[RPF] I should live in salt (DDRRLL)

Jul 13, 2013 16:56

Titolo: I should live in salt
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello
Rating: R
Conteggio Parole: 5849 (OOo)
Avvertimenti: genderbent, fluff & angst, crack, lol
Note: GUESS WHO'S BACK *piange* Per farvi capire quanto mi erano mancati questi due esseri vi lascio con questo dato: ho cominciato questa fic alle 10:36 di questa mattina; levateci un paio d'ore perse tra pranzo e telefonate e cose varie, il risultato è QUATTRO ORE E SPICCI. A Formentera non sono mai stata (forse finiamo a Palma *fingers crossed*), però vi lascio una foto di essa riflessa negli occhiali da sole del mio bimbo Rababoo (#bestpicever anyone?), quindi perdonatemi le cazzate. Titolo che c'entra poco ma i The National vengono per contratto col DDRRLL, so. Vivubì.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.



I should live in salt.

Daniele non è il genere di persona famosa che, dovunque vada, conosce tutti-è già abbastanza stressante il fatto che tutti conoscano lui, grazie tante; però Formentera è un’isola più o meno delle dimensioni dell’Eur, e Daniele ci torna tutti gli anni, perciò sarebbe strano se i turisti abituali e i tizi alla reception dell’albergo e gli ambulanti sulla spiaggia non gli sembrassero almeno un po’ familiari. Cazzo, Daniele è un tipo riservato, mica c’ha l’Alzheimer.

E se non è un genio, e non pretende di ricordarsi all’istante proprio tutti tutti tutti quelli con cui abbia mai scambiato due parole, Daniele sa pure che il mondo è pieno di gente disposta a tutto-tipo a farlo grandiosamente fesso-per dieci, quindici minuti di celebrità-è sicuro di averla letta da qualche parte, ’sta cosa, ma, di nuovo, non un genio; perciò, quando la ragazza mora lo raggiunge in mezzo alla pista da ballo del locale e gli si avvinghia a un braccio e gli mormora all’orecchio-cazzo, è alta-con aria urgente, «Daniele, ti devo parlare,» Daniele mette insieme un sorriso educato e fa mezzo passo indietro, riuscendo persino a non versarsi la Corona sui piedi.

«Scusa,» dice, la lingua che picchia goffamente contro i denti perché, no, non è la prima birra della sua serata né la seconda né la terza. «Ma nun te conosco.»

La presa della ragazza sul suo braccio si allenta giusto d’un briciolo, e sotto le luci stroboscopiche Daniele la guardicchia; cazzo, è alta sul serio, e magra come un manico di scopa e coi capelli corti e stropicciati all’insù, rasati sui lati della testa in un taglio che a Daniele, quello sì, è familiare come gli è familiare il campetto di Trigoria.

Daniele deglutisce, tenta di congedarsi ma le dita della ragazza sono lunghe e forti e ostinate e gli lasceranno un bracciale livido attorno al polso, esattamente quello di cui Daniele ha bisogno.

«Scusa eh,» ritenta lui, guardandosi un pochino attorno in cerca di aiuto ma la gente è troppo preoccupata a ubriacarsi e ballare e divertirsi per notare il suo momento di panico.

«Daniele,» ringhia la ragazza, e si mette a tirarlo per il braccio; Daniele maledice se stesso per la penosa idea di mettersi a bere a stomaco vuoto, perché riesce a opporre resistenza per pochi miseri secondi prima che i suoi piedi, pesanti come piombo e anche meno manovrabili, si mettano a scivolare diligenti sul pavimento lucido.

Ecco, pensa Daniele con una calma che sorprende lui per primo, ora mi stuprano.

Ma la ragazza si accontenta di trascinarlo fuori dal locale e verso il lungomare, che è illuminato e pieno di gente e dell’eco di canzoni di dubbio gusto provenienti dalla barriera di discoteche incrostate alla spiaggia; Daniele continua a seguirla perché è in vacanza, non ha molto da fare, e, a questo punto, è vagamente curioso.

«Uhm,» mormora, strizzando il collo della Corona e accelerando il passo maldestramente; la ragazza non è solo alta, ma ha pure circa un chilometro di gambe sottili e abbronzate e decisamente non istupidite dall’alcol.

Quando Daniele le si affianca, lei scocca un’occhiata di commiserazione alla bottiglia di birra.

«‘Corona’ in messicano significa piscio, sai,» dice; Daniele ride, sorpreso, e quello che gli viene fuori è più un abbaiare soffocato.

«Me l’hanno detto,» mormora, studiando con un sorriso il liquido dorato che dondola spensierato facendo bollicine contro il vetro. Me l’hanno detto, e Daniele si ferma, e un ragazzone tedesco sbatte contro la sua schiena e inciampa di lato e la comitiva di suoi amici, più sbronzi di lui, lo afferra al volo e tutti insieme sbatacchiano via ridendo.

