, cercando radici nascoste nell’ombra e pietre instabili nel pavimento. Distingue un sottilissimo fascio di luce, poco più avanti, come di una fiamma nascosta dietro una porta chiusa, ed effettivamente c’è qualcuno nella stanza di Merlin, ed è un qualcuno particolarmente maldestro, perché Kay lo sente far cadere almeno tre libri e poi sibilare un’imprecazione.
La porta non cigola, quando lui la spalanca, e allora Kay si fa cautamente strada nella camera, prendendosi un attimo per abituare gli occhi alla sfolgorante luce del fuoco che scoppietta allegro proprio nel mezzo dell’ambiente, contenuto da un rozzo mucchio di pietre.
L’intruso è chino dietro il tavolo da lavoro che Merlin ha sistemato vicino ad una parete, dall’altro lato della stanza, e Kay riesce a vedere solo la sommità della sua schiena, coperta da uno spesso mantello marrone. Ha già messo mano alla spada, senza neppure accorgersene, e trasale appena, quando l’uomo fa cadere qualcos’altro - una boccetta, a giudicare dal rumore.
«Fermo dove sei,» dice; la sua voce è ferma, e così la sua presa sull’elsa della spada che, sguainata, dipinge paurosi bagliori argentati sulla parete. «Voltati lentamente, e dimmi il tuo nome, e perché sei qui.» L’intruso resta immobile per un momento, e Kay suppone si sia spaventato e stia cercando di capire se ha la possibilità di uscire di qui vivo. «Sono armato,» specifica, allora, perché non ha voglia di macchiarsi le mani del sangue di uno sciocco innocente.
Questo sembra bastare a convincere l’uomo, che si rilassa visibilmente e si rialza, voltandosi appena: quando il fuoco getta la sua carezza arancione sul profilo di Merlin, Kay quasi lascia cadere la spada per la sorpresa.
«M-Merlin!» balbetta, rinfoderando in fretta l’arma e avvampando come se fosse lui il ladro colto con le mani ancora impiastricciate di fragole. «Cosa-- vi chiedo perdono, non pensavo foste voi, in genere siete così silenzioso!»
Lo stregone non replica nulla, ma annuisce sbrigativamente e torna a fissare le mensole che ha davanti a sé; tende una mano per prendere qualcosa, ed è allora che Kay si accorge della difficoltà che ha nel muoversi, nell’afferrare gli oggetti. Il gomito di Merlin dà uno scatto maldestro e colpisce quello che dev’essere il quattordicesimo libro di fila, a giudicare dalla quantità di volumi sparsi sul pavimento, e lo stregone, di nuovo, sbotta, irritato.
Kay è subito al suo fianco, e come gli tocca una spalla e lo vede irrigidirsi capisce che, mentre era via, Merlin deve aver fatto qualcosa di tendenzialmente stupido e certamente pericoloso, e che ha finito per farsi male.
«Sdraiatevi,» gli dice, allora, col tono più serio e categorico che ha, guardandolo negli occhi. Riesce anche ad arrossire, però, nel frattempo, per cui forse l’effetto finale non è esattamente autorevole quanto sperava. «È evidente che siete ferito, e qualsiasi cosa stiate cercando di fare, posso pensarci io.»
E lo sospinge gentilmente verso il letto, poco più in là; Merlin resiste, per un attimo, ma poi sembra fidarsi - il cuore di Kay sembra strizzarsi un po’ più del dovuto a questo pensiero, - e arretra fino a sedersi sul bordo del materasso.
«Dietro il bestiario di Thaon,» dice, e si sente che fa fatica anche solo a parlare, a concentrarsi, ma Kay si costringe a non farci caso e cerca come un disperato il bestiario di Thaon, che naturalmente è l’unico libro che Merlin non è riuscito a buttar giù. La ferita dev’essere grave davvero. «Un’ampolla. Verde. Prendila, vieni qui.»
Ci sono almeno due dozzine di ampolle, dietrol il bestiario di Thaon, e a Kay ci vogliono quasi quattro respiri per trovare l’unica verde. La prende con due mani, terrificato dall’idea di farla cadere, e mai decisione fu più saggia, perché anche così quasi molla la presa - di nuovo, - quando si volta e vede che Merlin si è sfilato il mantello e si è strappato con un pugnale la casacca, esponendo il petto nudo e rivelando una ferita gonfia di sangue all’altezza dello stomaco.
