[Distretto di Polizia] Che se il tuo nemico non impari a odiarlo (Luca/Remo)

Jan 02, 2011 21:00

Titolo: Che se il tuo nemico non impari a odiarlo
Fandom: Distretto di Polizia
Personaggi/Pairing: Luca Benvenuto/Remo Damiani
Rating: NC17
Conteggio Parole: 4485 (fidipu)
Prompt: Distretto di Polizia, Luca Bevenuto/Remo Damiani, "Viola? E chi cazzo è?" per il p0rn fest #4 di fanfic_italia
Avvertimenti: angst, slash, romanaccio casalingo, gun play
Note: Come dicevo a Fae, la schizofrenia degli sceneggiatori mi ha contagiata (il che è il motivo principale per cui sono riuscita a rassicurarmi almeno un po' riguardo all'ICness dei personaggi, AHAHAH) e questa fic non ha senso. *facepalm* Cioè, boh, capite? Boh. Però c'è il p0rno, il che credo basti \o\""""" Mi piace, figurarsi, XD, però, ecco, è un po' complicata, e non sono sicura di averla sbrogliata al meglio. Mah.
- Nonostante tutto, faechan , spero ti piaccia almeno un po' <3
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Che se il tuo nemico non impari a odiarlo.

Dormivi tranquillo, quasi tranquillo, per la prima volta da settimane: dormivi, il lenzuolo accartocciato attorno alle gambe, il cuscino stretto tra le braccia, la faccia rivolta alla finestra, dormivi, senza sognare, esausto, distrutto, e poi hai sentito quel rumore in cucina, lo hai sentito nel sonno, e ti sei svegliato, gli occhi sgranati contro il buio della tua stanza, e hai sentito dei passi leggerissimi, cauti, in corridoio. Hai pensato che forse era un sogno, hai pensato all’inquilina del piano di sopra che ogni notte va in bagno almeno cinque volte; hai pensato agli alieni, ma ti sei alzato, allungando d’istinto una mano sul comodino a prendere la pistola - ma la pistola l’hai lasciata in soggiorno, ieri sera, coglione.
Scalzo, il pantalone del pigiama troppo largo che ti cala giù lungo i fianchi, ti avvicini alla porta: c’è qualcuno in casa, che fa attenzione a non far rumore ma tu sei un poliziotto e riesci a sentirlo persino respirare. La luce all’ingresso è accesa, s’accende anche quella nel corridoio. C’è poco da fare: balzi fuori dalla tua stanza, proprio di fronte all’intruso, sperando di riuscire a prenderlo di sorpresa e che non sia armato e che non ti ammazzi a sangue freddo; gli afferri i polsi e lo spingi contro il muro, lo senti sibilare di dolore ma subito ti colpisce con una ginocchiata al fianco e ti pieghi un po’, con un gemito. Gli tiri una testata al petto, visto che sei lì, e a lui sfugge un mezzo grido e allora lo riconosci - Remo, Dio, quante volte l’hai sentito lamentarsi così? - ma non ti calmi per niente, non ti tranquillizzi per niente, anzi, stringi più saldamente la presa attorno ai suoi polsi e cerchi di voltarlo con la faccia contro la parete. Remo è sempre stato più forte, però: avrai vinto sì e no due volte contro di lui, che pesa più di te e ha le gambe più agili e fa a pugni più spesso, e non importa che siano passati anni, che tu te ne sia andato all’accademia e poi a fare boxe e tutto il resto, Remo è più forte anche adesso, e con uno strattone e una testata si libera e ti ritrovi a terra senza neppure capire come ci sei finito, la bocca piena di sangue e poi le sue mani attorno al collo; Remo ti costringe a sederti e sbatti la nuca contro il muro, fa male, ma non quanto il modo in cui ti guarda, gli occhi impazziti e una smorfia cattiva sulle labbra.
«Ciao, Kamikà,» dice, chino su di te per respirarti in faccia, e tu sollevi le mani, stringendole attorno al colletto della camicia che ha addosso, lo vedi macchiarsi del sangue che hai sulle dita, ma non riusciresti a fargli del male neppure volendo.