Daniele è ancora fermo, e si è fermata pure la ragazza, che lo guarda con un’espressione strana e concentrata e incerta; c’è un lampione non troppo lontano che butta su tutto e tutti quella luce giallo pallido che non uccide gli occhi degli alcolizzati e farebbe carina persino la Befana, e Daniele osserva meglio la ragazza-il colorito olivastro, la linea del naso cosparso di lentiggini, le labbra rosa e piene, il collo lungo, le spalle strette; l’angolo di un tatuaggio tribale appeso su un fianco, che si vede tra il bordo della canotta bianca cortissima e l’orlo degli shorts.

I polmoni di Daniele naufragano.

«Marco?» sputacchia lui, perché o si tratta di Marco-Marco con venti chili di meno e due tette di troppo, oh Cristo santo-o dello scherzo di pessimo gusto di qualcuna che ha avuto la geniale pensata di travestirsi da Marco, e Daniele non sa nemmeno decidere quale delle due ipotesi sia la peggiore.

Ma non esiste che qualcuno all’infuori di Marco possa fare quell’espressione idiota in cui arriccia labbra e sopracciglia insieme, e Daniele si ritrova a dover rinunciare anche ai servizi offerti dal proprio muscolo cardiaco, perché quel codardo si spegne con una capriola all’indietro.

«Marco,» biascica Daniele, quando un lavaggio di faccia con acqua ghiacciata l’ha convinto che non sta dormendo, che c’è davvero una tizia che ha il tatuaggio di Marco e parla come Marco-ma con una voce da donna, ok,-ed è Marco, seduta sul bordo del suo letto in albergo. «Cristo. Marco?»

Marco alza gli occhi al soffitto, esasperato. «Sempre lui. Lei? Io. Me.» Corruga la fronte, si gratta l’interno di un ginocchio. «Ciao, Dani.»

«Maccosa ‘ciao Dani’!» sbraita Daniele, e afferra Marco per le spalle-strette, magre, ossute, ovvero tutto quello che le spalle di Marco Borriello non sono né dovrebbero essere in nessun universo-e lo scuote senza un minimo di riguardo, perché è Marco, e Daniele non ha riguardo per Marco. «Marco! Ma ti accorgi che-che-»

«Che ho le tette?» domanda Marco, affabile, e sogghigna e si piazza le mani sotto i seni, spingendoli in su. «Non male, eh?»

Daniele avvampa. «Insomma,» mugola, tentando come meglio può di non farsi cadere gli occhi nella scollatura della canotta di Marco. «Me servirebbe ’na lente d’ingrandimento pe’ decidere. ’Na taglia in più era meglio. Due, pure.»

Marco gli tira una testata, ma, con la differenza d’altezza tra lui seduto e Daniele che, per quanto piegato, è comunque in piedi, il risultato è che picchia la fronte contro il naso di Daniele, e non gli fa neanche male.

«Bastardo,» dice. «Guarda che sono al naturale. E senza che fai, mo’ col cazzo che ti ci avvicini.» Daniele inarca le sopracciglia, e Marco corruga la fronte, riflettendo su quello che ha appena detto. «Nel senso. Non hai il permesso di giocarci, ecco.»

«Vabbè,» ridacchia Daniele, ed è solo per via della copiosa quantità di Corona che ha in circolo che riesce a non avere un attacco di panico, per cui Marco non è autorizzato a lagnarsi di quella birra mai più nella vita. «Senti, ma cosa-voglio dire-uhm.»

«Mi so’ svegliato così oggi pomeriggio, se è questo che vuoi sapere, uhm,» lo sfotte Marco, che grazie al cielo ha smesso di palparsi le tette che, per quanto minute, sono comunque tette. Gesù Cristo. «Non so bene che è successo-solo che ero così quando mi so’ svegliato e pe’ fortuna ero solo, perché non è che mi posso fa’ vede’ in queste condizioni da mio fratello o-Cristo benedetto, no. E insomma, sapevo che eri qua pure tu e-»

«No, no, aspe’,» lo interrompe Daniele, piazzando le mani bene aperte tra la propria faccia e quella di Marco; comincia a fargli male la schiena, per cui recupera la sedia della scrivania alle sue spalle e ci si lascia cadere sopra stancamente. «Sei qua in vacanza pure te?»

Le sopracciglia di Marco-che insieme agli occhi e ai capelli e al naso e alla bocca e al tatuaggio sono l’unica cosa che non è cambiata di una virgola-si arrampicano su per la sua fronte.

«Dani, ti ho appena detto che mi sono svegliato ed ero femmina, e l’unica cosa che hai sentito è che sono qua in vacanza pure io?»

Daniele si stringe nelle spalle, incrocia le braccia al petto. Arrossisce, pure, un pochino, perché detta così sembra proprio uno stronzo. «È che nun lo sapevo mica, ecco.»

