[RPF] Just because I'm losing, doesn't mean I'm lost (Marchisio/Del Piero)

Feb 16, 2011 16:05

Titolo: Just because I'm losing, doesn't mean I'm lost
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Claudio Marchisio/Alessandro Del Piero, nominée Sonia Del Piero & pargoli, Giorgio Chiellini
Rating: PG
Conteggio Parole: 6702 (fidipu)
Prompt: Guerra per la prima settimana della Cow-T di maridichallenge.
Avvertimenti: hints slash, angst, UST. UST. UST. OMGLAGGIUVE.
Note: Titolo rubato ai Coldplay :3
- *ride* *piange* Ok, voi non-- avevo bisogno di espellere il Delpisio dal mio sistema, ok? E questo mostro è quello che è venuto fuori, ma non penso sarà neppure l'ultima cosa che scriverò su di loro, perché, beh. Sono un fail. #fail
- A Vinovo c'è la struttura dove la Juve si allena. Juve-Udinese si è conclusa 1-2 [il gol di Claudio col commento di Zuliani citato nella fic]. Claudio è soprannominato "il Principino". Stefano è il fratello di Del Piero, nonché suo procuratore. Altre informazioni che magari potrebbero essere utili non mi vengono in mente, nel caso editerò.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



~ Just because I'm losing
doesn't mean I'm lost.

A Claudio sembra di vivere perso nei sogni che aveva quand’era bambino.
Ne è sicuro, in effetti, quando si guarda indossare la maglietta di una Juve che adesso è un po’ più sua di quanto non lo fosse quando in curva la gola gli bruciava di sangue per i troppi canti, per il troppo gridare, e quando pensa che, adesso, magari i ragazzini hanno gli occhi pieni di lui, come lui li aveva pieni di Ferrara, Tacchinardi, Deschamps. Ne è sicuro quando arriva a Vinovo, la mattina presto, saluta con un sorriso Giorgio che già si scalda a bordo campo e ogni giorno Giorgio gli stropiccia affettuosamente i capelli e lo costringe a correre finché Claudio non si mette ad implorare pietà. Ne è sicuro, oltre ogni ragionevole dubbio, quando poi arriva Alessandro, Alex, il Capitano, e con il borsone ancora in spalla si ferma a guardarli, due coglioni in calzoncini che si sfiancano nella nebbia ancora prima che l’allenamento cominci sul serio, e scoppia a ridere, e a quel punto Claudio deve fermarsi davvero, perché i polmoni gli si annodano allo stomaco che gli si annoda alle ginocchia che gli si annodano tra loro e lui fa fatica anche solo a restare in piedi.
Ne è sicuro, perché quando scambia anche solo una parola o un’occhiata o un sorriso complice con un compagno vestito di bianco e di nero, primadopodurante una partita, ecco, in quei momenti la vita gli sembra così incredibilmente bella che proprio non può essere tutta vera.

*

Non è tutto perfetto, e ci sono dei giorni in cui Claudio ne è più dolorosamente consapevole che in altri. Per esempio, la Juve ha visto annate cento volte migliori (ma pure annate cento volte peggiori), e Davide potrebbe essere vivo e il cancro soltanto una manciata di stelle dalla forma un po’ buffa nel cielo d’estate. Per esempio, certe volte Alex sbaglia un rigore, e sulla sua fronte sono comparse increspature che dieci anni fa non c’erano. È proprio per questi dettagli un po’ sbavati, però, che Claudio ogni tanto si calma e accetta l’idea che, d’accordo, magari questo è il mondo reale.
È il mondo reale, e lui non si sveglierà sudato e confuso nella sua camera di adolescente, con le dita dei piedi deliziosamente tiepide di sonno. Non si ritroverà a fissare gli angoli arricciati di un poster di Dino Zoff tanto vecchio da dover essere tenuto insieme con lo scotch, tutto contento per un sogno meraviglioso di cui ricorderà solo qualche macchia di colore.
È tutto vero, a cominciare dagli allenamenti massacranti e finendo sulla sensazione sempre straniante di avere in rubrica il numero di Alessandro Del Piero, tutti i numeri di Alessandro Del Piero, cioè, il che include casa, cellulare, Stefano, Sonia, casa al mare, casa di mamma, qualsiasi cosa. Vero, vero, vero, è tutto vero, meravigliosamente vero.
Davvero.

*

A volte Claudio sogna di giocare una partita infinita, e che quella partita è una guerra.
La divisa bianconera la indossa come fosse un’armatura, e combatte correndo su e giù sul campo pure quando non ha più fiato nei polmoni, combatte fino ad esplodere, gli occhi fissi sul pallone impazzito tra i piedi di compagni e avversari. E quando infila la palla in rete è come aver conquistato una città, come aver ammazzato il più forte dei nemici in un corpo a corpo; è come illudersi di aver sconfitto anche la morte.
È un sogno sempre bello, bellissimo, e diventa ancora migliore quando Claudio si sveglia e si rende conto di esserci perso, in quel sogno, perché quella partita infinita, che poi è una guerra, è la vita vera.
Davvero.

