[RPF Basket] Safe and Sound

Dec 09, 2013 01:14

Titolo: Safe and Sound
Fandom: RPF Basket
Personaggi/Pairing: Juan Carlos Navarro, Sarunas Jasikevicius & consorte Anna, Ricky Rubio, Vanessa García Navarro, Pau Gasol, Kostas Papanikolaou, Marc Gasol, Pichu
Rating: R
Conteggio Parole: 7765 (W)
Avvertimenti: Criminali!AU, Slash, Juanca si fa il mondo, Mild Violence
Prompt: #56. "No. Dovevi pensarci prima." della maritombola @ maridichallenge.
Note: MINCHIA, YO. Tanto per cambiare, colpa eterna di el_defe, vedetevela con lui; se n'è uscito tipo... domenica scorsa, credo, con Gangs of Juan Carlos e da lì una cosa ha tirato l'altra e son venute fuori, da me, queste 7k di vuotezza e Juanca che si fa gente e angsteggia mentre finge di fare il mafioso (lol, srsly, è credibile quanto me se fingessi di essere un gatto). Boh? Boh. Sono di cattivo umore perché continuiamo ad essere ridicoli in Liga, non badate a me. :D
- I versi corsivettati sono tratti da "Bossanova" degli Estopa.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



Safe and Sound.

que mis respuestas son balas
para tu corazón herido

Si stiracchia, ruotando all’indietro le spalle finché qualcosa non schiocca, in mezzo alla schiena, e lo fa sentire di nuovo con ogni pezzo incastrato al proprio posto. Si strofina gli occhi, sbadiglia nella coppa delle proprie mani giunte davanti al viso; sullo schermo del computer, un fotogramma tremulo e in scala di grigio gli mostra lo spiazzo di un parcheggio, due dozzine di uomini raccolti attorno ad un autobus coi vetri oscurati. Juan Carlos sospira, fa ripartire il video e spera, contro ogni logica, che questa volta Saras deciderà di essere prudente.

Lo sportello anteriore dell’autobus si apre strisciando lungo la fiancata, il branco di tifosi oscilla in avanti, fiutando la promessa di sangue. Juan Carlos digrigna i denti; Saras è in equilibrio sul terzo gradino, la bottiglia ha già tracciato metà della propria parabola quando squilla il telefono e Juan Carlos sbatte una mano sulla barra spaziatrice per rimettere in pausa il video, afferra la cornetta come per spaccarla sulla testa di qualcuno. Saras, probabilmente.

“Che c’è?” abbaia, e non riesce a smettere di fissare lo schermo. Razza d’imbecille.

“Juancar, c’è qui Rubio che vorrebbe vederti,” dice Pichu, imperturbabile. “Lo faccio passare?”

Juan Carlos aggrotta le sopracciglia: la marcatura oraria in un angolo del video di sorveglianza segna le sette e mezza di sera; non è possibile che Ricky sia lì, ora saranno al più le nove e col traffico serale è come se Manresa fosse in Portogallo. Uno scatto del polso, e il quadrante dell’orologio gli rivela che sono le undici e mezza passate. Juan Carlos si sgonfia contro lo schienale imbottito della sedia.

“Fallo passare, Pichu, ti ringrazio,” brontola, strofinandosi la radice del naso col pollice. “E vattene a casa, non ho intenzione di pagarti altri straordinari.”

La replica di Pichu è un verso inarticolato, e Juan Carlos lo conosce abbastanza bene da sentire la nota di scherno al di sotto della distratta cortesia; rotea gli occhi e, come sempre, il lieve pizzico della paranoia gli ricorda che farebbe meglio a preoccuparsi dell’insubordinazione, persino, soprattutto quando proviene dai suoi più fidati. Ma la porta dell’ufficio si apre piano piano, e Ricky sta sgusciando nella stanza: Juan Carlos smette di pensare e, prima di tutto, riporta sullo schermo un innocuo resoconto della contabilità. Dopodiché, si raddrizza nella sedia ergonomica - su misura; Juan Carlos sceglie con cura i lussi coi quali viziarsi - e alza pigramente gli occhi su Ricky, gli fa cenno di accomodarsi.

“Ciao,” dice Ricky, col mezzo ghigno delle partite buone ma non eccellenti. Si lascia cadere sulla poltrona a sinistra e Juan Carlos lo osserva, lo soppesa; ha avuto il tempo di asciugarsi i capelli, ma ha ancora addosso il pantalone morbido in cui gli piace ficcarsi dopo aver giocato, quindi non è passato da casa, prima di presentarsi qui. Ricky si scrolla di dosso il cappotto, si sfila la sciarpa e sospira. È meno stanco di quanto voglia far intendere, e Juan Carlos stringe gli occhi, sospettoso, ma Ricky gli fa un sorrisino. “Non mi sono ancora abituato,” dice, facendo un gesto vago verso la sua testa.

Juan Carlos non arrossisce, e se si passa una mano tra i capelli, a disagio, è solo perché il nuovo taglio gli lascia scoperte le orecchie e la nuca in pieno inverno, ed è stata una pessima decisione. Sospira.

“Che c’è, Ricky?” domanda, cavandosi le ultime briciole di gentilezza dalle intercapedini tra le ossa. Ricky esita prima di scrollare le spalle con noncuranza, e Juan Carlos fatica a mantere un’espressione neutrale. C’è appena appena una vibrazione minacciosa nella sua voce, un avvertimento, quando dice, “Ricky.”

Ricky si raddrizza come uno scolaretto - Juan Carlos sente le guance scaldarsi, ma non è il momento; - si torce le mani, nervoso.

“Ok, ok,” soffia, senza guardarlo. Juan Carlos sta sfornando ipotesi via via più tragiche ogni istante che passa, e non sa come mettere a tacere il proprio cervello per cui Ricky farà meglio a parlare prima di subito. “Volevo dirti una cosa.”

Juan Carlos serra i pugni sotto il tavolo. “Ti ascolto.”

Ricky esita. Juan Carlos è tentato di balzare oltre la scrivania e ribaltare la poltrona su cui è seduto, inchiodarlo al pavimento con una mano sotto la gola e con l’altra non toccarlo affatto finché non si sarà arreso; è il metodo più efficace: con Ricky, la voglia è sempre più forte dell’imbarazzo.

Ma Juan Carlos non ha tempo di rincorrere i suoi capricci; Cristo, è già mezzanotte meno un quarto e Juan Carlos si era ripromesso di essere da Saras il prima possibile. Agustí l’ha chiamato alle otto, venti minuti più tardi gli è arrivato il video e Juan Carlos l’ha guardato trattenendo a stento la rabbia che gli ribolliva sottopelle; si è preso cura di tutto e poi, incapace di fermarsi, l’ha riguardato ancora, solo un’altra volta, s’è detto, e adesso gli sono sfuggite tre ore. Adesso, ogni volta che chiude gli occhi ha impresso dietro le palpebre il viso coperto di sangue di Saras.