Marco si strizza la radice del naso tra due dita, come se stesse tentando di tenere a bada un’emicrania incipiente; Daniele fa per inalberarsi, perché scusa tanto ma fino a prova contraria è lui quello che è stato sedotto e abbandonato ed era venuto in vacanza con il chiaro intento di friggersi quanti più neuroni nel più breve tempo possibile proprio per dimenticarsi di Marco in previsione del ritiro prestagionale, e ora guarda un po’ chi si ritrova tra i piedi. Solo che, riflette dopo un istante di rabbia bianca, fino a prova contraria non è lui quello che s’è svegliato ed era femmina, per cui, d’accordo, per questa volta è disposto a cedere a Marco l’esclusiva sull’emicrania e il dolore esistenziale.

Daniele è troppo buono, questa è la verità.

«Senti,» soffia, stropicciandosi la barba con una mano e no, non gli sfugge il modo in cui Marco lo osserva, così come non gli è sfuggito il lieve odore fruttato della pelle di Marco o l’invito gentile dell’angolo sottilissimo in cui sono schiuse quelle gambe dorate. Daniele deglutisce. «Che volemo fa’?»

Marco apre la bocca, dopodiché la richiude subito, mordendosi le labbra e guardando Daniele da sotto un impressionante ventaglio di ciglia ricurve. Daniele si muovicchia sulla sedia, a disagio, e pensa alla cesta di calzini sporchi che macerano nel bagno di casa sua per impedirsi di avere un’erezione. Funziona. Più o meno.

Marco si schiarisce la gola.

«In albergo non posso tornare,» dice. «Sono qui con amici miei e di mio fratello e non-Dani, non mi va.»

Daniele annuisce. «No, te capisco.»

«Ecco.»

Quindi l’unica soluzione è che Marco rimanga esattamente dov’è, almeno stanotte; ovvero, sul letto di Daniele. Nel letto di Daniele, in camera di Daniele, con Daniele.

Daniele prende un respiro profondo.

«Vabbè,» squittisce, guardandosi i piedi. «Dormi qua, allora. Poi domani decidiamo che fa’.»

Marco sembra immensamente sollevato, e Daniele tenta di convincersi che quello che gli è saltato in gola fosse un rospo, e non il suo stupido cuore.

Daniele, pur essendo biondo e barbuto e, in generale, quanto di più vicino ad un orso ci sia nella Capitale a meno di contare gli orsi allo zoo, è sotto sotto un essere umano molto patetico, e, dopo Tamara, non si è mai riabituato al fatto di dormire da solo, o di svegliarsi da solo.

Perciò, quando un raggio di sole gli scalda il polpaccio e lo strappa gentilmente dal sonno, e le ciglia gli tremano e, per metà ancora addormentato, Daniele s’accorge che il materasso accanto a lui è occupato da qualcosa che non è un cuscino, ad impanicarsi o sorprendersi neppure ci pensa; sorride tra sé, soddisfatto, e si struscia contro il corpo che gli fa compagnia, perché qual è il punto di dormire con qualcuno se non puoi approfittare della tiepida vicinanza per strappare un po’ di sane coccole a casaccio.

Il peso contro di lui è leggero e soffice, e Daniele registra, sotto le dita, la curva morbida del fianco di una donna. Mugola, ancora troppo poco cosciente per porsi grandi domande esistenziali tipo cosa ho combinato ieri sera o sarà la volta buona che mi trovo scritto sullo specchio ‘benvenuto nell’AIDS’, e bacia pigramente la pelle fresca della nuca della ragazza. È per quello che a Daniele piacciono le ragazze-sono sempre fresche, al mattino, mica come lui, o Marco, che è una fornace orribile.

Marco.

Daniele ha la bocca sulla spalla della ragazza quando, finalmente, nel suo cervello si accende la prima scintilla, e le rotelle ricominciano a girare cigolando.

Marco.

Daniele spalanca gli occhi e si rende conto che, sì, stava dormendo avvinghiato a Marco-che è ancora femmina, decisamente, come denuncia il seno piccolo e rotondo che in qualche modo è riuscito a rotolare fuori dall’enorme canottiera arancione che Daniele ha prestato a Marco per la notte. Daniele è ancora un po’ fuso, e rimane ipnotizzato dal capezzolo scuro finché Marco, tra le sue braccia, non trema con una risatina.

«È maleducato fissare,» dice, la voce morbida di sonno, e tira uno schiaffo a Daniele all’indietro e alla cieca, finendo per accarezzargli maldestramente l’orecchio. Daniele potrebbe cominciare a pensare che non sia tanto casuale, il fatto che i tentativi di Marco di fargli del male fisico puntualmente si accartoccino e falliscano; Daniele potrebbe cominciare a pensare che siano solo una scusa perché Marco possa toccarlo.

D’altra parte, Daniele potrebbe pure cominciare a pensare che tutta la sua vita non sia altro che un gigantesco complotto cosmico affinché Marco gli ritorni continuamente tra i piedi.

«L’universo ce l’ha con me,» mugugna Daniele, e nasconde la faccia contro la spalla di Marco, perché Marco è morbido e profumato e familiare sebbene ora sia largo più o meno la metà.

Marco ridacchia, dà un colpetto di consolazione sul braccio che Daniele gli ha avvolto attorno alla vita.

«Povero Dani. Milionario bello come il sole, col mestiere dei suoi sogni-palesemente vittima di un destino infame.»