«Bazooka,» mormori, e il labbro spaccato tira e sanguina e pensi all’ultima volta che Remo ti ha pestato, avevate quindici anni e avevi avuto la peggio in una scazzottata con un paio di burinetti fuori ad un bar, ed eri andato da Remo perché non potevi tornare a casa con la felpa insanguinata e i jeans strappati e come lui ha visto le tue nocche scorticate e il taglio sullo zigomo ha capito, e ti ha gonfiato di botte perché "N’esiste, Luché, te devi ’mparà che n’ se po’ ésse gentili co’ certa gentaglia, devi menà du’ vorte piùfforte di come loro te menano a te, m’hai capito?", ancora te lo ricordi; e poi ti ha caricato sul motorino, erano le undici e avete girato Roma fino alle due, finché non avete trovato quegli stronzi e lì Remo li ha conciati, ma con cattiveria, giù di calci e capate in bocca e morsi, e ti sei sentito protetto, ti sei sentito felice. Orgoglioso. Perché poi Remo t’è venuto incontro, serio serio, e tu hai detto, "Sì, ho capito," e l’avevi detto già prima, mentre ti ripuliva dal sangue, nella sua stanza, ma non avevi capito davvero, e Remo lo sapeva. Ora sì, però, e ti ha sorriso appena, Remo, e ha fatto una cosa - ti ha baciato, Luca, lo puoi ammettere, adesso, quasi vent’anni dopo, lo puoi ammettere che certe volte, dal nulla, Remo ti baciava e a te sembrava di essere nel posto più bello del mondo, - per cui sei diventato fucsia fosforescente, ha riso, è saltato sul motorino davanti a te e ti ha riportato a casa.
E adesso ce l’hai davanti, che pensavi fosse morto ma lo sapevi che non è mai stato vero, e vedi un odio senza fine nei suoi occhi chiari, ma sai (lo speri) che pure quello non è sincero, non è Remo. Non puoi pensarci, però, perché tu devi sbatterlo in galera - e te l’ha insegnato Remo, i suoi pugni contro la pelle morbida dei tuoi fianchi, che devi odiarlo per forza, il tuo nemico, sennò ti lascerai fottere, magari senza neppure accorgertene.
«Scusa se t’ho svegliato,» sta dicendo, un sorrisetto sarcastico in faccia e ti accorgi che s’è avvicinato ancora, si è inginocchiato davanti a te e i suoi pollici ti toccano la gola, senza premere, solo a ricordarti che però potrebbero, potrebbe fermarti il respiro, ammazzarti, senza neanche sforzarsi. Lo sa, Remo, che non riuscirai mai ad odiarlo - per capirlo, se non fosse capace di sfogliare i tuoi pensieri come se ce li avessi scritti in fronte, gli basterebbe il tuo sguardo ferito, nell’istante in cui ti accorgi che, invece, lui, a te, ti detesta dal più profondo del cuore. Dio. «Volevo fa’ due chiacchiere, se non ti spiace. Vuoi?»
Mugoli una risata, perché non hai fiato per rispondergli bene; un po’ del sangue che ti si è raccolto tra le labbra schizza in gocce minuscole sul suo viso, Remo non batte ciglio, ma ti guarda, sembra che i suoi occhi vogliano divorarti. Riesci - sei meno confuso, meno dolorante, meno debole di quanto vorresti, perché Remo non t’ha accoltellato, non t’ha spezzato una gamba né un braccio, ti ha solo spaccato un labbro e forse incrinato qualche costola, e non puoi neppure giustificare la tua arrendevolezza con la quantità delle botte che hai preso; sei solo stanco, stanchissimo, e comunque ti fidi di lui, vuoi che ti faccia male, pure, vuoi che decida lui della tua vita perché, sinceramente, non ce la fai più, sono ormai mesi che non ce la fai più, non ti rimane nemmeno il coraggio. Vuoi sentirlo baciarti ancora, soprattutto. - a sollevare le mani e stringergli la nuca, avvicinarlo un po’. Qualcosa come un lampo di paura ed incertezza passa negli occhi di Remo, ma lui non si scosta, semplicemente ti guarda, e sei disgustato di te stesso, ma vorresti che non si muovesse mai più. Non t’importa nemmeno del labbro che pulsa, della sua camicia macchiata, di quanto sia sbagliato che il tuo cuore ti stia facendo tempesta dentro il petto; non t’importa, ti detestavi ieri, un anno fa, e non fa differenza che ti detesti anche oggi, per colpa di Remo. È solo che lo vuoi, ti manca. Non riesci ad odiarlo. Fa male da morire, l’idea che non ti (abbia mai amato) ami più.