*

Per quanto sia imbarazzante anche solo pensarci, Claudio è davvero cresciuto col mito di Del Piero sulla pelle e nel cuore, soprattutto nel cuore, soprattutto nelle preghiere ogni sera prima di andare a dormire (E fa’ che il Capitano stia sempre bene in salute, perché una partita senza di lui non è neanche una partita, è una noia mortale). E adesso parlano, scherzando, ridono e Cristo, seriamente, può toccarlo e farsi dare da lui la fascia di capitano e sa dove abita, lo chiama Alex, come se fosse una specie di fratello, e poi una sera, dopo una litigata un po’ pesante e un po’ no con Roberta, esausto del mondo e del pianto isterico di suo figlio e semplicemente triste, Claudio decide di andare da lui, senza preavviso, senza un invito, andare a casa di Alessandro Del Piero. Perché è triste. Perché non sa dove altro scappare. Perché potrebbe chiamarlo - anche se non si tratta esattamente di un’emergenza, anche se non sta morendo, anche se nessun interista italiano solo a metà sta tentando di rubare i loro scudetti, - ma non è di una voce al telefono che ha bisogno.
Perciò, va.
Per tutto il tragitto, c’è una voce molto seria e molto spaventata sul fondo della coscienza di Claudio che gli urla di non essere stupido, che non può andare a cagare i coglioni di punto in bianco, che dovrebbe esser grato per quello che ha e non mandare a puttane l’intera amicizia con il suo capitano solo per un colpo di testa, solo perché è così fottutamente triste che vorrebbe soltanto annegarsi.
Poi, quasi senza rendersene conto, Claudio si trova sotto il porticato fin troppo familiare di casa di Alex, ghiacciato fin nelle ossa dal freddo di fine dicembre che s’è abbattuto a secchiate su Torino, e realizza, all’improvviso, quanto esattamente sia vicina la fine dell’anno. Mentre bussa, i polpastrelli già un po’ insensibili per via del gelo e del fatto che il suo cuore ha deciso di non aver più voglia di battere, pensa oziosamente che Natale è appena passato, che tra un po’ comincia gennaio e c’è il suo compleanno e ricominciano le partite e ricomincia tutto e lui vuole solo vedere Alex, vuole solo vederlo.
E magari Claudio ha smesso di andare allo stadio con addosso una maglia del suo capitano troppo piccola per lui - perché ci è cresciuto, dentro a quella maglietta; gliel’ha comprata suo padre quando era piccolissimo, di tre taglie in più così gli sarebbe durata, e Claudio l’ha indossata religiosamente ad ogni partita, anche per le due o tre che non ha guardato, forse soprattutto per quelle, - e ha cominciato a scendere in campo accanto al suo capitano, con una maglia perfettamente misurata sulle sue spalle e due stelle cucite sul cuore e il suo cazzo di nome ricamato sulla schiena, ma non ha mai smesso di essere un ragazzo, niente più di un ragazzo, e Alex Del Piero non ha mai smesso di essere il suo idolo, perfetto dentro e fuori dal campo, impeccabile, un esempio, il suo tutto, e adesso è persino un amico.
E Alex Del Piero è l’uomo, il capitano e l’amico che apre la porta e, non appena lo riconosce, aggrotta le sopracciglia in un’espressione preoccupata, schiude appena le labbra attorno a una domanda che non sembra avere il cuore di porre, non ancora, non finché Claudio rimane a tremargli sullo zerbino.
«Entra, dai, che si gela qua fuori,» dice, facendosi da parte per lasciarlo passare, e gli concede questo sorriso sghembo che va dritto dritto in mezzo alle cose che, nella vita di Claudio, sono troppo belle per essere vere. Probabilmente ne diventa il re, o qualcosa di simile. «Dammi il cappotto.»
Claudio gli dà il cappotto e lo guarda, improvvisamente a disagio, mentre lo sistema su un attaccapanni lì accanto. La casa è calda e accogliente, è casa anche per Claudio che dovrebbe sentirsi un intruso e invece no; invece Alex gli sorride di nuovo, con una punta di malizia perché è perfettamente consapevole del suo imbarazzo. Gli fa segno di accomodarsi in soggiorno, dove l’unica fonte di luce è il camino in cui scoppietta un fuoco assurdamente allegro, e dal buio e dal silenzio generale Claudio deduce che non c’è nessun altro, nessuna moglie e nessun marmocchio urlante strafelice di vederlo, non c’è nessuno, sono soli, oh, Dio.
Il pensiero lo fa sudare un po’, maldestramente, e Alex ride piano, dietro di lui, perché naturalmente sa leggere alla perfezione i mille modi in cui le spalle di Claudio si raddrizzano e si rilassano a seconda del suo umore - è Alex, dopotutto; è un capitano, è il Capitano. È perfetto così, ed è perfetto per come spinge con discrezione Claudio sul divano: sa che, da solo, lui non si sarebbe mai deciso a sedersi, e sarebbe rimasto in piedi in mezzo al tappeto come la minchia che è, a torturarsi l’orlo del maglione fino alla fine del mondo.
«Che succede?» chiede Alex, pianissimo, quando sono seduti tutti e due, Claudio proprio sul bordo del divano - si è incantato a fissare il camino acceso, a un certo punto, perso nel proprio imbarazzo, e si è teso in avanti verso le fiamme, curioso come un bambino, e adesso ha le guance accaldatissime però non è proprio al cento percento sicuro che sia solo colpa del fuoco, - e lui sulla poltrona lì accanto, tanto vicino che lo spazio tra le sue ginocchia e quelle di Claudio è solo l’ombra di un centimetro. «Claudio.»