«Oi,» si lagna Daniele, e morde la pelle di Marco giusto sopra la scapola, sorridendo soddisfatto tra sé del guaito sorpreso che gli strappa. «Non sfottere, sai.»

«Non mi permetterei mai,» dice Marco, e Daniele non ha bisogno di guardarlo in faccia per sapere che sta roteando gli occhi.

Marco rotola sulla schiena, poi, piegando la testa di lato sul cuscino; ed è bizzarro a vedersi, il nuovo viso di Marco, la linea ammorbidita e liscia della sua mascella e l’ossatura più stretta e affilata, ma resta familiare e, in fondo, neanche troppo diverso-Daniele è stranito proprio dalle singole somiglianze che trova nella forma degli occhi e delle labbra e nel colore della pelle e che poi, ammassate insieme, gli restituiscono quest’immagine lievemente distorta, invece di quella che conosce fin troppo bene.

Daniele è curioso di scoprire dove cominciano le differenze, e quando bacia Marco tenta di non pensare che è la prima volta da mesi, che è una pessima idea, che sicuramente finirà malissimo, che, oddio, e se la cosa che ha femminizzato Marco è una specie di virus mutante e adesso se lo piglia pure Daniele?

Ma prima che possa tirarsi indietro, Marco sta tracciando con la punta della lingua il contorno delle sue labbra, e gli ha buttato le braccia attorno al collo e Daniele è stato programmato in modo da avere una sola risposta possibile a un simile input.

Finisce che Marco è teso e inarcato sotto di lui nemmeno cinque minuti dopo, e tutto quello che Daniele ha fatto è stato baciarlo e accarezzargli impacciato la pelle dell’interno coscia-è assurdo, ok, non sentire niente di caldo e pesante contro lo stomaco quando Marco spinge i fianchi all’insù.

«Cazzo,» mormora Daniele, perso da qualche parte tra il collo e la spalla di Marco. «Mica eri così sensibile, prima-»

«Dani,» mugola Marco, le dita lunghe e troppo sottili artigliate alla schiena nuda di Daniele. «Daniele, giuro su Dio che se non-»

«Cosa?» domanda Daniele, vagamente agitato perché non ha la minima idea di cosa fare e Marco ha cominciato a strusciarglisi addosso e a gemere piano. «Marco, se me dici che devo fa’ magari-»

Marco ride, allora, inaspettatamente, e afferra Daniele per la nuca, tirandogli su la testa per guardarlo in faccia. Non ha smesso di strofinarsi.

«Dani, devo farti il discorso dell’ape e il fiore?» domanda, e poi si morde le labbra e mugola e dondola i fianchi e Daniele si sente un po’ usato, se dev’essere sincero, ma la pelle abbronzata di Marco è accarezzata da un velo sottilissimo di sudore e le sue guance sono rosa e i suoi capelli un disastro e quindi, vabbe’, pe’ stavolta passi. «Puoi-uhm-perché non-oh, Dio.»

«Cosa? Che è?» Daniele non ha bisogno di lezioni di educazione sessuale, grazie, sa benissimo come funziona-ha una figlia, cristodiddio-solo che Marco è tutto un brivido e un gemito e Daniele non sta facendo assolutamente niente. Non è abituato ad averci sotto qualcuno-qualcuna-che non ha bisogno di nulla. E Marco non sta nemmanco fingendo. «Marco-»

Ma Marco non lo sente più; ha tirato su una gamba, piegandola all’indietro in un modo che Daniele ha visto fare giusto alle bambole di Gaia qualche volta, e adesso si struscia in su contro il pantalone del pigiama di Daniele-contro l’erezione sotto il pantalone del pigiama, Daniele può solo sperare-con forza, in scatti rapidi e nervosi dei fianchi, e ha smesso anche di gemere ma ogni volta che spinge in su trattiene il fiato, e sembra che non riesca a richiudere la bocca e Daniele ha il sospetto che non dovrebbe essere una roba attraente, ma proprio per nulla, solo che il suo cazzo non è d’accordo e il suo cervello neppure, e per una volta che quei due gli strillano la stessa cosa, non ha intenzione di mettersi in mezzo.

E poi Marco scatta un’ultima volta all’insù, e resta fermo con gli occhi spalancati e le braccia buttate a caso tra le lenzuola; Daniele sbatte le palpebre, cercando di ricordarsi se gli spermatozoi passano attraverso i vestiti-ci manca solo che Marco gli rimanga incinto e, ok, magari quelle lezioni di educazione sessuale non gli farebbero male, in fondo-e poi Marco si muove ancora, ed emette questo mugolio umido e sottilissimo e che un po’ pareva di dolore, solo che evidentemente non lo era poi così tanto, perché Marco non smette.

Daniele comincia a sentirsi la testa leggera per quanto poco sangue e ossigeno gli sta arrivando al cervello.