Kay gli si avvicina per esaminare il danno, e lo stregone si tende all’indietro per fargli spazio. Sembra un morso, lungo la carne martoriata Kay riesce a distinguere piccoli segni di denti, e sta per chiedere a Merlin come diavolo abbia fatto a farsi mordere così in alto sul petto, e esattamente quanto sangue ha perso e poi un centinaio di cose ancora, ma lo stregone prende un respiro profondo perché evidentemente deve parlare, e Kay decide che è meglio star zitto e ascoltare.
«Il... liquido nella boccetta,» dice, respirando pesantemente tra una sillaba e l’altra e tentando con tutta la forza che ha di far finta di nulla, e Kay vorrebbe dargli una testata e dirgli che va bene, che con lui non deve essere forte - Dio, Kay è l’essere più inutile sulla faccia piatta della Terra, in questo momento, Merlin può permettersi di cedere un po’ al dolore in sua presenza. «Intingi... un dito, e disegna... disegna un pentacolo attorno alla ferita. Un pentacolo è--»
«So cos’è un pentacolo,» lo zittisce, fin troppo deciso se deve tener conto del modo in cui le ginocchia gli si sono piegate all’idea di dover toccare la ferita purulenta di Merlin. Lo farà, comunque, perché deve, non c’è dubbio.
Obbedisce, allora, immergendo un indice nel collo largo dell’ampolla e stupendosi quando il contenuto, alla vista liquido come acqua, contro la pelle si rivela vischioso e solido come pittura. Magia, pensa Kay, e un attimo dopo è già chino sullo stomaco di Merlin, lo stregone che schiude le gambe contro il bordo del materasso per fargli più spazio, e gli sta tracciando un pentacolo sulla carne viva.
«Perfetto,» bisbiglia Merlin, mentre digrigna i denti per costringersi a non urlare dal dolore. Kay lo guarda da sotto in su con un paio di occhi enormi e terrificati ma eccezionalmente fermi, e Merlin si sente annegare un po’ e non è per via del veleno di dipsa che sta corrodendo la barriera magica che ha eretto attorno alla ferita, all’interno del proprio corpo, per arginarne la diffusione. «Ora devi... dovresti disegnarne uno sul palmo della mia mano, e--»
«È un incantesimo di estrazione,» lo interrompe Kay, sgranando gli occhi ancora un po’, e Merlin è genuinamente, genuinamente colpito. «Buon Dio, Merlin, avete del veleno in quella ferita. Buon Dio. Va bene, però, so cosa devo fare,» e annuisce, si disegna un pentacolo sul palmo della mano e, prima che Merlin possa fermarlo, la preme con decisione sulla ferita, strappando allo stregone un ansito di dolore. «State tranquillo, l’ho già fatto in passato.»
La pelle di Merlin va a fuoco là dove è in contatto con quella di Kay - e non è tutta colpa dell’incantesimo, lo sanno entrambi, - e lo stregone riesce quasi a sentire le gocce di veleno ritirarsi attraverso la sua carne, attirate dalla magia del pentacolo e della nenia incantata in gaelico che Kay sta borbottando sottovoce.
«Non... finirai mai di stupirmi,» bisbiglia Merlin, un po’ meno a fatica di prima, e Kay si limita a sbuffare, concentrato sul salvargli la vita e fare, per una volta, qualcosa di utile. «Quando avrai estratto il veleno, ho bisogno che... ah, Kay, ho bisogno che tu lo raccolga. Prendi qu--» La pelle pulsa vivamente e Merlin si piega in avanti in uno spasmo di dolore, finendo per appoggiare la fronte contro una spalla di Kay. «Prendi questa,» e gli spinge nella mano libera la ciotola di legno che ha appena attirato a sé dalla scrivania con uno scatto nervoso del polso.
Kay si volta appena a guardarlo, una domanda - e questa da dove sbuca? - più che palese negli occhi, ma trova da sé la risposta e subito torna a fissare gli occhi sulla ferita.
«Ho quasi fatto,» dice, e Merlin lo sente davvero, sente il veleno raggrumato in superficie e pronto a stillare fuori dalla ferita e arrendersi e smettere di cercare di arrivare al suo sangue. Lo sente gocciolare lentissimamente giù dal suo fianco fin nella ciotola, mentre Kay gli accarezza il petto col suo respiro caldissimo e forse neppure se ne accorge.