E Claudio sembra riscuotersi; un po’ a fatica distoglie lo sguardo dal camino e guarda il suo capitano da sotto in su, il cuore che ha deciso di traslocare tremendamente in alto nella sua gola, soffocandogli il fiato e le parole.
«Io non...» tenta, debolmente, e Alex piega un po’ il collo in un’espressione di quieta, sincera curiosità che potrebbe sciogliere un cioccolatino a dieci passi. Claudio si stringe nelle spalle, a disagio, e il divano di pelle crocchia sotto il suo movimento. «Non lo so. Cioè, lo so. Ho litigato con Roberta,» sospira, e forse sono i bagliori rossoaranciati del fuoco che fanno casino con la sua vista, ma gli pare che le labbra di Alex si siano curvate un po’ all’insù in un sorriso. «E, beh, non è che non litighiamo mai. Però, non lo so. Ero, uhm. Solamente scosso. Mi spiace di esserti piombato in casa così.»
Alex è velocissimo a premergli su una spalla una mano calda, piena, rassicurante.
«Non dire sciocchezze, puoi venire quando vuoi. Anche senza motivo, a me fa piacere,» dice, e Claudio si morde le labbra per impedirsi di sospirare in assoluta adorazione per quest’uomo, perché, siamo seri? Dio. «Ti va di parlarmene? Del litigio con Roberta.»
«Oddio, ah, uh--» Eloquenza degna d’un avvocato, Claudio, complimenti. «No, Dio, no. Cioè, non è niente di che, non è per quello che mi sento-- mi sono-- cioè. È una sciocchezza, davvero. Non ti devi preoccupare.»
Alex non sembra minimamente convinto, e lo scruta con attenzione ancora per un po’: il cuore di Claudio si reinventa ginnasta, allora, sotto l’esame di quegli occhi scuri, e attacca ad esibirsi in capriole e salti mortali e altre cose che Claudio non saprebbe descrivere e che preferirebbe che evitasse di fare, davvero.
«Sei sicuro?» domanda Alex, alla fine, e quando Claudio annuisce, subitissimo, rafforza un po’ la stretta sulla sua spalla per un istante, prima di lasciarlo andare. Muove la mano quasi innocentemente lungo il braccio di Claudio, però, fingendo di non notare il modo in cui il ragazzo rabbrividisce, e poi la sistema nell’incavo comodo del suo gomito. «Non insisto, allora,» sorride, e Claudio ne è grato, perché sul serio non voleva parlargli di Roberta. Dio, sarebbe una cosa così sbagliata - non sa spiegarsi neppure lui perché, sa solo che lo sarebbe, come una specie di incesto, un tradimento, qualcosa.
Alex continua a guardarlo, comunque - ma è una cosa del tutto normale, ci sono solo loro due in casa, nella stanza, cos’altro dovrebbe avere tutta la sua attenzione? - e Claudio continua a sentirsi un pesce sottilmente fuor d’acqua, come sempre in sua presenza, ma è una sensazione che il tempo ha levigato e smussato agli angoli, e non è più fastidiosa come avere un porcospino nel costato; adesso è più una carezza morbida lungo lo sterno, una specie di abbraccio maldestro e affettuoso scambiato in mezzo ad una piazza affollata con un amico cui ronzi intorno da sempre e che ha imparato a conoscerti in un niente.
Claudio lascia andare un respiro che non s’era neppure accorto di aver trattenuto, e capisce di aver fissato Alex negli occhi per un’infinità di tempo - e che Alex l’ha fissato di rimando, senza riserve, quasi studiando l’esatta sfumatura di azzurro delle sue iridi, come se stesse contandogli le ciglia. Come se gl’importasse.
«Alex...»
La mano sul suo gomito preme con un po’ più d’insistenza e Claudio finalmente la sente, attraverso il maglione: sente il palmo irregolare di Alex, le sue dita forti e indurite da qualche callo di troppo; soprattutto, è assurdamente consapevole del calore che la pelle di Alex irradia, come se fosse il sole, come se il fuoco non stesse crocchiando nel camino ma dentro di lui, nelle sue vene, in profondità dietro i suoi occhi.
E Claudio non ha mai detto a Roberta nulla che fosse più elaborato di un ‘Ti amo’, ma Alex ha questo modo di riempirgli la testa di colori e parole e di un’adorazione così viscerale che non riesce neppure a vederne la fine o l’inizio; ed è così da sempre, fin da quando Claudio era poco più alto di una chitarra e suo padre già gli insegnava il calcio e l’unico Capitano in cui lui abbia mai avuto fede. L’unico Capitano - l’unico - che ai suoi occhi può salvare qualsiasi partita, qualsiasi stagione disastrosa, e può fare tutto, persino quando non insacca un rigore neppure quando sarebbe davvero, davvero vitale.
«Sei sicuro che vada tutto bene?» mormora Alex, e la sua mano sul braccio di Claudio si sposta su e giù in una carezza confortante, di mentore, di fratello. Claudio resiste male alla tentazione di chiudere gli occhi e perdersi per il suo tocco. «Sei silenzioso. E hai questo sguardo che-- mi sembri terrorizzato. Più del solito, voglio dire,» e ride piano, discretamente, uno sbuffo caldo che in qualche modo raggiunge il viso di Claudio e lo fa avvampare ancora, irrazionalmente.
«Come, ‘più del solito’?» ripete lui, facendo una smorfia, e Alex sorride più apertamente. «Cosa vorresti insinuare?»