«Marco,» soffia, e nemmeno si accorge che le braccia hanno iniziato a tremargli per lo sforzo di mantenerlo su tutto questo tempo. «Cristo, Marco, ma sei venu-»

«Shhh,» fa Marco, tappandogli la bocca con una mano, ma è un gesto maldestro e distratto e quasi ficca le dita nel naso di Daniele. «Lasciami venerare la mia dea interiore.»

E la cosa peggiore è che Marco avrebbe detto una roba del genere anche quando le uniche collinette sul suo petto erano quelle di pettorali scolpiti nel marmo, quindi Daniele non si preoccupa.

La dea interiore di Marco deve avere un senso dell’umorismo notevole, perché Daniele non fa in tempo a levarsi i pantaloni del pigiama, ridotti ad un ammasso disgustoso e umido e appiccicaticcio di sudore e insomma-Daniele-è-un-gentiluomo-e-certe-parole-non-si-dicono-nell’alta-società, che Marco balza giù dal letto e corre in bagno come se il prossimo Pallone d’Oro fosse lì dentro che lo aspetta ma se non ci arriva entro quattro decimi di secondo lo daranno a Messi. O magari Xavi. No, Messi sicuro.

Daniele si lascia ricadere sul materasso, si gratta il contorno dell’ombelico, e sospira; è soddisfatto, e il suo cervello ancora ingolfato abbastanza da non riuscire a servirgli un miliardo di pensieri ansiogeni al secondo come al solito.

Poi dal bagno proviene lo strillo terrificato di Marco, e Daniele quasi si rompe l’osso del collo per la foga con cui si catapulta da lui.

«Che è?!» domanda, e il suo spavento è del tutto virile, grazie.

Marco gli dà le spalle, sta fissando il contenuto del water; Daniele si acciglia-avrà tentato di farla in piedi, il genio?-e poi nota che Marco, tra le cosce nude, tiene stretto un rotolo di carta igienica macchiato a morte di rosso.

Daniele sgrana gli occhi. L’ho sverginato.

«Merda!» esclama, e poi gli viene in mente che, no, aspetta, veramente lui non ha sverginato proprio nessuno. «Marco, ma se non t’ho nemmeno-»

«Non è quello!» soffia Marco, lanciandogli un’occhiata esasperata da sopra la spalla. «Dani, vabbe’ che non sei messo male là sotto, ma non c’hai esattamente ’na mazza ferrata.»

Daniele arrossisce. In effetti, c’è un po’ troppo sangue.

«Allora che è?»

Marco lo guarda. Daniele piega la testa di lato, confuso.

«Congratulazioni,» dice Marco, allora, sarcastico. «Non sono incinto.»

Daniele sbatte le palpebre.

«Oh,» mormora, e poi, quando si rende conto di essere un cretino colossale, tossicchia. «Vabbe’, nun capisco perché lo devi dire così. È un sollievo, no?»

Marco gli tira addosso un rotolo di carta igienica. Daniele lo schiva scappando in camera da letto, e non ha il coraggio di riaffacciarsi a controllare che fosse pulito.

Daniele torna a casa-casa? È una camera d’albergo, Cristo santo, non è che perché Marco è lì allora automaticamente diventa casa, Daniele, diamine, datti un contegno. Daniele torna in albergo con una busta del supermercato rimpinzata di pacchi di assorbenti-chi aveva idea che ne esistessero così tanti tipi diversi!-e Magnum al doppio caramello, più una confezione di mutande da donna che Marco non aveva chiesto e che lui ha preso all’emporio cinese dietro l’angolo perché è fatto così, Daniele, è un ragazzo premuroso.

Marco grugnisce e gli ordina di tornare fuori a comprare un pacco di aspirina, o in alternativa di sedativi per cavalli.

«Vedo che sono cominciati i crampi,» commenta Daniele, spacchettando i gelati e prendendo un Magnum per sé perché, oh, fa caldo.

Marco gli scocca un’occhiataccia da dietro il cuscino attorno cui si è abbarbicato, e Daniele trema nel profondo; lascia la stanza indietreggiando, attento a non dare mai la schiena a Marco né a interrompere il contatto visivo, e non gli passa neanche per l’anticamera del cervello il pensiero di osservare che quel cuscino sarà ridotto a una schifezza nel giro di dieci minuti.

È fatto così, Daniele. Ha ancora una briciola di istinto di autoconservazione.

Quando Marco è imbottito di antidolorifici e cioccolato e caramello, e ha smesso di ringhiare ogni volta che Daniele anche solo accidentalmente lo sfiora, Daniele si strofina una mano sullo scalpo ispido di capelli cortissimi e sospira.

«Mi piacciono, sai,» dice Marco, leccandosi le dita perché il Magnum si è un po’ sciolto, e il cuore alla vaniglia è colato giù. «I capelli. Non so se te l’ho detto.»

Daniele, suo malgrado, sorride. «I non-capelli, vuoi dire.»

Marco rotea gli occhi.

«Certo il ciuffo scemo era comodo a letto,» continua, tranquillo, come se la sola menzione di cose che sono state-i capelli più lunghi di Daniele, le centinaia di volte che Marco, Marco vero, quello con la schiena muscolosa e le mani grandi e la barba, ci si è aggrappato durante il sesso-non fosse un simpatico arpione tra i polmoni di Daniele. «Però stai bene.»