Juan Carlos non ha tempo.

“Ricky-” esordisce, quasi scusandosi, ma la sua voce è ferma. Non ho tempo.

Ricky sgrana gli occhi, “No, lo so, Saras,” dice. “Non mi aspettavo nemmeno di trovarti qui, onestamente-ma Juanki, è urgente. Juanki-non ti arrabbiare, ti prego, ma c’è una cosa che devi sapere su di me e-”

“Ricky, lo so,” sbotta Juan Carlos, nervosamente. Ricky sembra del tutto perso, perciò continua, stringendo gli occhi, “Tu e Rudy. Ricky, lo so. Non sono arrabbiato.”

“Cosa-come-Juanki,” Ricky annaspa; Juan Carlos è troppo distratto anche solo per congratularsi con se stesso per aver centrato in pieno il bersaglio. “Non-eh?”

Juan Carlos rotea gli occhi; con tre click, spegne il computer.

“Rilassati, ragazzino. Non è mai stato un segreto.” Si alza, tira un po’ i polsini della camicia per sistemarsela addosso. “E non è neanche un peccato capitale, se è questo che ti preoccupa. Se Rudy fosse stato coinvolto in quello che è successo stasera, se pensassi anche solo per un istante che la vostra-uhm-relazione potrebbe compromettere la sicurezza di qualcuno, di chiunque dei nostri,” Juan Carlos scrolla le spalle, “credimi, lo sapresti.”

Ricky lo fissa con la bocca un po’ aperta, le mani serrate attorno ai braccioli della poltrona. Juan Carlos è solo lontanamente consapevole della minaccia che gli è appena rotolata dalle labbra con la naturalezza di un bacio; il fatto è che stava pensando a Saras mentre parlava, e sta pensando a Saras mentre va a recuperare giacca e cappotto dall’attaccapanni, sta pensando a tutto quel fottutissimo sangue e alla risata rauca e faticosa di Saras in sottofondo alla chiamata di Agustí.

Juan Carlos si avvolge la sciarpa attorno al collo, dà una pacca sulla spalla di Ricky.

“È tutto apposto,” gli dice. “Va’ a casa a farti una dormita.”

Ricky sbatte le palpebre; il computer è protetto da abbastanza protocolli di sicurezza da far piangere la NASA, i cassetti della scrivania sono chiusi a chiave e comunque vuoti, solo tre persone al mondo sanno della cassaforte e Ricky non è una di queste, per cui Juan Carlos lo lascia lì. Pichu gli rivolge un’occhiata interrogativa quando passa davanti alla sua scrivania, ma Juan Carlos lo saluta con un cenno distratto, e tira dritto.

*

Anna viene ad aprirgli con un sorriso stanco, facendosi immediatamente da parte per permettergli di entrare. Juan Carlos le passa accanto a testa bassa, chiudendo gli occhi per un attimo nel tepore della casa; l’inverno si promette freddo e furioso, in tinta col suo umore.

Juan Carlos si ricompone, sospira. Si rivolge ad Anna e si scioglie in un’espressione disperata, e si sente così bene, a poter essere onesto. “Anna, mi-”

Lei scuote la testa, gli prende una mano e la strizza forte tra le proprie. “Non voglio neanche sentirtelo dire, Juancar. Stavolta la colpa è solo sua.”

“Tecnicamente-” comincia Juan Carlos, ritrovando una traccia di spirito, ma Anna lo zittisce ancora.

“Vai, per piacere. Gli hanno ordinato di riposarsi, ma fa i capricci e non ne vuole sapere di mettersi a dormire finché non ti ha visto. Certe volte mi sento come se avessi tre figli,” dice, e poi arriccia il naso. “No, in realtà è sempre come se avessi tre figli. E Saras è il peggiore.”

Juan Carlos ridacchia; Anna lo lascia andare, sospingendolo verso il corridoio. “I bambini?”

“Di sopra, a dormire,” replica Anna, rassicurante. “Che è dove sto andando anch’io.”

“No, intendevo-”

“Lo so, Juancar. È tutto apposto, per il momento non sanno nulla. Saras vuole raccontargli di aver fatto a pugni con Rey Mysterio.”

Juan Carlos rotea gli occhi, “Tipico.”

“Già. Non c’è bisogno che ti dica di fare come se fossi a casa tua, vero?” Anna gli stringe la mano un’ultima volta, prima di indicargli il corridoio e congedarsi con un mormorato, “Buonanotte.”

Juan Carlos rimane impalato ancora per un minuto; è ridicolo, perché si è precipitato qui perseguitato dal pensiero che era così terribilmente in ritardo, e adesso non riesce a muoversi. Sospira; spegne la luce in soggiorno, si avventura nel corridoio buio e bussa piano alla terza porta sulla sinistra.

Da dentro la stanza, la voce di Saras brontola, “Avanti,” e Juan Carlos entra, e deve farsi violenza per non limitarsi a fissarsi i piedi. L’unica luce nella camera è quella giallastra e calda dell’abat-jour sul comodino; Saras è a letto, seduto contro la testiera ma coperto fino al mento da un piumone colossale, ben rimboccato ai lati, da cui sbucano solo le braccia. Sta combinando qualcosa con l’iPad, gli occhiali da lettura appoggiati sul naso, e, quando si volta a guardare Juan Carlos, la metà sinistra della sua faccia è nascosta da una fasciatura imbottita che gli si arriccia fin dietro l’orecchio.

Juan Carlos inarca le sopracciglia. Ha visto troppe volte Il Signore degli Anelli per impedire alla propria lingua di dire, “Che brutto aspetto.”

Saras appoggia l’iPad da parte sul comodino, non trattiene un ghigno in egual misura esasperato e affettuoso. Gli fa cenno di avvicinarsi, e Juan Carlos va, aggirando il letto e fermandoglisi vicino; solleva una mano a circondargli delicatamente il viso, col pollice gli sfiora il profilo del naso, la guancia non ferita.