«Hai sempre quest’espressione un po’, come dire, spaesata,» spiega, gesticolando vago per aria con la mano che non sta toccando Claudio su e giù lungo il braccio. «Immagino c’entrino qualcosa gli occhi,» e vorrebbe spiegargli che se hai gli occhi così azzurri e così grandi e sgranati tutto il tempo è assolutamente normale che la gente - il tuo capitano che si preoccupa per te più o meno costantemente, pure quando non sei nei paraggi, soprattutto quando non sei nei paraggi, - pensi che sei terrificato da qualsiasi cosa ti si pari davanti, ma gli mancano le parole esatte per non sembrare un completo deficiente persino a se stesso, perciò decide di sorvolare. «O forse il fatto che non sorridi. Cioè, mai. Ma mai. Le uniche volte in cui ti vedo sorridere è a Giorgio, la mattina, quando sei ancora troppo addormentato per imbronciarti come si deve,» e ride ancora, sottovoce, e Claudio potrebbe tranquillamente buttarsi nel camino e giocare a fare il ciocco di legno, per come si sente andare a fuoco splendidamente.
«Non è vero che non sorrido,» si lagna, e Alex lo guarda sollevando le sopracciglia in un’espressione scettica che Claudio accoglie con uno sbuffo e roteando gli occhi. «Vabbè, vabbè,» brontola, picchiando piano il ginocchio contro quello del suo Capitano e sentendosi immediatamente, assurdamente caldo quando Alex gli dà un colpetto in risposta e ride di nuovo, rilassandosi contro lo schienale della poltrona. «Comunque, per tornare alla tua domanda originaria, grazie tante, sto bene. Penso.»
«Ma ti rendi conto che non puoi dirmi ‘sto bene, penso’, e sperare di cavartela così?» lo prende in giro Alex, ma solo a metà, perché dallo sguardo che ha Claudio lo capisce da morire che è serio, sulla parte del ‘non te la scampi, signorino, non prima che ti abbia svaligiato di qualsiasi segreto ti porti dietro’. «Avanti, dimmi che c’è. Dimmi tutto.»
«Ma nulla,» perché non è che Claudio muoia dalla voglia di rendersi completamente ridicolo agli occhi del suo idolo d’infanzia, adolescenza ed età adulta, grazie mille. Però lo sguardo di Alex pretende da lui sincerità totale, o almeno un tentativo, e Claudio non può veramente negarglielo, perché non gli negherebbe neanche tutto il sangue che ha in corpo e qualsiasi altra cosa. «Sono un po’ stressato, forse. Non è proprio il nostro anno, neanche quest’anno, no? Sono-- mi preoccupo. Lo sai com’è pesante, giocare da tifoso,» sospira, e Alex sembra irrigidirsi appena sulla poltrona e Claudio lo sa che è un argomento di merda, lo sa davvero, ma ha questa pietra enorme posata tra capo e collo e non riesce a respirarci attorno e in qualche modo se la deve scrollare di dosso. E Alex ha insistito tanto, i suoi occhi ancora lo fanno, nonostante sia chiaramente a disagio, per cui: «E, nulla. Sono scazzi scemi, però sono scazzi. È solo un po’ il periodo, comunque. È solo,» si morde un labbro, quasi fino a farlo sanguinare, e deve distogliere gli occhi dal viso di Alex perché l’imbarazzo minaccia di soffocarlo. «È solo, sai, che ci tengo tanto. A lei, voglio dire-- alla Juve. Vorrei poter fare cose. Altre cose, grandi cose, con voi.»
Vorrei che tu potessi fare grandi cose con noi, con me, non lo dice, ma lo pensa con tanta forza che è praticamente certo che Alex possa sentirlo.
Alex non risponde subito - Claudio lo vede chiudere gli occhi, fare un respiro profondo, poi un altro e un altro ancora. Per un attimo sembra che voglia alzarsi, per un attimo sembra che voglia spaccarsi la testa contro la mensola del camino. Per un attimo, Claudio scorge in lui una tristezza infinita, la paura e trentasei anni di stanchezza, ed è una cosa terribile, per lui che Del Piero l’ha sempre immaginato come inenarrabilmente forte, ma c’è una bellezza assoluta nel modo in cui le sue spalle si curvano all’ingiù, e Claudio è crudelmente felice di averla potuta vedere - talmente felice che stringe una mano sul ginocchio di Alex, gli ricorda che ehi, sono qui, e vorrebbe dirgli, «Ehi, va tutto bene. Non è che ti amiamo di meno. Non è che ti amo di meno. In modo strettamente professionale, si capisce.»
Resta zitto, invece, perso a osservare il viso calmo di Alex mentre Alex fissa le sue dita pallide contro i propri jeans scuri. Sospira, alla fine, e Claudio potrebbe esplodere per lui. Potrebbe uccidere, per lui. Potrebbe accettare un’altra retrocessione e potrebbe giocare senza stipendio e potrebbe bere solo Uliveto e potrebbe anche costringersi a sorridere di più. Per lui.
«Sono orgoglioso di essere il tuo capitano,» dice Alex, alla fine, e Claudio sgrana gli occhi perché no, così non va, dovrebbe essere il contrario, dovrebbe essere: sono orgoglioso che tu sia il mio capitano, siamo orgogliosi che tu sia il nostro capitano, io di te non mi stanco, sono sempre al tuo fianco, sei la cosa più bella che c’è. Sei la cosa più bella che c’è. Sei la stramaledettissima cosa più bella che c’è, cazzo. «Le farai, grandi cose con la Juve. Io-- lo so che sembra scontato e tutto, ma è ovvio che le farai. È ovvio, e non ne devi dubitare mai. Ce l’hai scritto addosso, come ti devo far capire.» Sorride un po’, e scherza: «Ti verrò a prendere personalmente a calci nelle gengive, se ti permetti di fare anche solo un millesimo di meno di quello che mi aspetto.»
Ed è più o meno il genere di cosa che Claudio aspetta da una vita di sentirgli dire, per davvero, forse addirittura meglio, - chiunque abbia un cuore bianconero e un pochino di voglia di perdersi dietro ad un pallone non sogna altro che sentirsi fare un complimento simile da Alessandro Del Piero, - ma non così, non è questo il modo. Non gli interessa una lode fatta con degli occhi così tristi, con la sconfitta scritta a chiare lettere sulla faccia di Alex. Non riesce, non può esserne contento, orgoglioso; ha il cuore che gli rotola su e giù nella gola, impazzito, ma non è per gioia. Non gli interessa, se deve vedere il cuore del suo capitano mangiato dalla disperazione.