Ma magari è solo Daniele che è scemo.

Daniele si passa una mano sulla bocca, si schioda dallo stipite della porta del bagno cui s’era appoggiato, per andare a puntellarsi contro quello dall’altro lato.

«Grazie, penso,» sbuffa. Marco, seduto a gambe incrociate in mezzo al letto e con ancora in braccio quel cuscino miracolosamente privo di macchie, annuisce senza guardarlo.

«Ho mandato un messaggio a mio fratello,» dice, dopo un po’, tanto per non farsi ammazzare dal silenzio. Daniele vorrebbe dirgli che non gliene potrebbe fregare di meno di suo fratello, dei messaggi, dell’universo mondo in generale e in particolare di Marco, ma si trattiene. Sarebbe una cazzata, comunque, soprattutto l’ultima parte. «Gli ho detto che sto a casa di, uhm, una. Non si dovrebbe preoccupare.»

Daniele scrolla le spalle, perché le uniche cose che ha davvero voglia di dire a Marco non c’entrano un cazzo con l’argomento fratelli-che-non-si-preoccupano, e per Daniele già è complicato articolare determinati pensieri quanto l’atmosfera è giusta, ovvero sono coinvolti alcol o fumo o una netta e prolungata vicinanza fisica o tutt’e tre le precedenti, figurarsi poi se deve cavarli fuori dal nulla. Meglio la Serie B o meglio-gli si ghiaccia il sangue nelle vene solo a pensarci-lo scudetto alla Lazio.

«Che famo?» domanda, e lo intendeva in senso un pochino esistenziale-forse era pure un tentativo maldestro di cominciare a trascinare la conversazione nella direzione che gli servirebbe-, però non appena si ascolta si rende conto che hanno un problema molto immediato che andrebbe risolto, e quindi specifica, «Pe’, uhm, ’sta storia che-sai. Che sei femmina.»

Marco scrolla le spalle.

«Non lo so, Dani,» soffia, ed è incongruamente carino e miserabile e perso, in quel corpo troppo sottile in mezzo al letto enorme che Daniele è pronto a giurare ancora odora di loro due insieme. Marco solleva le ginocchia, le circonda con le braccia. Daniele nota il braccialetto di cuoio nero che porta al polso destro.

«Quello ce l’hai sempre avuto?»

Marco sembra sorpreso dalla domanda, e ci mette un attimo a capire che Daniele non sta facendo una battuta del cazzo sulle sue tette-di nuovo-, ma si riferisce al bracciale.

«Oh. Uhm, no, in effetti è nuovo,» dice, rigirandosi la fettuccia attorno al polso. Daniele si avvicina, s’inginocchia sul bordo del materasso per osservarlo meglio. «Onestamente, non l’ho nemmeno comprato. C’era questa vecchia al mercato che vendeva carciofi arrosto-non ridere, Daniele, è un commercio del tutto legittimo-sì, d’estate-e abbiamo fatto due chiacchiere perché viene fuori che era di San Giovanni anche lei-e poi quando me ne sono andato, avevo il bracciale.»

«Ah beh. A chi non è mai successo.»

«Ma la finisci?» Marco tenta di tirargli uno schiaffo, ma più che altro gli fa il solletico a un orecchio. Daniele sorride. «Maro’. Ho cercato di ritrovarla ma non c’era più, era pieno di gente, si moriva di caldo... che dovevo fa’? Me ne so’ andato.»

Daniele si acciglia.

«E poi? Che hai fatto?»

«So’ tornato a casa, giusto il tempo di fa’ ’na doccia e poi mi so’ messo a dormire.»

E quando mi sono svegliato ero così, conclude Daniele. Rigira il bracciale intorno al polso di Marco-gli va largo, evidentemente è stato fissato quando non era così ossuto-e poi tenta di sciogliere i laccetti che lo tengono annodato.

Daniele ci prova, con tutta la concentrazione di cui è capace, per cinque minuti, ed è Daniele, quello che è stato capace di districare il disastro di quadrupli e quintupli nodi che Francesco aveva ammassato gli uni sugli altri sulle proprie scarpe preferite; quando il bracciale non viene via, Daniele si siede sui talloni, corrucciato.

«Mi sa che dovemo cerca’ la vecchia.»

Convincere Marco a lasciare dall’albergo è un’impresa titanica; gli ci vogliono tre docce prima che decida di sentirsi sufficientemente pulito-«Non mi stupisco che Belen sia una tale stronza, avere a che fare co’ ’sto schifo tutti i mesi è ’n inferno»-e quasi un quarto d’ora e un numero infinito di tentativi prima che riesca a sistemare l’assorbente ipermaxigigante nelle mutande in maniera che, parole sue, non mi faccia il pesce.

«Fino a ieri eri contento d’aveccelo, il pesce,» lo sfotte Daniele, a distanza di sicurezza. Marco gli mostra il medio nello specchio, perché l’unica cosa a portata di mano è la televisione, e Marco non potrebbe mai mancarle di rispetto.