“Come stai?” domanda, la voce un nodo irriconoscibile. Saras neanche gli risponde, ma lo tira giù per i lembi della sciarpa e sigilla la sua bocca con la propria in un bacio a stampo, un bacio ridicolo perché si tratta di Saras e Juan Carlos è sicuro che Saras non l’abbia mai baciato prima senza neppure un accenno di lingua; è straniante, allora, ma non incomprensibile, e Juan Carlos mugugna, si separa da lui con uno schiocco giusto il tempo di sistemarsi seduto sul bordo del materasso. Saras gli tempesta le labbra di baci brevi e asciutti e Juan Carlos s’infiamma di tenerezza, ma sotto la tenerezza c’è un chiaro lampo di furia, perché la ragione per cui Saras è così è che per poco non-per poco-per così poco-

Juan Carlos espira forte, nasconde il viso contro il suo collo. Si sente caldissimo, con addosso il cappotto e la sciarpa e le mani di Saras, e non lo sorprende che sentire Saras tanto vulnerabile alla sua presenza lo abbia eccitato così. Non è il momento, si ripete, baciando la curva ossuta della sua mandibola, l’angolo delle labbra. Saras ha chiuso gli occhi, e gli sembra più sereno. Ha gli occhiali appannati, e Juan Carlos ghigna, glieli sfila gentilmente.

“Sto bene,” gli dice Saras; sono abbastanza vicini che Juan Carlos sente il suo respiro come una carezza. “Undici punti, sono tutto intero, non è niente. La tua nuova acconciatura è un trauma peggiore.”

“Ero venuto a farti una ramanzina epica,” mormora Juan Carlos, rifugiandosi ancora nella curva del suo collo e ignorando la frecciatina sui suoi capelli, apparentemente il nuovo problema più interessante del mondo. Saras gli avvolge le braccia attorno alle spalle, tirandoselo addosso. “Ma sono troppo stanco.”

“Sai dove tengo i pigiami, ma puoi anche farne a meno, giuro che non mi lamento.”

Juan Carlos mugola, dondola i fianchi; l’invito gli fa formicolare lo stomaco, ma scuote la testa. “Devo tornare a casa, devo-” -strizza gli occhi e si sforza di ricordare, e non è proprio facile con le mani calde di Saras che gli strisciano sotto il cappotto per sfilargli la sciarpa, il promemoria di Pichu che gli è arrivato mentre era in macchina- “Devo portare le bambine a scuola, domani mattina.”

“Uh-huh,” mugugna Saras, gettando la sciarpa sul pavimento e prendendo il viso di Juan Carlos tra le mani. “A che ora devo svegliarti?”

Juan Carlos lo bacia. “Tra dieci minuti,” mormora, scalciando via le scarpe e arrampicandosi sul materasso, oltre Saras, sopra le coperte. “Dieci minuti, Saras.”

Saras promette solennemente, ficcandogli la lingua in bocca per farlo smettere di brontolare.

*

Si sveglia col cellulare che gli vibra sul petto e Saras in mezzo alle gambe, la bocca attorno al suo sesso già duro. Juan Carlos reclina la testa all’indietro tra i cuscini, inarca la schiena e geme rumorosamente quando le labbra di Saras si arricciano in un ghigno e lui sente solo un accenno di denti sulla pelle.

“Ti odio,” mugugna, avvampando; con una mano si aggrappa ai capelli di Saras, senza spingerlo da nessuna parte ma tirando un poco, per darsi l’illusione di una vendetta. Con l’altra, annaspa dentro l’orlo del cappotto per cercare il cellulare nella tasca interna e zittire la sveglia.

Saras cala su di lui completamente, la lingua appiattita sotto la sua erezione, la gola che si contrae in una carezza gentile contro la punta; Juan Carlos lascia perdere il cellulare, allora, e si tappa la bocca, improvvisamente memore della moglie e dei figli di Saras da qualche parte nella casa, quindi non è che può mettersi a urlare, non importa quanto vorrebbe. Saras si tira un po’ indietro, e Juan Carlos segue il movimento della sua bocca andandogli incontro col bacino, per quanto l’impiccio dei pantaloni arrotolati alle ginocchia gli permetta; le labbra ruvide di Saras strusciano su tutta la sua lunghezza strappandogli un altro gemito.

“Saras, Saras ti prego,” ansima Juan Carlos quando Saras lo stuzzica con la lingua, risalendo crudelmente piano fino alla punta umida, dove si sofferma per un istante a considerare. Juan Carlos sa benissimo che implorare non serve a nulla, con Saras, ma è ancora mezzo addormentato e al tempo stesso troppo eccitato per riflettere e allora gli tira i capelli, trattiene un singhiozzo sorpreso quando Saras solleva la testa e il suo viso è ancora mezzo coperto di bende. “Saras,” soffia, e Saras deve aver capito che tra un istante Juan Carlos riaccenderà il cervello e, di conseguenza, sarà incapace di spegnerlo per il resto della giornata, per cui torna a soffocarlo nel calore della propria bocca e Juan Carlos sarebbe imbarazzato da quanto poco riesce a resistere, se non fosse che non gli interessa neanche vagamente.

Rimane a gambe e braccia spalancate sul letto, dopo, e fissa il soffitto finché nel suo campo visivo non compare il sorrisetto compiaciuto di Saras.

“Buongiorno, Juanqui.”

“Avevo detto dieci minuti,” dice Juan Carlos, stupidamente; col pollice, gli ripulisce dall’angolo delle labbra una traccia di seme. La smorfia di Saras non trema.

“Non lamentarti,” dice. “Hai persino tempo di fare colazione.”

“Hn,” mormora Juan Carlos, un po’ intrappolato dai suoi occhi azzurro ghiaccio, dal suo corpo pesante e caldo ed eccitato. “Mi sa che ho un’idea migliore.”

*

Vanessa si alza alle nove passate, mentre Juan Carlos si versa l’ultimo caffè prima di andare al lavoro.

“Oh, buongiorno,” le dice, e le offre la tazzina cui non ha aggiunto lo zucchero. Vanessa mugugna un ringraziamento poco coerente, e appoggia i fianchi al ripiano della cucina, soffiando sulla bevanda fumante; tra i capelli ha ancora le mollette che Elsa e Lucía le hanno messo stamattina presto, mentre la salutavano prima di fuggire a scuola. I colori di oggi sono giallo e rosa, e Juan Carlos le sfila con delicatezza, sorridendo tra sé.

Le sfiora il viso con il dorso di una mano, e Vanessa lo guarda - è sveglia, ora, e c’è un’ombra pesante nel suo sguardo che rivela a Juan Carlos che stanno pensando alla medesima cosa: le sue nocche gonfie, l’odore lievissimo di polvere da sparo che emana dai suoi capelli.

Vanessa beve un sorso di caffè. “Ho bisogno di un bagno.”

Lo stomaco di Juan Carlos si annoda. Avevano trovato un accordo, e ha funzionato per cinque, magnifiche settimane di serenità, e poi un branco di coglioncelli fa una stronzata madornale e lui è stato costretto a chiamare Vanessa e mandarla a Manresa per ricambiare il favore, non importa quanto il cuore gli pesasse in petto. E Vanessa non è sciocca quanto lui, non ha creduto neanche per un momento che sarebbero riusciti a rimanere davvero in pace; ma Juan Carlos si sente in colpa comunque, per aver disatteso quella promessa, e se non può chiederle scusa, allora le solleva il mento con due dita e la bacia sulla fronte, e Vanessa sospira. Accetta, senza dir nulla, quello che Juan Carlos non dice. Vanessa l’ha sempre capito.