È paura, quindi, quella che gli fa sgranare gli occhi: paura nuda e semplice, terrore isterico e sorpresa, brutta, brutta sorpresa.
«Perché dici così?» mormora, e quasi si sente tremare. Dio, Dio, Dio Alex, non ti puoi arrendere, non puoi, pensa, non puoi, e glielo dice: «Non ti puoi arrendere. Non ti sei arreso, vero? Non ti puoi arrendere.»
E Alex dovrebbe sorridere, adesso, dargli uno schiaffetto sulla nuca e dirgli di piantarla con le cazzate, è ovvio che non si sia arreso, è ovvio che stava scherzando. È ovvio che scenderà in campo con più grinta di prima ogni giorno, che restituirà alla sua squadra il posto, il prestigio, la bellezza che sanno di meritare. Ma non è tutto un sogno perfetto, questo è il mondo reale, e allora Alex sospira, scuote piano la testa, sprofonda nella poltrona come se sperasse di poter esserne ingoiato.
«Non lo so,» bisbiglia. «Non lo so. Forse sì, forse mi sto arrendendo,» e sembra che stia cadendo a pezzi anche solo per averla pensata, una cosa del genere, e anche Claudio, anche Claudio si sente sgretolare.
Salta in piedi, perché ha bisogno di sentire il pavimento solido, almeno quello, e che la gravità ci sia ancora. Salta in piedi e cerca, nella luce caldissima del camino, sul viso di Alex l’ombra di uno scherzo, un sorriso trattenuto a stento che gli riveli che, ahah, sorridi alla telecamera, Claudio, sei su Scherzi a Parte. Trova, invece, soltanto la certezza che il suo tutto è evaporato, lasciandolo come senz’aria, ad agonizzare in uno stadio vuoto.
«Non dirlo,» mormora, forse più perso di Alex nella disperazione, ma con un accenno di rabbia che gli scalda le guance e gli accelera il sangue nelle vene, le parole sulla lingua. «Non dirlo, non dirlo, non ti voglio sentire. Non lo pensare nemmeno. È normale, d’accordo? La paura è normale. Perdere qualcosa è normale, è normale. Però se manchi un gol non è che smetti di tirare. Io non-- non voglio sentirti dire una cosa del genere. Andrà tutto bene.» E ci crede, ci crede davvero, e Alex lo sa e forse per questo il sorriso che gli rivolge è così incalcolabilmente triste.
«Lo so che andrà bene,» dice, e Claudio per un attimo respira normalmente, però poi smette d’un colpo di nuovo, perché il viso di Alex si adombra in un modo insopportabile, per un pensiero insopportabile. «Ma penso che la mia partita stia finendo. Mi sto-- stancando. E tu segni cose splendide, comunque.»
E adesso - adesso sì - Claudio sgrana gli occhi così tanto che non c’è dubbio che sia terrificato. Alex un po’ si sente male, si sente molto male a sapere di averlo sconvolto così, ma è un uomo anche lui, sotto tutta la leggenda, e prima Claudio lo capisce, prima scende a patti con l’idea che prima o poi - prima o poi - Alessandro Del Piero appenderà gli scarpini al chiodo, meglio sarà per tutti. Per lui, soprattutto. Alex lo sa che è per il suo bene, sa di non avergli detto niente che non fosse meno che vero, ma ci perde comunque dieci anni di vita nello sguardo ferito, stravolto che Claudio gli pianta in viso.
«Non-- non ci voglio pensare,» bisbiglia, con una voce tanto sottile che forse era solo un pensiero che Alex chissà come ha sentito. «Guarda che lo decidi solamente tu quando vuoi finirla, questa partita qui. Non è che c’è qualche altro arbitro. Io-- io non penso che tu voglia davvero-- non riesco nemmeno a dirlo. Comunque non penso. Comunque, andrà tutto bene,» rabbrividisce. «Andrà tutto bene. Non devi, non puoi,» e si blocca e non dice più niente perché Cristo benedetto, tutto quello cui riesce a pensare è una Juve senza Del Piero e, no, sbagliato, lui non ci riesce a pensare ad una Juve senza Del Piero.
Alex ora sta male quasi fisicamente, la gola annodata in un groppo di tristezza a vedere Claudio, in piedi davanti a lui, che si preme i palmi delle mani sugli occhi per calmarsi, forse per far schizzar via dal cervello pensieri terribili; dovrebbe forse dirgli una parola di conforto e ridimensionare la grandezza del peso che gli ha schiacciato addosso, inventare balle per tranquillizzarlo un po’, ma è paralizzato e non sa bene da cosa, come un ragazzino, come la prima volta che il ruggito dell’Olimpico si è messo a scavargli nel cuore. È paralizzato e bloccato quasi nelle funzioni vitali, respira appena, fissa semplicemente Claudio e gli pare di vederlo sparire sotto i suoi occhi, farsi ancora più sottile e piegarsi, devastato, tradito.
Tradito.
Alex si sente tradito da se stesso, dalle promesse che si era fatto e adesso sta disattendendo, pezzo pezzo, tutte quante. Si sente tradito dai gol facili che s’è lasciato scappare, dalle azioni che non ha saputo chiudere, da un mucchio di cose che ogni giorno si fa più grande e peggiore ed è quello che lo prosciuga, la sensazione di, Dio, non essere abbastanza. Non essere più abbastanza forte, abbastanza preciso, abbastanza abile. Di essere invecchiato, troppo, anche per la sua Vecchia Signora.
Quello che sente è tanto senso di colpa che potrebbe morirne, e di essere in difetto, in difetto, in difetto. Nei confronti della sua Juve, dei suoi tifosi, e ora anche di Claudio, che lo guarda, alla fine, con quegli occhi enormi e azzurri e limpidi e pieni e dice, e ci crede:
«Andrà tutto bene. Abbiamo un grande Capitano, e una grande squadra, e credimi, credimi, non siamo nemmeno oltre la mezz’ora. Insieme la vinciamo, ce la facciamo,» e lo dice un po’ come se lo stesse pregando, un po’ con fermezza, e Alex, perché è stanco e triste e incerto e arrabbiato da mesi, ormai, si permette di essere anche un po’ debole, si permette di perdere il controllo su di sé, ancora un po’, e chiude gli occhi, e lascia che la dolcezza delle parole di Claudio gli si pianti addosso, gli si ancori alla pelle.
Si sente meglio, forse, perché il concetto di squadra torna a farglisi prepotentemente vivo nella testa, ed è chiaro, è così mostruosamente chiaro e giusto e vero, Alex non è mai stato solo contro qualcosa di molto più grande di lui. È vero e giusto e chiaro e come ha fatto a dimenticarsi una cosa così semplice? Che il tutto si stringe attorno al capitano né più e né meno di quanto non si stringa attorno a tutti gli altri?
Dio, Alex, certe volte sai essere così stupido.
Gli scappa uno sbuffo quasi divertito, un po’ esasperato da se stesso, e Alex reclina la testa contro lo schienale della poltrona e potrebbe ridere, davvero, della propria ottusità; perché ha perso mesi e mesi e mesi a fissarsi nello specchio e cercarsi i difetti, dimenticandosi che oltre le sue spalle una quantità di uomini - i suoi, i suoi compagni, - gli guardava la schiena, e aspettava lui.
Sospira, adesso tranquillo, più calmo, più lucido di quanto non sia stato dall’inizio della stagione; riapre gli occhi al suono della porta d’ingresso che si richiude, teme che Claudio sia scappato ma, no, il principino è ancora lì, ancora immobile, ancora con quegli occhi da cerbiatto paralizzato davanti ai fari di un camion in mezzo ai boschi, e forse un po’ confuso dall’improvviso raddrizzarsi delle spalle di Alex.
«Siamo tornati!» si annuncia Sonia, dall’ingresso, e Alex continua a guardare Claudio finché Claudio non schioda gli occhi dalla sua maglia e lo guarda negli occhi. Alex gli sorride, allora, e potrebbe giurare che Claudio è arrossito ancora, probabilmente facendosi esplodere qualche capillare o una cosa del genere perché altrimenti non può essere anatomicamente possibile.
«Papààààà!» Tobias si precipita in soggiorno correndo verso la poltrona del padre e strillacchiando allegramente, ma con la coda dell’occhio s’accorge del signore in piedi davanti al divano e si ferma, lo guarda con curiosità e, alla fine, un sorriso gigantesco e un po’ sdentato gli spunta sul viso paffuto. «Zio Claudio!» squittisce, lanciandosi all’attacco dei polpacci di Claudio, che scoppia a ridere, istintivamente, e si china a prenderlo in braccio, anche se Tobias ormai ha tre anni e non è esattamente una piuma lui lo prende per i fianchi e lo tira su con facilità impressionante; Alex s’incanta, sinceramente colpito dal fatto che Claudio non si sia spezzato a metà, anzi stia giocando a lanciare il bambino un po’ su e giù per aria e riprenderlo al volo, a farlo ridere e fargli domande sceme cui Tobias risponde gorgogliando allegramente e tirandogli i capelli.
Sonia appare dal nulla e si china a dargli un bacio lievissimo su una tempia, Dorotea sonnecchia sulla sua spalla e Alex si volta appena per rispondere al saluto con un sorriso e una carezza impercettibile alla bambina.
«La mostriciattola?» chiede, aggiustando il vestitino di Dorotea per coprirle bene le gambe, e Sonia sbuffa e sorride.
«Stefano ha incastrato il passeggino nell’ascensore e ora sta tentando di tirarla fuori,» bisbiglia, e Alex non osa immaginare la scena per paura di scoppiare a ridere e svegliare Dorotea. La scarica di iperattività di Tobias intanto sembra essersi placata, almeno per il momento, e quando Alex lancia un’occhiatina in quella direzione vede Claudio tutto preso da quella che sembra a tutti gli effetti una ninnananna.
«Vuoi che la metta a letto?» chiede Alex, pianissimo, costringendosi a distrarsi dal mormorio ipnotico della voce bassa di Claudio a mezzo metro da lui, ma Sonia scuote la testa.
«Non ti preoccupare, faccio io,» dice; si risolleva, e si sistema la bambina contro la spalla, e fa per avviarsi in corridoio, ma ci ripensa, fa retrofront e va a salutare anche Claudio con un bacio su una guancia. Claudio sembra colpito almeno quanto lo è Alex, ma sorride e si volta verso Tobias, che è assolutamente rilassato e sta un po’ sbavandogli contro il collo, ma non è ancora del tutto addormentato.
«Hai visto?» bisbiglia, e forse è perché sente la sua voce vibrare o semplicemente perché è innamorato del suono, ma Tobias fa una risatina stanca e contenta. «La mamma vuole più bene a me.» E normalmente il bambino impazzirebbe tutto da capo, distruggendo mezza casa per convincere la mamma ad ammettere che non è vero, che è lui il cocco di tutta la famiglia e lo sarà per le prossime tre o quattro generazioni, ma ora Tobias si limita ad aggrottare appena le sopracciglia e poi dare una specie di sospiro, chiudere gli occhi e addormentarsi beatamente tra le braccia di Claudio.
Sonia ride piano, accarezza gentilmente un braccio di Claudio e bisbiglia qualcosa che Alex non sente - forse gli chiede di seguirla, così possono mettere i bambini a dormire. Claudio scocca ad Alex un’occhiata un po’ esitante, come a cercare traccia di risentimento o Dio solo sa cosa sul suo viso, ma lui sta ancora sorridendo quel suo sorriso da sogno.