Quando finalmente sono entrambi presentabili-Daniele con un pantaloncino di cotone turchese e una maglietta qualsiasi, Marco con gli stessi shorts di jeans di ieri e un’altra canotta di Daniele, stavolta gialla, che ovviamente gli sta larghissima e negli anelli delle maniche si vede il profilo dei seni-è così tardi che il pomeriggio è quasi già diventato sera, e Daniele non mangia da ventiquattr’ore, perché du’ Magnum non so’ magna’, a casa sua.

«Ci possiamo prendere due carciofi,» osserva Marco, che pare un po’ troppo entusiasta all’idea di essere vittima dell’incantesimo di una vecchia arrostitrice di carciofi.

Daniele gli dà un colpetto dietro la spalla, ma si guadagna le occhiatacce oltraggiate di mezza dozzina di passanti perché, ah già, loro non vedono lui che spintona giocosamente un suo amico ed ex compagno di squadra e di letto, ma solo un omone biondo e barbuto che alza le mani su una ragazza bella e sottile.

Marco ridacchia, e sorride come una gatta morta a tutti i ragazzi carini che incrociano. Daniele quasi fa una strage.

Si fermano a prendere da mangiare alla rosticceria meno unta che trovano sul lungomare-è comunque abbastanza unta, e Marco rifiuta la pizza perché gli pare di bestemmiare e prende, domineddio, un contenitore di stagnola con dentro una porzione più che generosa di paella perché, dice, «siamo in Spagna, Danie’»-e poi proseguono verso la zona dove Marco ricorda vagamente di aver incontrato la tizia.

«Possiamo sempre seguire la puzza di bruciato,» mugugna Daniele, mentre s’ingozza con la seconda delle tre pizzette che ha preso. Marco inarca un sopracciglio, si porta una forchettata di paella alla bocca e poi lecca giudiziosamente i rebbi di plastica bianca.

Daniele ha voglia di buttarlo a mare.

Non c’è traccia della vecchia, naturalmente, né dei suoi carciofi, e Daniele propone di domandare un po’ in giro; sente Osvaldo urlargli bestemmie alle orecchie per il suo pessimo spagnolo, e con l’inglese non ci prova neppure, e prima che possa tentare la fortuna sperando che il perplesso fruttivendolo che ha davanti capisca l’italiano, Marco gli compare accanto, e attacca una conversazione in-in napoletano?

Daniele è ancora confuso quando, venti minuti più tardi, Marco lo trascina via dalla bancarella-Daniele ha le braccia piene di buste di frutta-e verso la spiaggia, brontolando sottovoce.

«Quindi?» domanda Daniele, appollaiandosi su uno scoglio quasi a pelo d’acqua e pescando un’albicocca. Per un istante contempla l’idea di sciacquarla nel mare, ma Marco gli passa una bottiglietta d’acqua prima ancora che lui si sporga. «Grazie.»

«Niente vecchia, niente carciofi, nessuno l’hai mai vista,» si lagna Marco, e si sdraia sullo scoglio e la canotta gli scopre la pancia e Daniele assolutamente non sta fissando il punto in cui il tatuaggio s’immerge sotto i suoi pantaloncini. Davvero.

Daniele rigira l’albicocca sotto un timido sgocciolio d’acqua, e poi si schiarisce la voce.

«Dai. Magari domani-»

«Ma non funziona così, Dani,» si lagna Marco, sgranando gli occhi e tirandosi su a sedere di scatto. «Quando la strega cattiva-o la fata madrina, a seconda dei casi, e devo ancora capire in che situazione siamo-quando uno fa un incantesimo, e poi l’eroe ritorna per chiedere spiegazioni, la fata o la strega deve essere lì per spiegare le cose! Sennò come comincia l’avventura?»

Daniele affonda i denti nell’albicocca, inarca le sopracciglia.

«Fammi capire,» biascica a bocca piena, e poi deglutisce. «Te saresti l’eroe, in questo scenario?»

Marco annuisce, convinto. «Eroe, eroina, non fa differenza.»

Daniele ridacchia. «Seh, l’eroina. E perché nun po’ esse’ come quel cartone lì, quello del tizio mezzo maschio e mezzo femmina che-c’hai presente, cambiava coll’acqua.»

Marco corruga la fronte, ci pensa su per un momento.

«Impossibile,» decide alla fine. «Ho fatto tre docce, calde e fredde. Se fosse come Ranma, sarei tornato normale.»

Ranma, pensa Daniele; tira via il nocciolo dall’albicocca, ficcandolo nella busta di plastica più vicina, e poi spazzola quel che rimaneva del frutto.

«Buona,» sentenzia, prendendone un’altra. «Ne vòi?»

«Sì grazie,» dice Marco; s’è tolto i sandali, nel frattempo, e sta dondolando i piedi oltre il bordo dello scoglio. «Però Dani, sei d’accordo con me che questa storia non ha senso?»