“Farai tardi,” mormora, e mette da parte la tazzina vuota per sistemargli il colletto della camicia. “Javi ti ha già chiamato?”

Juan Carlos scuote la testa. “In ogni caso, non ho intenzione di parlargli prima di domani.”

Vanessa lo considera attentamente; per un attimo, sembra che voglia dire qualcosa, e Juan Carlos come sempre muore dalla voglia di sentire la sua opinione, ma Vanessa si morde il labbro e tace.

“Ne sai più di me,” commenta, con mezzo sorriso. Juan Carlos rotea gli occhi, e Vanessa ridacchia; sarebbe così facile, pensa Juan Carlos, innamorarsi di lei.

*

Quel pensiero fastidioso gli rimane conficcato sul retro del cranio, e sobbolle lì quietamente per tutta la mattinata; a ora di pranzo, Juan Carlos non ce la fa più ad ignorarlo, e ha bisogno di ritrovare la normalità perché sente di stare lentamente impazzendo. S’infila il cappotto e lascia l’ufficio chiedendo a Pichu di disturbarlo solo se l’esercito viene ad occuparli coi carrarmati.

“Salutami Pau,” commenta Pichu senza neanche alzare gli occhi dallo schermo del computer, e le guance di Juan Carlos sono di un tenero rosso ciliegia quando prende l’ascensore.

Sono quasi all’ospedale quando Pau risponde al suo messaggio, dicendo di avere ancora mezz’ora di ricevimento prima delle due ore buche per il pranzo; Juan Carlos sospira.

“È all’università?” domanda Miquel dal sedile anteriore, scoccandogli un’occhiata divertita attraverso lo specchietto. Juan Carlos annuisce. “Nessun problema, boss.”

Juan Carlos arriva appena in tempo, stavolta: Pau è sulla porta del proprio ufficio, sta congedando l’ultima studentessa; quando vede Juan Carlos, scuote con maggiore decisione la mano della ragazza finché lei non coglie l’input e, mormorando tra sé, non se ne va. Scocca a Juan Carlos un’occhiatina in tralice, e Juan Carlos guarda Pau, inarcando le sopracciglia. Pau scuote la testa.

“I ragazzi di oggi,” gli dice con un sorriso, e poi lo abbraccia, pigiandosi addosso a Juan Carlos così inaspettatamente che Juan Carlos ride, imbarazzato. “Ciao, Juanqui.”

“Yo,” mugugna lui, facendo un passo indietro e grattandosi una guancia. “Andiamo?”

Pau annuisce, chiude a chiave lo studio e fa un cenno in direzione del corridoio che porta alla mensa; Juan Carlos non fa in tempo a fare tre passi che sente una mano enorme sulla nuca, che gli risale lentamente il cranio, le dita leggermente arricciate tra i capelli tagliati di fresco. Non riesce a non rabbrividire di piacere al contatto, - Cristo, è passato troppo tempo dall’ultima volta che si sono visti, - e sente Pau soffiare la coda di una risata.

“Hai tagliato i capelli,” dice, con dolcezza. “Mi piacciono.”

“Sarai fiero di sapere che sei l’unico nell’universo ad apprezzarli. A parte Elsa, il taglio l’ha scelto lei.”

Pau ride pienamente, arruffa il ciuffo più lungo di capelli sulla cima della testa di Juan Carlos e poi annida la mano attorno alla sua nuca, sulla pelle calda sotto la sciarpa, stringendo appena. “Juanqui, sono offeso. Li hai fatti vedere a tutto l’universo prima che a me?”

Juan Carlos gli dà una gomitata.

È tranquillo, finalmente, perché quel ridicolo pensiero su Vanessa ha ceduto il posto al familiare ronzio del suo cuore digiuno intorno a Pau. Così va bene. Così è come deve essere.

pero si me dejas esta noche yo te doy
todos los besos que te debo

Tornare al Palau non gli fa alcun effetto, e non solo perché Juan Carlos ha un talento sovrumano nel compartimentalizzare; tornare al Palau non gli fa alcun effetto perché al Palau è rimasto ben poco del posto in cui a diciannove anni, raggomitolato sul parquet appiccicoso del suo stesso sangue, ha sentito le costole frantumarsi e la gamba sinistra bruciare dall’interno di due fratture scomposte. A tormentare Juan Carlos ci pensano ricordi ben peggiori e più recenti di una rissa vecchia di quindici anni.

Nonostante ciò, ogni volta evita accuratamente l’ingresso per gli atleti, entrando dall’abituale anticamera della loggia; non ha bisogno di un irrazionale attacco di nostalgia, e soprattutto non oggi.

Juan Carlos è venuto a vedere gli allenamenti, e non ricorda quand’è stata l’ultima volta. Forse durante le ultime stagioni di Saras da giocatore - perlomeno sette anni fa.

“Cristo,” mugugna tra sé, e l’impiegata del club che lo ha accolto all’entrata gli scocca un’occhiatina interrogativa. Juan Carlos le fa una sorriso a labbra strette, e grazie al cielo sono arrivati al tunnel che conduce al campo. La ragazza si fa da parte con un piccolo inchino, Juan Carlos la ringrazia con un cenno e prosegue da solo.

In campo stanno ancora facendo i primi esercizi di riscaldamento; Juan Carlos trova immediatamente Saras, che ha addosso una felpa verde acceso della Lituania, e siede in panchina con le caviglie incrociate sul tavolo degli ufficiali di campo mentre Agustí gli mostra un qualche schema sulla lavagnetta.

C’è Ricky, a fare stretching giusto nel cerchio a centrocampo. Juan Carlos scuote la testa, suo malgrado divertito.

D’un tratto, si rende conto che venire così presto è stata una pessima decisione strategica. L’unica ragione per cui è qui è che Pau, a pranzo, tra un morso al panino e un sorso di Sprite, gli ha montato in petto un senso di colpa indicibile per come ha trattato Ricky ieri sera; Juan Carlos ci sarebbe arrivato anche da solo, al fatto che è stato piuttosto sgarbato - “Uno stronzo di prima categoria, Juanqui,” secondo Pau, - ma ci avrebbe impiegato forse qualche giorno, qualche settimana, e nel frattempo Ricky se la sarebbe fatta passare da sé, Ricky è incapace di tenergli il muso, per cui a quel punto chiedere scusa sarebbe stato inutile. Invece adesso il danno è fresco e Juan Carlos ne è consapevole e non ha nient’altro da fare, o meglio: sta aspettando di vedere cosa decideranno di fare i Manresani. Può aspettare dovunque, non fa differenza, per cui è venuto qui; solo che è venuto davvero troppo presto.