«Parliamo,» bisbigli, in qualche modo, perché il silenzio cominciava a riempirsi di cose strane e ti sei scoperto già troppo. Remo sbuffa, ti tira in piedi rozzamente ed è una bella sensazione, le sue mani attorno alle braccia - sembra di essere tornati indietro di vent’anni, quando eravate puntualmente troppo ubriachi per star dritti e vi reggevate l’uno all’altro, cercando un equilibrio che non arrivava mai e allora crollavate sul marciapede, ridendo, lamentandovi del male al culo e poi, di solito, Remo ti baciava con forza, stringendoti il viso tra le mani e facendoti gemere. Qualche volta, ti guardava in un modo che ti faceva immaginare cose.
Adesso che ce l’hai davanti, il suo naso all’altezza del tuo naso, i suoi occhi che ti osservano guardinghi e le sue mani ancora calde sulle braccia, ti sembra in qualche modo di riuscire a pensare meglio. Ti viene in mente la lista dei capi d’accusa a suo nome, riesci a vederla ed è come se fluttuasse davanti alla sua faccia, potresti toccarla; ti viene in mente la gioia infinita quando l’hai rivisto, anche se era in ospedale e mezzo morto, ma ti viene in mente soprattutto la disperazione sottile, la tristezza che ha invaso il tuo mondo quando hai capito che Remo Damiani è soltanto un altro degli immensi pezzi di merda cui dai la caccia per mestiere. Ti viene in mente il modo in cui, negli ultimi mesi, sapendolo morto, eri quasi riuscito ad odiarlo.
E, allora, l’istinto del poliziotto parte da sé: un calcio, due cazzotti e uno spintone in pieno petto e Remo, colto di sorpresa, si sbilancia all’indietro e sbatte contro l’altra parete del corridoio - dieci centrimetri più in là e si sarebbe rotto la testa contro una mensola, e soffochi il sospiro di sollievo che ti vuole riempire i polmoni perché, naturalmente, Remo s’è già ripreso.
«Figlio di-» sbotta, non vuole veramente insultare tua madre, e il gemito che ti sfugge, quando di nuovo ti colpisce al viso, non sai se è di dolore o di piacere; riesci a restare in piedi, e opponi un po’ di resistenza mentre lui insiste a menarti. Ricordi il modo esatto in cui sferra schiaffi e calci, sai come stringe un po’ gli occhi prima di dare una ginocchiata: riesci a parare il grosso dei colpi, lasciandoti raggiungere da quelli più sopportabili, e reagisci, naturalmente, e quando vi fermate, a un metro di distanza l’uno dall’altro, ansanti e piegati sulle ginocchia entrambi, forse sei conciato peggio di lui, ma di certo Remo non è immacolato.
«Ne vuoi ancora?» lo provochi, la bocca ancora piena del sangue che non ha smesso neanche per un attimo di inondarti le labbra, e Remo ringhia, però ti guarda e non muove un muscolo. Riprendi fiato pian piano, ti raddrizzi, appoggiandoti alla parete, e ti passi una mano tra i capelli «Posso offrirti qualcosa da bere?» domandi, con tutta la cortesia che riesci a trovarti dentro, trattenendo la paura sul fondo della gola perché sai che Remo riuscirebbe a fiutarla. Lo guardi, ti sta guardando, forse un po’ confuso dal tuo comportamento assurdo, e, di nuovo, pensi a quanto vorresti baciarlo. Dio. Devi aver spalancato una porta, allora, perché Remo sogghigna, stronzissimo, e sai che sa a cosa stavi pensando (il problema è che non sai se ci stava pensando anche lui; ma non l’hai mai saputo, con Remo, e una volta di più non fa poi tanta differenza).
«Se c’hai un po’ di grappa,» dice, sistemandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio - l’hai morso, realizzi, vedendo quanto è arrossato; l’hai morso.
«Per chi mi hai preso,» sbuffi, quasi divertito, perché è ovvio che ce l’hai, la grappa; tieni sempre una bottiglia di grappa stravecchia in mezzo ai liquori, ti aiuta nelle serate proprio insostenibili. Remo beve solo grappa.