«E chi te dà torto,» mormora Daniele, spaccando a metà un’altra albicocca. Gesù Cristo, Marco è una donna. E ancora peggio, è in vacanza a Formentera dove c’è pure Daniele. E, ancora peggio del peggio, è seduto su uno scoglio a mangiare albicocche insieme a Daniele come se non fossero mesi che non si vedono se non di sfuggita, mesi che non si parlano se non per scambiarsi convenevoli, mesi che ignorano il fatto che non si vedono se non di sfuggita e non si parlano se non per scambiarsi convenevoli.

E, ancora peggio del peggio che è peggio del peggio, Daniele sta cominciando a sospettare che faccia tutto parte della strategia di Marco; che Marco sia stato, tra loro due, il più furbo: che, quando è partito per Genova, si siano lasciati senza una parola e senza una promessa perché senza una parola e senza una promessa avevano campato fino a quel punto. Che non si siano lasciati davvero, ma che abbiano messo questa cosa-questa relazione che non è stata definita ma per la quale Marco va a cercare Daniele, il giorno in cui si risveglia donna, Daniele e non un altro, neanche suo fratello-semplicemente in pausa.

Daniele sta cominciando a sospettare che, se di loro due è l’unico che è stato grandiosamente di merda, magari non è perché a Marco non importa. Magari è perché Marco è più intelligente.

Daniele si mette a ridere così tanto che quasi capitombola giù dallo scoglio.

Marco lo guarda, perplesso.

«Tutt’apposto?»

Daniele scuote la testa, gli offre la mezza albicocca.

«Sì, tranquillo, nun è gnente,» dice, solo che è un po’ stanco di liquidare tutto così-ed è un po’ stanco di star male per millenni a causa di nessun altro all’infuori di se stesso-perciò alza gli occhi e dice, «Veramente, ’na cosa c’è.»

Marco inclina la testa da un lato, l’albicocca arancione brillante tra le labbra.

«C’hai presente quanno te dico che sei stronzo forte?» chiede Daniele, pacifico, non come tutti gli altri miliardi di volte in cui ha posto la medesima domanda al chiaro scopo di litigare-di spingere Marco via solo per potersi crogiolare, poi, nell’amarissima soddisfazione di averlo visto fare esattamente quello che Daniele si aspettava: andare via sbattendo la porta. E se le ricorda pure Marco, tutte quelle discussioni inutili e imbecilli in cui Daniele, invece di chiedere-schiudersi un poco-e rischiare di rimanere scottato, preferiva piuttosto tirarsi addosso quello che aveva paura di non poter evitare; accompagnava l’aereo a fracassarsi contro il fianco della montagna, piuttosto che buttarsi col paracadute difettoso.

Marco è all’erta, con gli occhi sgranati e le braccia rigide lungo i fianchi; a Daniele viene da ridere di nuovo.

«C’ho presente,» dice Marco, piano, cercando di non far vedere che è cauto; è l’hostess che discretamente avvisa il comandante di un passeggero pericoloso bloccato nel bagno in fondo all’aereo.

Daniele prende fiato.

«Ecco. Viene fuori che lo stronzo so’ io.»

Marco sbatte gli occhi per un momento, e poi la sua sorpresa si spezza e si spezza pure il bracciale, ma Marco non se ne accorge, perché non può schiodare gli occhi da Daniele, e Daniele lo stesso con lui.

«Dani,» mormora Marco, e poi quell’espressione guardinga si ammorbidisce in un sorrisetto furbo, contento. «Guarda che non è mica una novità.»

Daniele sbuffa una specie di risata senza fiato, e china la testa, s’arrende; Marco ridacchia con lui, lo bacia contro l’angolo delle labbra.

Daniele lo guarda, e così da vicino neanche si nota che Marco non è proprio lo stesso Marco di sempre; così da vicino Daniele vede solo i suoi occhi, il suo naso, le sue lentiggini, che non lo sa se sono tutte esattamente nello stesso posto perché non è così messo male, grazie, ma tutto sommato gli paiono quelle, e da così vicino Daniele decide che probabilmente Marco ha ragione-che non è una novità, che Daniele è uno stronzo. Se lo porta scritto in faccia, sotto la barba, e sull’anulare sinistro che non ha ancora perso il segno dell’anello. Marco deve averlo capito un secolo fa, e l’avrebbe capito pure Daniele se si fosse preso la briga di concentrarsi, più che sulle porte sbattute, sul fatto che poi ognuna di quelle porte s’è riaperta. Che Marco è sempre tornato.

«Cristo, sono un cretino,» soffia Daniele, ed è bello ammetterlo, si sente liberato dal peso terribile che è la consapevolezza di essere un umano dotato di senno.

Marco ridacchia, vicinissimo; Daniele lo spinge giù dallo scoglio, ride dello schiaffo comico del corpo di Marco all’impatto con la superficie del mare, e non c’è niente di male, perché Daniele è un cretino, adesso.

Quando riemerge, sputacchiando acqua salata e insulti e solenni promesse di vendetta, Marco è di nuovo Marco.

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