S’incammina verso la panchina, facendo il giro lungo il bordo del campo, il più lontano possibile dal parquet, e domandandosi quanti e quali favori sessuali Saras pretenderà prima di permettere a Ricky di assentarsi per dieci minuti; sempre ammesso che eventualmente ceda. Juan Carlos sospira, per un attimo vorrebbe aver preso un allenatore meno testardo, meno inamovibile, meno-

Sorride; quella panchina si addice soltanto a Saras.

Ha appena girato l’angolo sul lato corto del campo - è sicuro che Saras l’abbia visto, anche se continua ad emendare in continuazione qualsiasi cosa Agustí stia tentando di scrivere sulla lavagnetta, - quando il primo rimbalzo di un pallone lo coglie di sorpresa; si volta, incuriosito, e l’unico giocatore in piedi è Papanikolaou, che palleggia, naso all’aria, dritto verso di lui.

Papanikolaou va a canestro con un grazioso terzo tempo, e a un certo punto durante la rincorsa dev’essersi accorto di Juan Carlos, perché arriva a terra e subito piroetta a guardarlo. Indossa una maglietta a maniche lunghe con dei fori in cui ha infilato i pollici, e Juan Carlos vorrebbe avere la forza d’animo di salutarlo e proseguire spedito verso Saras, ma è un po’ distratto dal sorrisino a metà tra l’imbarazzato e il sorpreso di Papanikolaou.

“Bon vespre!” gli dice Papanikolaou, avvicinandosi col pallone sottobraccio. “And that’s all the Catalan I’ve learned, I think, sorry.”

Ridacchia, grattandosi con l’indice dietro un orecchio; Juan Carlos inarca un sopracciglio fin dove può, ma è deliziato dall’entusiasmo che Papanikolaou ha messo nel saluto.

“It’s fine, I still don’t speak Greek so we’re even,” dice. Papanikolaou ride, annuisce; si sposta il pallone da un braccio all’altro, pensieroso. Juan Carlos si morde l’interno del labbro; gli chiede, “You okay?”

“Yeah,” dice subito Papanikolaou, solo che suona tutto tranne che a posto; Juan Carlos non si disturba a camuffare il proprio scetticismo, e Papanikolaou arrossisce. “I’m just-you’re here for Saras, right? About last night?”

Juan Carlos guarda in direzione della panchina - Saras li sta scrutando apertamente, con un sorrisetto divertito. Sospira.

“Yeah. Kind of.” Torna a guardare Papanikolaou, con l’espressione più marmorea che possiede. “You don’t have to worry. Saras was-reckless, but you’re safe.”

“I know,” mormora Papanikolaou, e perlomeno ora sembra una briciola più convinto. “It’s just-” esita, e alla fine scrolla le spalle, mette insieme un sorriso fragile. “It’s nothing, sorry.”

Juan Carlos sospira; sa esattamente cos’è che Papanikolaou intendeva dirgli: è solo che è tutto molto assurdo. È che anche in Grecia avevamo i nostri casini e la gente accoltellata in strada e allo stadio e dovunque per nulla, ma questa non è una guerra civile, non è rappresaglie e guerriglia e manifestazioni, il vostro conflitto è un sistema, e non capisco chi siano i buoni e spero di essere dalla parte giusta. Juan Carlos vorrebbe potergli spiegare tutto, ma non ha idea di come fare e non è solo per via della lingua; è che gli mancano le stesse risposte, e quelle poche che ha sono private e personali e non è sicuro del valore che avrebbero per un estraneo, e allora può solo annuire, e codardamente promettere quello che non può mantenere: “It’ll be fine.”

Papanikolaou non è Vanessa; Papanikolaou gli crede.

Juan Carlos raggiunge Saras con l’umore di piombo e nessuna voglia di affrontare Ricky, per cui si butta su una delle sedie della panchina e sospira.

“Come stai?”

Saras ha abbandonato la fasciatura in favore di un grosso cerotto di cotone sullo zigomo, che protegge e nasconde la parte peggiore della ferita senza farlo sembrare un travestimento da mummia fallito. È ancora pallido, e probabilmente starsene un altro po’ a riposo non gli avrebbe fatto male, ma Juan Carlos è di una debolezza leggendaria e, dopo avergli proibito di presenziare alla sessione mattutina di defaticamento, non ha avuto il cuore di dirgli di starsene alla larga anche nel pomeriggio.

“Meglio di te,” dice Saras, con un’occhiata penetrante. “Sette anni che alleno questa squadra e non ti sei mai fatto vedere in giro agli allenamenti, per cui dev’essere successa qualche tragedia. E siccome Ricky aveva un muso così lungo che ha dovuto farci un nodo per non inciampare, mi viene il sospetto che il mio playmaker titolare c’entri qualcosa.”

Juan Carlos sorride, innamorato del tono protettivo di Saras. Lo guarda, inclinando la testa di lato sopra la spalla.

“Te lo ricordi che ventiquattr’ore fa ti hanno spaccato una bottiglia in faccia, sì?”

Saras sbuffa. “Sto bene.”

“Lo so,” mormora Juan Carlos, e distoglie lo sguardo da lui per cercare Ricky che, pallone alla mano, ha cominciato a camminare lungo la linea laterale del campo. “E diciamo che non hai torto.”

Non ha bisogno di guardare per sentire Saras alzare gli occhi alla cupola del Palau.

“Chiedigli scusa, dagli un bacetto e poi invita lui e il greco a cena fuori,” dice, tirandosi su dalla sedia. “Tutto questo quando avrò finito il mio allenamento, è chiaro.”

Quando Saras ormai è a metà campo, Juan Carlos si accorge di avere sul viso un sorriso morbido e ridicolo; se lo tiene, perché tanto non c’è nessuno che lo veda.

Agustí ha lasciato la lavagnetta sul tavolo degli ufficiali; Juan Carlos si allunga a prenderla, curioso. Non è sorpreso di scoprire che stavano giocando a tris.

*

È rimasto a guardare l’intero allenamento, alla fine, anche se di tanto in tanto il cuore gli si affacciava in gola perché, Dio, giocare a qualcosa di più di un uno-contro-uno con Pau o Marc nel cortile di casa gli manca come l’aria.