*

Una sera, per qualche ragione spaventosa di cui Claudio non vuole davvero sapere niente, Delneri decide di portarli tutti al cinema. Tutti.
La sola prima squadra colonizza tre file di poltroncine e subito attacca una mortale guerra di pop-corn, come fossero una scolaresca delle elementari in gita, ma Claudio è seduto vicino ad Alex, dividono un secchio di Cipster gigantesco e una Coca-Cola ancora più grande e (sembra un appuntamento) non c’è niente che possa guastare il suo umore, davvero, neppure Leonardo DiCaprio che, sullo schermo, blatera di un sogno dentro un sogno dentro un sogno che poi forse è la realtà, ma forse è un sogno, ma forse, in fondo in fondo, è la realtà.

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Quel gol in rovesciata contro l’Udinese è qualcosa che Alex non riesce neppure a definire.
Arriva quasi un mese dopo la visita di Claudio, un mese che non è servito a migliorare la posizione in classifica della Juve ma ha acceso in Alex una nuova determinazione, l’ha riempito di una voglia di fare tale che ogni volta che può s’inventa conclusioni e tentativi come se avesse vent’anni, e poi Benatia devia la sua pallonata e poteva essere un’altra occasione persa, poteva, ma Claudio è lì pronto, in qualche modo è lì pronto, si piega in un modo bellissimo e aggancia un tiro magnifico nell’angolo della porta.
Per un attimo ad Alex sembra di riuscire a sentire addirittura gli strilli isterici di Zuliani, ma smette di pensarci quando raggiunge Claudio e gli si lancia addosso e sono a terra e Claudio sta urlando e piangendo e Alex, contro la sua maglietta e il suo odore, può solamente sorridere.
È brutto e ingiusto, poi, doversi rialzare, lasciare l’incavo comodissimo della sua schiena e risedersi sul prato e pensare che c’è ancora mezz’ora da giocare; Claudio però non lo lascia andare, gli s’incastra addosso in un modo che ad Alex piace per tutti i motivi sbagliati, e gli stringe un braccio attorno al collo per tenerselo vicino ancora un momento e guardarlo sorridere più da vicino.
(Così da vicino, Alex è ancora più perfetto di quanto non fosse a guardarlo dalla cima della curva. Ed è incredibile, quasi impensabile, un sogno, e Claudio non è mai stato così felice che, invece, sia la realtà.)

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Alex non sa che dire, al novantesimo.
Non gli rimarrebbe altro che andare dall’arbitro e protestare, «ma il gol di Claudio era più bello, ne vale almeno tre.»
Lo spogliatoio sembra dover crollare da un momento all’altro sotto il peso di un silenzio grande come il cielo, e Alex resta sulla porta a guardare i suoi uomini, i suoi compagni, e può solo mordersi le labbra. Sospira, china il capo, qualcuno lo guarda con lo stesso terrore che aveva Claudio negli occhi un mese fa.
«Andrà tutto bene,» dice Alex. «Insieme ce la faremo,» e un po’ sorride quando vede che, da quando sono rientrati dal campo, forse dal secondo gol dell’Udinese, solo ora hanno tutti ricominciato a respirare, più tranquilli, quasi fiduciosi. Tutti, tranne Claudio: Claudio si è seduto da solo in un angolo e si tiene la testa tra le mani, come se volesse strapparsi i capelli, le dita dei piedi arricciate e un lembo della maglietta tra i denti e così chiuso su se stesso che fa un male incredibile anche solo guardarlo.
Giorgio intanto dice qualcosa, annuendo, Felipe gli risponde con una battuta riuscita male e lo spogliatoio si riempe di risate ancora un po’ tristi, ma almeno sono risate, non è silenzio. È tutto un po’ più normale, nel giro di un attimo, ma Alex non riesce a muovere neanche un passo da dov’è, non riesce a smettere di guardare Claudio e chiedersi perché, perché, perché non può fare nulla per lui. Proprio per lui, di tutti quanti.

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Cerca Sonia, dopo la partita, e le chiede se, per favore, può rimanere da sua madre anche stanotte, assieme ai bambini. Lei resta in silenzio un attimo soltanto, poi sospira.
«Non c’è problema,» dice, e Alex chiude gli occhi. «Pensi che starà tanto male?»
«Chi?» si finge sorpreso, ma figuriamoci se Sonia si fa prendere in giro così.
«Claudio,» dice, infatti, una nota di vaga, gentile esasperazione nella voce.
«Sì,» bisbiglia lui, arreso, stropicciandosi i capelli con una mano e poi accarezzando distrattamente i capelli di Tobias. «Penso di sì.»
Sonia annuisce, allora; Alex saluta lei e i suoi mostriciattoli, torna a casa e aspetta.