Gli passi accanto, per raggiungere il soggiorno, e Remo non si sposta di un centimetro - sta in mezzo al corridoio, che già è stretto di suo, e quando la tua spalla tocca la sua lui t’afferra un braccio, ti guarda. I suoi occhi ti chiedono, che cazzo stai facendo? Scuoti le spalle, abbassando lo sguardo, non lo so neanche io, e Remo ti lascia andare, ti segue in silenzio, accomodandosi a gambe larghe sul divano. Chissà se nota la pistola, sulla poltrona là accanto.
Appoggi sul tavolino davanti a lui due bicchieri troppo grandi per la grappa, ma Remo non si lamenta neppure quando li riempi oltre la metà. Non si lamenta neppure quando ti siedi accanto a lui, troppo vicino, premendoti contro il suo fianco - allunga un braccio sullo schienale del divano, invece, e t’inchioda una mano sulla spalla, pensi per tenerti fermo e tranquillo e controllarti quasi.
Bevi appena un sorso di grappa, ti brucia sul labbro spaccato e sul fondo della gola e senti Remo ridacchiare dentro il suo bicchiere. Lo guardi, incerto, un po’ stordito dalle botte, dal fatto che non ti fai una nottata di sonno come si deve da tempo immemorabile, e ti sembra di non riuscire a provare che un affetto infinito per lui - nella luce calda del lampadario, Remo assomiglia tantissimo al se stesso di vent’anni fa, a quel ragazzino che era tutto il tuo mondo. E tu sei debole, tremendamente debole, sempre, e non riesci a guardare oltre, a guardargli le rughe sottili attorno alla bocca, le guance impolverate di barba, gli occhi sempre chiarissimi, ma meno limpidi, quasi niente affatto trasparenti.
Ti sfugge un sospiro, forse, perché Remo smette di scrutare il fondo del suo bicchiere di grappa e ti osserva: è un po’ incazzato, un po’ disgustato, e poi solleva gli angoli della bocca in un sorriso stronzissimo.
«Ti vedo bene, Luché,» dice. Sbuffi, torturandoti con un altro sorso di grappa e spostandoti un po’ sul divano per avvicinarti a lui.
«Ti vedo bene pure io,» gli dici, quasi dandogli una gomitata di complicità nel costato, e Remo ridacchia. «Considerando che dovresti essere morto.» Sospiri. «Considerando che dovresti essere in galera.»
«Galera,» ripete, come se fosse un parolone indegno di accarezzargli le labbra, e tu ti domandi per quanto andrà avanti questa farsa, quando potrai buttar giù un paio di antidolorifici, perché il petto comincia a lamentarsi per le tre o quattro botte che ha preso, e tornare a dormire. Glielo domandi, e Remo ride di nuovo. «Non l’hai ancora capito, Luché? Non finirà mai.»
«Finché non ti avrò arrestato.»
Remo scuote la testa, le punte arricciate dei suoi capelli ti sfiorano una guancia ed è così che ti accorgi di esserti avvicinato ancora. Stupido, stupido Luca, attratto da lui come da un magnete.
«Finché non ci saremo ammazzati a vicenda,» dice, guardandoti serio serio negli occhi, e non ti sta odiando, adesso, ti guarda e basta, reso un po’ allegro dalla grappa, un po’ distratto, forse, dalla tua mano sulla sua coscia. E poi si sposta e ti bacia, era naturale che lo facesse, che volesse assaggiare il sapore del tuo sangue e assicurarsi che sia rimasto lo stesso.
Chiudi gli occhi, trattieni il respiro mentre la sua bocca è sulla tua e ti cerca, ti è mancato, Dio, ti manca anche adesso che è sotto le tue dita e non sembra davvero che sia qui: forse è un sogno, Luca, che dici? Forse è per questo - non per il sangue che hai perso, per la tua stupidità senza fine, per la solitudine e un migliaio ancora di cose cui non sai dare un nome, e tante altre che neppure ci provi ad identificare, - forse è perché è solo un sogno che sei così assurdamente tranquillo, felice sotto il suo tocco. Forse è solo un sogno davvero, anche se sei completamente acciaccato e quando Remo ti morde le labbra, forte, una fitta di dolore bianco ti fa gemere e lui sorride sulla tua bocca.