Ricky l’ha salutato da lontano, mentre tutti gli altri gli si sono avvicinati a turno per fare conversazione; Ricky l’ha guardato poco per tutta la sessione, in effetti. Ha fatto molto bene nella parte tattica e uno schifo durante la partitella conclusiva; intanto, Saras è uno stronzo di proporzioni cosmiche, e tre quarti degli schemi che hanno provato si sono conclusi con Papanikolaou appeso al ferro dopo aver schiacciato a canestro.

Juan Carlos non pensava che dondolare stupidamente per aria potesse essere attraente. Juan Carlos si sbagliava.

Dopo l’huddle finale, Ricky rimane un po’ indietro a cincischiare con un pallone. Juan Carlos suppone che sia il suo momento, si cava fuori dalla sedia di cui aveva cominciato a prendere la forma e, con le mani sprofondate nelle tasche del cappotto, gli si avvicina.

Sono soli; Juan Carlos si arrischia a circondargli il lato del collo con una mano, usando il pollice per sollevargli il mento.

“Ho esagerato, ieri sera,” dice, pacato. “Scusami. Ero-ero preoccupato, ma non avrei mai dovuto parlarti in quel modo, Ricky, mi dispiace.”

Ricky si limita a guardarlo, e Juan Carlos sta cominciando a pensare che forse stavolta ha raggiunto il limite oltre il quale persino Ricky è capace di incazzarsi e restare incazzato con lui, quando Ricky, grazie a Dio, chiude gli occhi, le ciglia che tremano un istante, e soffia, “Ok.”

Juan Carlos serra la mandibola. Ha bisogno di essere sicuro. “Ok?”

“Ok,” ripete Ricky, ora con mezzo sorriso, e riapre gli occhi e il suo sguardo è di nuovo gentile e adorante e Juan Carlos espira. “Juanki, ieri sera… non ti ho mai visto così, sai. Eri terrorizzato, no?”

Juan Carlos stringe gli occhi, ritira la mano. “E tu sei sudato e disgustoso.”

Ricky ride. “Ok, ok, ieri sera è off-limits. Voglio solo dire che non ero arrabbiato, ok? Cioè, un po’ sì… ma ti capisco. È stato anche un po’ scemo da parte mia presentarmi così e, insomma, è tutto ok. Mi fa piacere che sei venuto a-a parlarmi. Ok?”

Juan Carlos annuisce.

“Ok,” sospira Ricky, e poi incrocia le braccia al petto e Juan Carlos pensa, ci siamo. “Juanki, uhm, ma quindi davvero non sei arrabbiato che-che io e Rudy-”

Juan Carlos sospira rumorosamente. “Non sono arrabbiato,” dice. “Penso che sia un’idea del cazzo? Oh, sì. Che ti meriti di meglio che Rudy? Naturalmente,” Ricky ride del modo in cui arriccia il naso a pronunciare il nome di Rudy, e arrossisce per il complimento implicito, “Ma arrabbiato no, Ricky. Sai quello che stai facendo, no?” Ricky annuisce, e Juan Carlos scrolla le spalle. “E allora ok.”

“Wow,” soffia Ricky, e Juan Carlos apprezzerebbe molto se la gente la smettesse di sembrare così sorpresa ogni volta che dimostra un briciolo di sensibilità. “Hai visto Pau di recente, eh?”

*

A tarda sera, i Manresani mandano il peso di Saras in cocaina come compensazione per l’incidente; Juan Carlos è tentato di rimandare indietro gli emissari imbottiti di tritolo, perché che razza di presa per il culo è, ma Marc lo convince a vedere le buone intenzioni di Javi. La verità è che la pulsione omicida è durata, in Juan Carlos, a malapena un istante, ma lui ha preferito comunque fare un po’ di scena, ché non fa mai male.

Alfons e Baso accompagnano i Manresani alla porta, e Juan Carlos si abbandona contro la sedia con un sospiro. Marc smette di stare addosso alla coca come se si aspettasse di vederla sparire da un momento all’altro, e appoggia i fianchi alla scrivania.

“Nervoso?” chiede, e sogghigna quando Juan Carlos gli scocca un’occhiataccia. “Tranquillo, Juanqui, sono sicuro che i tuoi capelli li hanno terrorizzati a dovere.”

“Oh mio Dio,” soffia Juan Carlos, prendendosi il viso tra le mani. “Ma che problema avete tutti coi miei capelli?”

Marc ride, si allunga a scompigliarglieli. “Ehi, a me piacciono. Però devi ammettere che sono, come dire-diversi. Insoliti.”

“Puoi dirlo, sai, che sembro il settimo One Direction,” brontola Juan Carlos.

Marc ride così forte che quasi cade dal tavolo, ma da qualche parte trova il fiato per dire, “Sesto. Ci sono cinque One Direction, quindi saresti il sesto.”

“No, no. Il sesto è Ricky, concedimi perlomeno questo.”

Marc gli dà un pugno sulla spalla, e Juan Carlos sogghigna; Marc si asciuga una lacrima e poi tossisce, tentando di ricomporsi.

“Ok, uhm-quindi domani sera vado a fare un saluto al signor sindaco, mi porto il Baso e vediamo pure di piazzare un po’ di questa roba,” dice. “Per l’alibi siamo a posto?”

“No, dovevi pensarci prima,” replica Juan Carlos, impassibile, ma ormai Marc lo conosce troppo bene e non c’è gusto a prenderlo in giro, inarca a malapena un sopracciglio. Juan Carlos sbuffa. “Certo che siamo a posto. Il ricevimento comincia alle-” Pichu gli ha lasciato un post-it giallo incollato al bordo della scrivania, “Alle otto, al Palace.”

“Buffet?”

“Cena ai tavoli, Marc, è una serata di beneficenza, non un-un banchetto vichingo.”

Marc ridacchia. “Il che è un vero peccato, se chiedi a me.”

Juan Carlos sospira, stringe la radice del naso tra due dita. “So che è come chiedere un miracolo, ma vedi di convincere Baso a mettersi una cravatta, ok?”

*

Vanessa può fare tutte le facce esasperate del mondo, non è Juan Carlos ad aver bisogno di essere visto in giro il più possibile, stasera, per cui ha tutto il diritto, in attesa che si faccia ora di cena, di passare il tempo a vagabondare tra il bagno e il suo angolo preferito del salone, una nicchia ben riparata da quattro metri di albero di Natale.

Juan Carlos, tenuto in piedi da un calice senza fondo di vino frizzante a stomaco vuoto, è un pessimo ospite finché non scorge, tra gli aghi spruzzati di neve artificiale, una testa corvina e rotonda che svetta al di sopra di tutti gli altri invitati. Le sopracciglia di Juan Carlos precipitano venti piani più in basso, e il naso gli si arriccia un poco; dall’altro lato della sala Papanikolaou ridacchia, vagamente rosso in viso, e Juan Carlos butta giù quel che gli rimaneva del vino, e si districa dal proprio nascondiglio.