Quando anche l’ultima goccia di veleno è raccolta e Merlin sta finalmente recuperando fiato, Kay agisce d’istinto e sutura la ferita ancora piuttosto tumida con un incantesimo sciocco che sua madre gli ha insegnato quand’era bambino. Non ha mai funzionato, prima d’ora, non su cose così gravi, comunque, eppure adesso la pelle di Merlin si contrae e si ripiega su se stessa, richiudendo la ferita e riassorbendo tutto il sangue, lasciando, a testimonianza dell’incidente, solo il segno sbiadito dei denti della dipsa e del pentacolo per l’estrazione.
Merlin lo guarda con un’espressione comicamente stupefatta, e Kay arrossisce di nuovo, violentemente, ma non muove un passo per allontanarsi dallo stregone.
«Non guardatemi così, prima d’ora non aveva mai funzionato,» dice, fissando la superficie liscia del veleno nero dentro la ciotola. Merlin sorride e non gli risponde, ma solleva una mano a sfiorargli una guancia e lo costringe a guardarlo negli occhi. Nelle sue iridi scure - esattamente della stessa tonalità di buio impenetrabile del veleno - Kay legge un ringraziamento profondissimo, forse qualcosa di più, una scintilla diversa, ma decide di tenersi l’essenziale. «Non dovete ringraziarmi, ho fatto quello che era giusto fare.»
Il sorriso di Merlin acquista una nota di malizia, allora, ma è solo per un secondo, perché poi il suo viso si fa improvvisamente vicino e Kay sente le sue labbra premere all’angolo della propria bocca, ed era un bacio, quello? Era un bacio? Era un bacio. Una specie, almeno. Merlin si allontana pianissimo, le sue ciglia troppo lunghe che accarezzano lievemente lo zigomo di Kay, e perché anche questo contatto impalpabile sembrava un bacio?
«E questo, Kay?» mormora lo stregone, e ogni parola, ogni suo respiro è come ancora un bacio dolcissimo contro le labbra, il mento, le guance, le palpebre, il cuore di Kay. «Questo era giusto?»
Merlin non aspetta una risposta - non se l’aspetta neppure, - ma si allontana da lui dopo un attimo, andando a trafficare con le ampolle sparse sulla scrivania. Kay rimane imbambolato per un’infinità di tempo e, quando alla fine si volta, Merlin ha travasato il veleno in cinque piccole fiale.
«A cosa vi serve?» chiede Kay, avvicinandoglisi cautamente, come se temesse che Merlin possa saltargli addosso da un momento all’altro - e non ha neppure tutti i torti, perché il pensiero attraversa la mente dello stregone più di una volta nel giro di pochi attimi.
«È solo una precauzione,» risponde, pianissimo, osservando in controluce il veleno nero inchiostro, e le sue labbra sono curvate in un sorriso impercettibile che Kay ha imparato a riconoscere come di soddisfazione estrema, e questo dettaglio basta a chiarirgli il mondo.
«Vi siete fatto mordere apposta,» dice, incredulo, spaventato, e gli viene voglia di prendere lo stregone a calci quando lo vede mettere via la fiala e annuire compostamente. «Vi siete fatto mordere apposta per poter raccogliere un veleno mortale, per chissà quale inutile scopo!»
«L’inutile scopo in questione sarebbe assicurarmi che tuo fratello arrivi vivo al giorno dell’incoronazione,» ribatte Merlin, evidentemente divertito, ma Kay, buon Dio, non ha voglia di essere sereno e spensierato.
«E che avreste fatto? Che avreste fatto, se io non fossi stato qui? Ve lo dico io, Merlin, sareste morto, se nessuno vi avesse sentito inciampare nei vostri stessi piedi perché eravate troppo avvelenato anche solo per ricordare come si fa a stappare una dannata boccetta!»
«Ma tu eri qui,» ragiona lo stregone, con tutta la calma e la pazienza di Giobbe, e si allontana dal tavolo per stringere Kay ai fianchi e guardarlo da vicino, e non è giusto, Merlin è nudo fino alla cintola e Kay è piuttosto distratto. «Tu eri qui, sapevo che ci saresti stato, e mi hai salvato.»