«Stronzo,» bisbigli, prima di cercare ancora la sua lingua, e Remo risponde al tuo bacio con tanta forza da costringerti a piegarti all’indietro, quasi sdraiarti lungo il divano. Ti stringe il viso tra le mani e ti tiene fermo, però, ti tiene incollato a sé e ringhia, piano, dal fondo della gola, e ti spaventi, quasi, per il modo in cui il suono ti eccita.
«Perché ti stupisci?» domanda, spostandosi a morderti il collo, e per quanto violentemente tu possa volerlo, ora - per quanto tu possa avere bisogno del suo corpo a pesare sul tuo, per quanto, in tutta onestà, tu non abbia mai veramente smesso di sentire la sua mancanza, - non riesci a rilassarti e basta, a farti divorare dalla sua bocca e basta, e magari di questo passo ricomincerai a fare buon uso quel poco di sale che il buon Dio è riuscito ad infilarti in zucca, chissà. «Piantala de fa’ il poliziotto, Kamikà, piantala,» brontola Remo, da qualche parte attorno alla tua gola. «Se volevi fa’ il serio, mi arrestavi du’ ore fa, non trovi? Mò è abbastanza inutile, quello che stai pensando.» Ride piano. «Qualsiasi cosa tu stia pensando, eh.»
Naturalmente, ti basta il suo ragionare spiccio per accantonare qualsiasi proposito di prudenza. Non saresti Luca, altrimenti: non saresti Luca, se non spalancassi tranquillamente le gambe per fargli spazio, permettendogli di arrampicarsi con le dita lungo il tuo petto e spogliarti in fretta, offrendoti ancora ai suoi denti. Non saresti Luca, se non gli stringessi le mani tra i capelli per costringerlo a baciarti piano, a riprendere confidenza con la forma del tuo palato e tu con la sua lingua, con il modo che ha di cercare ed eccitare la tua, e che non hai mai ritrovato in nessun altro.
Remo geme piano, premendo il naso contro il tuo in un gesto quasi affettuoso. Infila una mano sotto l’elastico dei tuoi pantaloni, intanto, e quando senti il tessuto ruvido dei suoi jeans contro le cosce hai un altro momento di lucidità, che non saresti Luca se non riaprissi gli occhi e lo spingessi via, le mani bene aperte sul suo petto - una fitta tremenda al fianco per lo sforzo e una costola che se non s’era incrinata per i cazzotti di sicuro s’è incrinata così, - dicendo:
«No, Remo, no, cazzo, no.» Sospirando: «Non ci casco di nuovo, va bene? Ti presenti in casa mia con quella faccia da schiaffi e pensi - pensi di poter fare i tuoi comodi tutto da capo. Cazzo, Remo, no. Stavolta no.» Quasi convincendoti davvero che riuscirai a negarti, stavolta.
Remo ti guarda, ti studia da sotto le palpebre strette. Siede sul divano ad una distanza siderale da te, se pensi che un attimo fa non c’era spazio, tra voi, neanche per respirare, e ti guarda, ti giudica, ti senti bruciare d’imbarazzo per l’intensità dei suoi occhi e basterebbe un suo gesto - basterebbe un minuscolo cenno del mignolo - per distruggere ancora la tua decisione.
Vent’anni fa, Remo non avrebbe esitato un secondo a liberarsi della tua schizofrenia da eterno insicuro con quel ghigno strafottente che ti sottrae qualsiasi capacità di giudizio; adesso, lo vedi esitare, e capisci che, dopotutto, vent’anni sono passati pure per lui. Capisci che, magari, non è venuto solo ad umiliarti una volta di più.
Pensi che, forse, con la nostalgia ha dovuto conviverci anche lui, in tutti questi anni.
E nei suoi occhi vedi una traccia minuscola di tutto questo - di una malinconia più grande di lui, più grande ancora di questo momento assurdo, di questo scenario da pazzi in cui lui è il fuorilegge e tu dovresti arrestarlo ma lui è morto, eppure è seduto sul tuo divano e ogni singola goccia del tuo sangue strilla, impazzita per la voglia di amarlo, - e non solo ti basta, ma è anche più di quanto tu abbia mai sperato di riconoscere in lui.
Remo sbuffa, contrariato da se stesso, e si stropiccia i capelli con una mano prima di tornare a guardarti dritto in faccia.