Sto semplicemente badando ai miei interessi, si dice, perché, certo, se Papanikolaou gli crepa d’imbarazzo in mezzo a dei potenziali donatori, il disastro sarebbe irreparabile per un numero incalcolabile di ragioni, e su così tanti fronti che Juan Carlos già si sente spuntare i primi capelli bianchi solo al pensiero; ma la verità è che il ricevimento richiedeva un abbigliamento rigidamente formale e Juan Carlos sta morendo di curiosità di vedere Papanikolaou in giacca e cravatta. Si è presentato a firmare il contratto con un pantaloncino di denim rosso e una t-shirt della Nike, santo cielo.

Raggiunge senza difficoltà il gruppetto di soci del club che ha accerchiato Papanikolaou - dovunque Juan Carlos voglia andare, gli assembramenti di persone hanno la tendenza a schiudergli un passaggio prima ancora di potergli dare fastidio, - e deve mordersi l’interno della guancia per impedirsi di sorridere all’evidente sollievo sulla faccia del greco.

“Ciao,” esala Papanikolaou, e Juan Carlos gli fa un cenno impercettibile; l’assembramento di vecchietti facoltosi si dissipa in un istante e Papanikolaou sbatte le palpebre, sorpreso. “Oh, wow.”

Stavolta, Juan Carlos non nasconde il ghigno che gli stira le labbra. Papanikolaou si ficca le mani nelle tasche dei pantaloni - possiede degli abiti eleganti, dunque, ed è capace di indossarli; Juan Carlos è impressionato dallo sforzo generale, non certo dall’insieme, - tenta di farsi più piccolo che può, arriccia il naso in una smorfietta incerta.

“Sooo, I might have lied, just a little,” dice, e le orecchie, tonde e sporgenti, gli si stanno imporporando deliziosamente. “Lo spagnolo l’ho imparato, un po’.”

Juan Carlos è così sorpreso che non controlla l’arrampicata delle proprie sopracciglia su per la fronte; Papanikolaou ridacchia, si strofina un indice sotto il naso. Nota qualcosa addosso a Juan Carlos, e timidamente allunga una mano a togliergli dalla spalla un ago di abete. Lo esamina da vicino, curioso.

“Ti stavi nascondendo dentro l’albero di Natale?”

Juan Carlos rotea gli occhi. “Se prometti di non fare casino, puoi nasconderti con me.”

*

Ad un certo punto, anche se Juan Carlos non saprebbe dire con esattezza quando, Papanikolaou diventa Kostas.

*

Più tardi, Kostas diventa un suono inarticolato che Juan Carlos singhiozza mentre Kostas inarca i fianchi spingendo più a fondo; Juan Carlos espira forte e si morde il labbro inferiore, serra gli occhi e il suo mondo si riduce ai punti di contatto della pelle di Kostas sulla sua, il fianco destro e lo sterno e dentro, dovunque. Juan Carlos ansima e affonda sui gomiti, sente il respiro rotto di Kostas sul viso, la carezza dei suoi capelli corti sulla fronte. Si muove, cercando l’angolo giusto, e quando finalmente indirizza le spinte pigre di Kostas in quel modo che gli liquefa le ginocchia, Juan Carlos dà voce a un gemito perso e ridicolo - che Kostas accetta con una mezza risata e un bacio possessivo e umido.

ya sé que siempre digo que empiezo a partir de hoy
y que luego nunca me atrevo

Juan Carlos è esausto, distrutto, passato al tritacarne e potrebbe dormire per un mese, e invece si sveglia per il rumore morbidissimo di Pau che si affaccia sulla soglia della camera da letto. Lucía mugola nel sonno, strisciandogli più vicina; nel buio, Juan Carlos solleva un po’ la testa dal cuscino, sbirciando verso la porta tra le ciglia incollate e digrignando i denti per lo strappo di dolore che gli fulmina il fianco.

“Pau,” soffia, con un filo di voce, e agita mollemente la mano del braccio non intrappolato sotto Elsa; non è del tutto certo di cosa intenda, con quel gesto, non è abbastanza cosciente per ragionare e men che meno per rendersi conto che, magari, non è proprio la cosa più appropriata. Ma la figura scura e imponente di Pau si muove subito, entra nella stanza, e Juan Carlos richiude gli occhi, ricade sul materasso, lo ascolta sfilarsi le scarpe, scostare delicatamente le coperte, infilarsi a letto piano piano, attirare a sé Elsa per liberare il braccio di Juan Carlos.

Juan Carlos sospira; si riaddormenta con le dita di Pau tra i capelli.

*

Si risveglia nel medesimo modo, inarcando il collo verso la carezza che sente tra i capelli nonostante il bruciore al fianco; mugola, e pian piano gli affonda nel cranio l’informazione che le bambine non sono più a letto, che c’è il sole, che Pau è sveglio e lo sta guardando. Juan Carlos sbatte le palpebre, si morde il labbro inferiore per impedire alla propria bocca di arricciarsi all’insù.

“’ngiorno,” mugugna, e le dita di Pau smettono di muoversi; Pau fa un cenno secco col capo, e non dice nulla. “Pau?”

“Pensavo,” esordisce Pau, e ha la voce roca e l’aria stanchissima e Juan Carlos si domanda, improvvisamente, se abbia dormito, “Pensavo che il punto di avere uno squadrone di guardie del corpo fosse che, oh, non saprei, dovrebbero proteggerti.”

“Uno squadrone?” Juan Carlos ridacchia. “Non esageriamo, ora. Marc e Baso a malapena sono-”

“Sono comunque due guardie del corpo in più di quante ne abbia la gente normale, Juanqui,” replica Pau, duramente, e gli tira un po’ i capelli e Juan Carlos si acciglia; sotto il piumone, si allontana di un briciolo dal corpo di Pau, con tutta la discrezione di cui è capace.

“Pau,” gli dice, serio serio. “Sto bene.”

Si è abituato ad avere a che fare con Kostas che, se non prende ogni sua singola parola come oro colato, perlomeno è ancora abbastanza incline a credergli, d’istinto, a fidarsi; perciò, Juan Carlos si sorprende quando la prima reazione di Pau è una risatina di scherno.

“Stai bene,” lo scimmiotta, e si tira a sedere di scatto, scalcia via le coperte. “Devi prendere gli antibiotici, quindi devi mangiare, ti porto qualcosa. Non muoverti.”

Juan Carlos non sa cosa dirgli, per cui lo guarda andare via senza spiccicare parola; Pau torna pochi minuti dopo - Juan Carlos si odia per non essersi mosso davvero, - con un vassoio su cui ha piazzato una tazza di latte e cornflakes, una banana e un bicchiere d’acqua.