«Non potevate,» si lamenta Kay, debolmente, ora, perché il sorriso di Merlin è quasi premuto sulle sue labbra e non è che gli riesca di racimolare molta forza di volontà, Dio solo sa perché. Oh, Ector lo ha messo in guardia da questo genere di seduzione, gliene ha parlato e parlato e parlato fino a farlo stare male, ma non ha mai detto, mai, neppure una volta ha anche solo accennato alla possibilità che un effetto così destabilizzante sui suoi sensi potesse averlo un uomo. Forse c’entra il fatto che Merlin è uno stregone, quindi non è un uomo, non soltanto un uomo, comunque. Sono misteriosi misteri misteriosissimi per cui Kay non nutre il minimo interesse, al momento. «Non potevate saperlo con certezza.»
«Come sarebbe?» lo prende in giro Merlin, muovendo pianissimo il capo, quel tanto che basta ad accarezzare il naso di Kay con il proprio, ed è ipnotico, è sensuale da morire, è incredibile, è bellissimo. «Sono uno stregone, ricordi? Posso vedere il futuro.»
Kay lo bacia, allora, prendendogli il viso tra le mani perché si è abbastanza stufato di farsi tentare così: lo bacia premendosi con forza sulle sue labbra, pretendendo che si schiudano subito e accolgano la sua lingua, e poi divorando la sua bocca dolcissima, calda, più buona di quella di qualsiasi ragazza del villaggio, forse del mondo. E quando si allontana da lui, Merlin ha un’espressione piacevolmente stupefatta sulla quale andrebbero composti poemi e romanzi, che bisognerebbe immortalare negli affreschi dei palazzi più importanti d’Europa e dipingere sui volti delle giovani in cerca di marito - un’espressione che Kay è incredibilmente felice di poter avere solo per sé, per sempre.
«Questo,» mormora, senza riuscire a trattenere un sorriso divertito mentre lo bacia di nuovo, con un rapido schiocco sulle labbra. «Questo non l’avevate previsto.»

*

Kay non ha un’opinione precisa della magia, né dei maghi, né degli uomini, né delle donne.
Sa che, come ci sono uomini malvagi e uomini giusti, donne cattive e donne buone, così tra i maghi ci sono i virtuosi e i farabutti, e poi quelli che badano solo agli affari propri. Sa che non è giusto affrettarsi a dare giudizi senza prima pensare, senza ascoltare, senza fermarsi e respirare profondamente e farsi delle domande. Senza prima osservare.
Sa che, probabilmente, lui tende ad osservare un po’ troppo - e un po’ lo spaventa la rapidità con cui, osservandolo, ha imparato a conoscere Merlin come il dorso della propria mano, a leggergli dentro l’anima come se fosse un libro pieno solo di disegni, - ma sta cercando di migliorarsi, di accorciare i tempi, e d’altra parte spera di non ritrovarsi ossessionato da nessun’altro, a parte Merlin e il modo in cui lo bacia.
Kay, insomma, sa che dovrebbe prendersi il tempo giusto, non troppo, non troppo poco, prima di marchiare nella sua mente le persone; lo sa, davvero. E non è perché è un cattivo figlio o un terribile uomo e non è neppure perché non ci sta provando con abbastanza insistenza se, solo la seconda volta che li vede, decide che Lot deve morire, e Morgan patire le pene dell’Inferno fino al giorno del giudizio universale. Non è perché ha smesso di credere alla necessità di arrivare con calma alle cose, valutando quanti più dettagli possibile per non cadere in errore.
È perché i due bastardi hanno ucciso sua madre, Dio santo, hanno ucciso sua madre, proprio sotto i suoi occhi, e Kay lo sa che l’odio non è bello, Kay lo sa che l’odio non è nobile e non lo si dovrebbe coltivare, ma hanno ucciso sua madre. Sua madre.
Merlin lo guarda con gli occhi sgranati, terrificato - questa è un’altra cosa che le sue visioni non gli avevano svelato, - e tutt’a un tratto Kay si sente un po’ meno inutile, molto più arrabbiato, e ha una voglia incredibile di uccidere Lot, Morgan, persino Arthur e Merlin e se stesso e tutti quanti, ha una voglia incredibile di uccidere tutti quanti, perché sua madre è morta.
Chiude gli occhi, però, e respira profondamente, mentre Arthur si consuma tra i singhiozzi contro la sua spalla; decide, infine, che la magia è utile, dannazione, ma è inutile. Decide che la magia è come lui, e il penisero lo calma un pochino.
Quando riapre gli occhi Merlin è ancora lì che lo guarda, un po’ più tranquillo anche lui. Quando Arthur avrà smesso di piangere, Kay andrà a baciarlo di nuovo.

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