«Che te devo di’, Luché? Te meno e non va bene, scopiamo e non va bene, ti dico de lasciamme sta’ e tu mi vieni dietro e quasi ci ammazziamo in due... Gesù Cristo, manco Viola m’ha mai dato tanti problemi!» Ride, un po’ esasperato, e malgrado tutto tu ridi con lui: chiudi gli occhi, non appena l’allegria ti s’infrange addosso, prendi un respiro profondo e forza, Luca, puoi farcela ad ammetterlo.
«Non è vero che se scopiamo non va bene,» dici, e anche senza vederlo senti il ghigno di Remo bruciarti la pelle. «È vero che dovresti essere morto o in galera o una via di mezzo tra le due cose, ma non sono ancora sicuro che non sia tutto un sogno,» non hai mai detto una cazzata più grande, «per cui, insomma. Può andare bene. Penso. Se... se non credi che Viola-» e ti mordi la lingua, perché stai proprio parlando a vanvera, ora, ma Remo ride.
«Viola, eh?» Fa, il sorriso stronzo chiarissimo nella sua voce. «E chi cazzo è? Non te n’è mai importato, vuoi farmi credere che te ne importa adesso?»
«Smettila,» lo avverti, minaccioso, e apri un occhio per guardarlo male, ma il suo respiro è sulla tua bocca e un secondo dopo, spaventato, te lo ritrovi addosso, che sghignazza e ti bacia.
«Sei tutto matto,» dice, e ti accarezza una guancia con affetto, e sei quasi felice. «Sei tutto matto, ’a Kamikà.»
«Probabilmente mi hai dato una capata troppo forte,» sbotti, e Remo ride ancora, ma te ne fotte della sua contentezza perché in questo momento hai soltanto bisogno di baciarlo e dimenticarti un miliardo di cose, a cominciare dal dolore sordo che ti pulsa sulla schiena, dove domattina sicuramente troverai un livido gigantesco e grazie a Dio che non abiti più con Anna, grazie a Dio che al Tuscolano non c’è mai bisogno di denudarsi, per finire, poi, all’idea che dovrai alzarti e tornare al lavoro, domani.
Remo ti sfiora e in punta di dita ti riduce a tremare miseramente per lui; ti accorgi dopo un minuto - dopo esserti teso tanto da spezzarti quasi, cercando di premerti contro di lui il più possibile, - che ti tocca con una mano sola, perché?, e poi contro l’interno della coscia ti preme la canna freddissima della pistola e ansimi, spaventato.
Remo sorride e tu lo guardi con gli occhi sgranati, già fai i conti con la possibilità di morire così e ti chiedi quanto costerà il tuo funerale, se Alessandro tornerà dall’America per portare un fiore sulla tua tomba. Già quasi senti il cervello sparpagliarsi sul divano, imbrattando i cuscini e i muri e forse, se ti preme la pistola sotto il mento, riuscirai a macchiare anche il soffitto. Già hai le orecchie piene del borbottìo sconsolato del padrone di casa, che poveraccio dovrà addirittura assumere un imbianchino per rimediare al fatto che sei un coglione imprudente che ragiona col cazzo e col cuore, ma Remo sorride un po’ di più e ti bacia, la pistola che ancora vaga in cerchi lenti attorno alla tua erezione.
«Stai tranquillo,» mormora, mordicchiandoti il labbro e ’fanculo, aveva quasi smesso di sanguinare. Senti la pistola spostarsi in su verso il tuo bassoventre, tenti di sfuggire al suo tocco gelato ma Remo t’inchioda al divano semplicemente guardandoti, e allora ti mordi la lingua mentre il metallo freddo ti sfiora gli addominali, il petto, stuzzica piano un capezzolo e ti fa scattare i fianchi all’insù nervosamente.
Remo ride, il suo respiro caldissimo su di te, e con la mano libera scende a sollevarti un poco la schiena dal divano - preme, chissà quanto casualmente, su tutti i lividi che ti si stanno coagulando sottopelle, - spostando in basso anche i boxer. Ti accorgi che è ancora troppo vestito, lui - gli hai slacciato sì e no due bottoni della camicia e poi la cintura, mentre tu sei ormai nudo, i pantaloni attorcigliati alle caviglie e la maglietta persa da qualche parte oltre il divano, - e mentre la pistola ti ghiaccia anche il collo sollevi le braccia e più o meno lo spogli, sbottoni la camicia e spingi i due lembi giù sulle sue spalle, liberandoti il suo petto forte da toccare e stringere mentre dirigi le dita alla zip dei suoi jeans.