“Non c’era bisogno,” mugugna Juan Carlos, offeso, ma si solleva a sedere, mordendosi la lingua per non fare smorfie di dolore a ogni movimento; Pau gli piazza il vassoio sulle ginocchia.

“Mangia,” ordina, e poi sparisce nel bagno attiguo, dove Juan Carlos è piuttosto certo di aver lasciato gli antibiotici, ieri sera, o stamattina presto, quand’era, un minuto prima di inciampare verso il letto e crollarci su, addormentato ancor prima di aver toccato le coperte.

Juan Carlos prosciuga il bicchier d’acqua in due sorsi, divora la banana e spilucca i pochi corn flakes ancora secchi e croccanti, sopravvissuti all’attacco del latte. Pau gli piazza nel palmo della mano il dosaggio esatto di antibiotici, e Juan Carlos butta giù le pillole a secco, sogguardandolo con una punta di astio. Non è un invalido e non è un cretino e, soprattutto, non è da Pau essere così scontroso.

“Si può sapere che ti ho fatto?” domanda Juan Carlos, e non è una risposta che cerca - piuttosto, vuole la soddisfazione di irritare Pau ancora di più, e Pau non si lascia pregare. Gli scocca un’occhiataccia e Juan Carlos è così compiaciuto che, per un istante, il malumore di Pau nemmeno gl’importa, e non gl’importa dei punti che prudono sotto la garza e non gl’importa di nulla che non sia lo sciocco orgoglio di essere così bravo a leggere Pau e rigirarselo a piacimento.

Ma è un processo a doppio senso, e Pau sbuffa, approfitta del nuovo taglio di capelli minimalista per tirargli un orecchio in tutta libertà.

“Se hai la forza di prendermi per il culo, allora puoi pure alzarti e venire in bagno,” dice. Allo sguardo interrogativo di Juan Carlos precisa, “Devo cambiarti la fasciatura.”

Per tutto il tragitto dal letto al sedile ai piedi della vasca da bagno, Juan Carlos si premura di brontolare a volume comodamente udibile contro l’intera categoria dei guaritori; Pau gli pizzica l’interno del braccio un paio di volte, per cui Juan Carlos si attribuisce un’altra vittoria.

Si arrotola la maglia del pigiama, rabbrividendo un po’ pur nell’ambiente perfettamente riscaldato del bagno, perché Pau lo sta fissando con un’intensità cui Juan Carlos non è abituato; la fasciatura sul fianco è drammaticamente grossa e spessa, ma Juan Carlos sospetta che l’infermiere che se n’è occupato ci abbia messo un po’ troppo zelo. C’è qualche macchiolina di sangue, però, che Pau naturalmente non manca di notare mentre inumidisce la garza, e Juan Carlos lo sente digrignare i denti.

“Juanqui, se ti sei strappato i punti-”

“Che fai, mi spari?” ribatte Juan Carlos, allegramente. Pau lo trapassa con un’occhiataccia, ma il sorrisino di Juan Carlos non traballa. “Suppongo di essermelo meritato.”

Pau strappa la garza senza preavviso, e Juan Carlos sibila, aggrappandosi istintivamente al suo fianco. Pau lo guarda da sotto in su, con un’espressione di eloquente stronzaggine, e Juan Carlos deve distogliere lo sguardo perché sta diventando impossibile ignorare il fatto che Pau è in ginocchio tra le sue gambe divaricate - che hanno dormito insieme, come non capitava da anni, e che Juan Carlos ha addosso il suo odore e che, soprattutto, Pau è nervoso e arrabbiato perché-perché-oh, come se non lo sapessi.

Juan Carlos sospira e, mentre Pau si sporge ad ispezionare i punti più da vicino, mugugnando sottovoce, picchietta gentilmente sotto il suo mento con due dita.

“Pau,” dice, quando Pau lo ignora, e Pau si risiede sui talloni, incrocia le braccia al petto. Juan Carlos è a un picco di onestà che raramente si concede quando gli dice, “Pensavo che non volessi avere niente a che fare con-con tutto questo.”

E accenna a se stesso, alla propria casa troppo moderna e troppo lussuosa per lo stipendio di un contabile, alla fila ordinata di punti di sutura che sul suo fianco chiudono il foro di un proiettile che era inteso per Marc.

Pau sbuffa una risata senza la minima traccia di gioia.

“Ti hanno sparato,” dice. “Ti hanno sparato e ho dovuto aspettare che me lo dicesse Marc, ore dopo, e non so neanche chi ti ha ricucito, Juanqui.”

Juan Carlos scrolla la spalla dal lato sano. Il cocktail di antibiotici sta cominciando a farlo sentire pesante. “Non mi va di coinvolgerti ancora.”

“Ok, ascolta-le volte in cui sei finito sul mio tavolo e ti ho sgridato, è perché mi importa, ok? Mi importa tantissimo, non stavo cercando di convincerti a cambiare medico-Cristo, Juanqui, pensavo fosse ovvio,” Pau sbuffa. “E se anche fosse, ma che razza di mente criminale sei? Non ti meriti niente di meno del meglio, e il miglior chirurgo del Paese ce l’hai davanti.”

Juan Carlos sorride, gli scosta un ricciolo dalla fronte. “Nonché il più modesto.”

“Non è questione di modestia,” mugugna Pau, saggiando gentilmente col pollice i punti di sutura. “Non ci vuole chissà che a fare una sutura, ok? Anche un cane cieco e con tre zampe ci riuscirebbe, con un minimo di pratica-”

“Aw, Pau, sai che mi deprimo quando maltratti animali immaginari per i tuoi esempi-”

“-Juanqui, stammi a sentire,” Pau lo prende per le spalle, scuotendolo un poco. “Non importa se mi devi portare sulla scena di un crimine o se c’è un fottuto bombardamento in corso o Dio solo sa cosa, se hai bisogno di un medico tu chiami me, d’accordo? Sei mio, Juanqui-sei mio paziente. D’accordo?”

Juan Carlos annuisce, anche se il movimento gli fa rimbalzare il cervello nel cranio in modo molto buffo. Brontola, “Però credo che vada contro il regolamento dell’ospedale-non dovresti trattare amici e-e familiari e-”

“Juanqui, taci,” gli dice Pau con affetto, e Juan Carlos china la testa, ridacchiando. Pau gli rimpiazza la garza con una pulita, e poi lo porta, quasi di peso, al piano di sotto, dove lo deposita sul divano.

Juan Carlos sospira. A occhi chiusi mormora, “Grazie.”

Pau premia la sua riconoscenza baciandogli l’angolo delle labbra e Juan Carlos, mezzo setticemico e insonnolito, è pure ridicolmente contento. Si sente al sicuro.

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