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Claudio non si fa attendere a lungo.
Quando Alex sente il trillo brevissimo del campanello, ha avuto modo solo di accendere il riscaldamento e prepararsi un tè. Va ad aprire e non riesce neppure a balbettare un saluto quando vede Claudio stargli davanti come pietrificato, come se muovere anche solo lo sguardo potesse farlo cadere a pezzi per terra.
Alex lo attira dentro appoggiandogli una mano sul braccio, richiude la porta, torna a guardarlo e Claudio è sempre più fermo, gli occhi inchiodati al pavimento, bianco sul viso e sulle mani strette a pugno. E poi, d’improvviso, si muove, chiudendo la distanza che lo separa da Alex e scoppiando a piangere sulla sua spalla.
Non respira neppure, la fronte premuta contro di lui come se fosse un bambino e tutto il resto del corpo lontano, ma piange e singhiozza pianissimo, e Alex esita persino a toccarlo per paura di farlo scappare.
A Claudio va bene poter piangere così, però, e non gl’importa davvero di quello che fa Alex, purché gli permetta di schiacciare ancora un po’ il viso contro la sua spalla, come se dovesse farsene inghiottire, come se solo potesse.
Alex gli accarezza la schiena da sopra il cappotto, lentamente, non per calmarlo ma soltanto per esserci, per sostenerlo; Claudio ingoia tantissima aria tutta d’un colpo, trema violentemente e Alex, con una mano tra i capelli cortissimi sulla sua nuca, lo costringe a voltarsi un po’ e premergli il viso contro il collo, invece che sulla stoffa ruvida del suo maglione.
Il cambiamento sembra aiutarlo un po’, il contatto con la pelle calda di Alex, il suo odore forte e maschile di amico, capitano e compagno. Claudio smette di piangere, un po’ alla volta, e fa un passo in avanti, premendosi quasi contro Alex in un abbraccio buono.
Alex sospira, sistemandoselo addosso, e Claudio deve cedere e stringergli le braccia attorno alla vita, alla fine.
«Non è servito a niente,» bisbiglia, la voce arrochita e tesa dal pianto. «Non è servito a niente.»
«Non dirlo. Uno dei gol più belli della stagione, non è vero che non è servito a niente. Era il tuo decimo, no?» Alex sorride un po’, voltandosi leggermente e parlando, ora, direttamente contro l’orecchio di Claudio. Lo sente rabbrividire tra le sue braccia, ma si costringe a far finta di nulla. «È un traguardo importante.»
«Ma è stato completamente inutile,» ripete lui, scuotendosi appena, come se volesse scrollarglisi di dosso, ma Alex non glielo lascia fare e lo inchioda dov’è, premuto su di lui. «Abbiamo perso comunque. Non è servito a niente.»
Alex gli accarezza i capelli, sperando che le proprie dita trasmettano a Claudio il suo rimprovero. Un gol così bello, un tuo gol non può essere inutile, non sarà mai, mai, mai inutile. Claudio sospira.
«Forse non sono abbastanza, Ale,» bisbiglia, debolmente ma con una convinzione tale che potrebbe vincerci un processo. Alex rabbrividisce, gli sembra di sentire se stesso. «Forse davvero non lo sono.»
«Stronzate,» gli dice, adesso raddrizzandolo per poterlo guardare negli occhi, azzurri enormi ancora lucidi di lacrime e vivi da morire, belli così tanto che il concetto stesso di bellezza di Alex lo riscrivono ogni volta, perché non è mai abbastanza. «Hai fatto un gol che te l’invidieranno tutti per anni. E abbiamo perso, ma abbiamo combattuto, e se le cose non vanno bene, insieme ne verremo fuori. Insieme, tutti quanti, perché non si tratta di individui, la Juve è una squadra. Noi siamo una squadra, una famiglia. E tu-- tu in questa famiglia sei esattamente quello che devi essere. Ci dai esattamente quello di cui abbiamo bisogno da te. Di più, persino, vedi oggi, Claudio, Dio mio, sei stato-- impensabilmente bravo. Non esiste che tu non sia-- abbastanza.»
Claudio lo guarda, un po’ sorpreso e un po’ imbarazzato e un po’ triste tutto da capo, ma colpito, e quando Alex lo scuote un po’ per le spalle, per essere sicuro di averlo riempito davvero col senso del suo discorso, lui dà un respiro tremante, distoglie lo sguardo e scaccia col dorso della mano una lacrima che gli rotolava indolente su una guancia.
«Ecco perché sei il capitano,» bisbiglia, sbirciandolo con la coda dell’occhio e con l’ombra di un sorriso sulle labbra. Alex si rilassa tutto di colpo, gli sorride, gli si avvicina ancora un po’.
«Sto ancora imparando,» dice, e Claudio ride, poco convinto, ma sembra più calmo anche lui, convinto, in qualche modo. Alex è ridicolmente contento di avergli fatto così bene.
«Scusami per l’improvvisata,» borbotta poi Claudio, adesso di nuovo perso nella sua solita vasca d’imbarazzo, e Alex sorride e scuote la testa.
«Mi sembrava di avertelo detto, che puoi venire ogni volta che vuoi.» Claudio arrossisce e, di nuovo, distoglie lo sguardo. Alex lo guarda per un po’, gli occhi persi sul profilo delle sue labbra e poi lungo il suo mento indietro fino all’orecchio morbido che gli piacerebbe baciare, magari in un’altra vita, e alla fine sorride. «Dammi il cappotto,» gli dice, allungando due dita a sbottonarglielo.
E Claudio lo lascia fare, gli dà il cappotto, gli darebbe tutti i vestiti e la pelle che ha addosso ma sarebbe inutile, perché Alex ha già tutto. Ha già tutto, di lui.

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