Remo ti preme la pistola di piatto contro la gola, e poi si china a baciarti nello stesso punto; impazzisci nel contrasto tra il gelo e le sue labbra torride, e non capisci più niente quando ripete il gesto un centimetro più giù, e poi più giù ancora, e ancora, e ancora, tracciando un percorso caldo e freddo lungo il tuo corpo, finché non arriva a sfiorare la tua erezione gonfia con la punta della pistola, strappandoti un lamento.
«Buono, Luché, buono,» bisbiglia, quando uno scatto nervoso dei tuoi fianchi ti porta a premerti completamente contro la pistola e non è una bella sensazione, ma lo è, Dio, Dio, non stai capendo più niente - e meno male, perché altrimenti tireresti su un casino infinito per il modo assolutamente ridicolo in cui ti sei fatto fregare (ed è come ti ha sempre detto Remo, d’altra parte: che se il tuo nemico non impari ad odiarlo completamente, quello finirà per avere la meglio prima ancora che tu ti renda conto di essere stato fottuto). E meno male, perché altrimenti ti accorgeresti del fatto che Remo sta spingendo la pistola in giù e indietro, e moriresti d’ansia al pensiero di quello che vuole fare - Dio, Dio, Dio.
Capisci soltanto quando senti la sua bocca chiederti un bacio più gentile, e poi la pistola premuta alla base della schiena, orientata in modo da spingersi nel solco tra le tue natiche, fredda, freddissima, e Cristo, è mezz’ora che Remo te la spennella addosso, perché non prende calore?
«Remo,» ansimi, e ti aggrappi alle sue spalle e lui ti lascia fare, perché con tutta la paura e l’incertezza hai stretto le gambe attorno alla sua vita, dandogli modo di muoversi più liberamente. «Remo,» e Remo muove all’indietro la pistola, spingendola crudamente contro la tua apertura - è fredda, riesci solo a pensare, è fredda e Remo è così caldo e Dio ti prego fa’ che non se ne vada mai più, anche se dovesse aprirmi in due e scoparmi solo con la pistola ti prego fallo rimanere con me. Ti tormenta troppo a lungo, così tanto che comincia a piacerti, cominci ad aggiustarti contro la superficie spigolosa della canna della pistola, ti sfugge un gemito, e quasi sorridi quando lo senti ringhiare, geloso.
Dopo un attimo, Remo s’è già liberato della pistola - l’ha buttata giù dal divano e preghi soltanto di riuscire a ritrovarla, prima o poi, - e dei pantaloni e delle mutande e lo senti, grazie a Dio, che cerca l’angolo giusto per poterti prendere con una spinta soltanto.
Farà male da morire - fa male da morire, ti senti quasi strapparti e cedere attorno a lui, ma il suo gemito soddisfatto e poi il modo in cui comincia a spingere piano, dondolando aritmicamente i fianchi, e, ancora, il sorriso che ti fa basta a cancellare tutto e riportarti indietro non di vent’anni, ma di una vita intera, ad una realtà fatta di sogno e zucchero filato in cui c’è Remo e c’è il piacere sordo di lui dentro di te, dei suoi bisbigli eccitati sulle tue labbra.
C’è Remo e c’è che ti tocca come se sentisse sotto la pelle dove e come e quanto in fretta stringere la mano attorno alla tua erezione; c’è che il suo pollice trova naturalmente la punta umida del tuo sesso, c’è che ti prende con più forza e più profondamente quando ti sente vicino all’orgasmo: c’è che lascia che tu sospiri nella sua bocca, contento, e poi c’è che gli bastano due spinte ancora per venire anche lui, caldo e prepotente come soltanto Remo, come soltanto il centesimo cazzotto nello stomaco di fila.
C’è che ti crolla addosso, dopo, rabbrividisce e ti bacia una guancia.
«Sei matto,» dice, e c’è il modo in cui lo dice. «Però sei bello, Luché.»
Tu chiudi gli occhi, e ti riaddormenti.

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