[RPF] Learn your lesson, lead me home

Jun 08, 2013 11:22

Titolo: Learn your lesson, lead me home
Fandom: RPF Spaghetti Funk
Personaggi/Pairing: J-Ax/Grido, subtext Thema/Strano
Rating: PG14
Conteggio Parole: 7605 (OOo)
Avvertimenti: What If?, amnesia temporanea (ovvero, invenzioni di medicina e traumatologia ovunque), slash, incesto, fluff, micro-angst
Note: Scritta per l'edizione 2013 del minicest_ita, il giorno che parteciperò portando qualcosa di angst pesante-e-serio verrà la fine del mondo X'D I try, oh do I try.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

Gifter: lisachanoando, aka L-iz-Perfect
Link al gift: coverart che è un'estensione della perfezione Lizzica, e immodestamente mia ♥



Learn your lesson, lead me home.

Mi dicono che è il duemilatredici. Mi dicono - e questa è la cosa più divertente, che se alla data astronomica, con un po’ di sforzo, avrei pure potuto credere, perché i viaggi nel tempo e le capsule criogeniche e tutto il resto, questa invece non me la berrò mai, scusate tanto - che ho trentaquattro anni. Come no. E magari i film sui supereroi sbancano al botteghino. Mi avete preso per scemo?

La dottoressa - lei sì che i trenta se li è lasciati alle spalle da un pezzo, ma resta molto, molto, molto guardabile, e non è che, se mi piacciono le donne più grandi, devo per forza avere delle questioni irrisolte con mia madre, Freud, grazie tante, ma no grazie, - mi sorride con una delicatezza che ha tutta l’aria di essere sincera. Piena di pietà. Cazzo, la signora è davvero convinta che io soffra di, com’è che l’ha chiamata, amnesia-retrograda-speriamo-sia-transitoria.

«Ok, ok,» le dico, e, quando sollevo le mani, più che un ago della flebo, nel braccio mi sembra ci abbiano ficcato trenta centimetri di freccia. «Puttana Ev-uhm. Chiedo scusa.»

La dottoressa china la testa, indulgente; dueazzero per me, Freud, perché non esiste che mamma mi perdoni una bestemmia così senza un paio di sberle, e la dottoressa ancora mi pare terribilmente orizzontabile.

«Non è che mi può ripetere un attimo cos’è successo?» le chiedo, non perché non mi ricordi - cioè, mi ricordo quello che mi ha raccontato, e che mi ha raccontato cose, ma no che non mi ricordo che quelle cose mi sono successe davvero, e se avessi avuto un incidente, Cristo, penso che me lo ricorderei - ma perché mi piace sentirla parlare.

La dottoressa picchietta la penna sulla cartellina di plastica che si stringe al petto. «È rimasto coinvolto in un incidente d’auto, signor Aleotti,» mi dice, col suo accento fiorentino e quest’assurda, bruttissima abitudine di darmi del lei e chiamarmi signore. «In pronto soccorso si sono resi conto della gravità della sua condizione - è stato necessario operarla all’addome, per rimuovere frammenti di metallo e fermare una serie di emorragie interne e complicazioni dovute all’impatto - e ha subíto un violento trauma cranico, tale da costringerci a metterla in coma farmacologico per trentasei ore per tentare di contenere il danno. L’amnesia retrograda di cui soffre è un effetto del trauma.»

Ah, che bella voce. Però c’è un dettaglio che mi incuriosisce.

«Come mai non c’è nessuno?» le domando; la dottoressa sembra perplessa. «Ho un fratello, una madre, degli amici,» specifico, accennando alla stanza vuota. «Se mi avete tenuto qui dentro per un giorno e mezzo, come mai non c’è nessuno?»

«Quasi cinquanta ore, al momento,» mi corregge la dottoressa, e sì, vabbè, insomma, quello. Non è che il totale esatto va molto a favore di quei caproni di persone che dovrebbero volermi bene. «Signor Aleotti, uhm, la ragione per cui non abbiamo avvisato la sua famiglia è che - come posso spiegarmi?» Non saprei, in italiano? La dottoressa si morde le labbra. Buongiorno, Vietnam. «Non siamo stati in grado di risalire ad un numero telefonico, o un indirizzo. La sua carta d’identità la identifica come residente di Cologno Monzese, Milano.»

Annuisco, perché questo sì che me lo ricordo, e come potrei dimenticarlo. «Cologno D.O.C., signora mia.»

La vedo che tenta di trattenere un sorriso, dottoressa, la prego, non c’è bisogno. Siamo in famiglia.

Mi guarda, e mi dice, «Siamo a Lecce, signor Aleotti.»

E, vabbè, a questo punto è chiaro che mi sta prendendo per il culo, ed è tutto parte di un elaborato scherzone di pessimo gusto, perché Lecce? Siamo seri?

Mi piazzano tra le mani uno zaino un po’ strapazzato che non ricordo di aver mai comprato, né tantomeno riempito, né tantomeno portato in questa misteriosa auto in cui, mi dicono, ho avuto questo misterioso incidente. Mi piazzano tra le mani uno zaino un po’ strapazzato e mi dicono, «È il suo zaino, signor Aleotti.»

No che non è il mio zaino, signora infermiera più larga che alta, vorrei dire; ma siamo uno pari e palla al centro, io e Freud, perché l’infermiera è bionda e severa ma dolce, e un po’ mi ricorda la mamma, quindi faccio come mi dice: accetto lo stramaledetto zaino e ci metto il naso dentro.

C’è un portafogli - il mio portafogli? - in cima a tutto, un quadrato di pelle nera consumato agli angoli, secco come la morte, con una macchia di sangue incrostata sul retro. Ci trovo dentro la patente, solo che non è la mia patente, perché non ho mai avuto una patente a tessera plastificata - però è la mia patente, perché c’è sopra la mia faccia. Ed è la mia faccia, ma non è la faccia di un trentaquattrenne, dai. Questo avvalora la mia tesi: non sono davvero così vecchio. Non posso essere così vecchio.

La carta d’identità, stessa storia: è datata a un giorno assurdo - duemilasei? Maccosa! - e la foto - occristo, la foto. Ho dei capelli, nella foto; capelli idiotamente lunghi che mi piovono ai lati della testa come spaghetti, rigidi rigidi, e a una più attenta ispezione, ovvero quando mi sono incollato la fototessera alle retine, in realtà sono una montagna di treccine. Una cascata di treccine. Un’invasione di fottute treccine castano scuro e se non mi avevano convinto prima, beh, adesso non me lo leva più nessuno dalla testa che sono su Scherzi a Parte.

Mi guardo intorno, aspettando l’invasione di telecamere e quel cretino di Ale, ma la stanza è vuota e silenziosa e placida e snervante, per cui torno dal portafogli. Soldi non ce ne sono, figuriamoci, ma chiunque mi abbia salvato dai rottami dell’auto ha avuto il buon cuore di lasciarci dentro le foto stropicciatissime che mi porto dietro da sempre: io neonato in braccio a mamma, io e Ale il giorno del mio terzo compleanno, la figurina di Zanetti che già lo so che arriverà lontano, simpatico argentino.

Amnesia un cazzo, signora dottoressa.

Appoggio il portafogli sul comodino e torno a frugare nello zaino: c’è un quaderno giallo fluorescente con la spirale e, ok, questo non me lo ricordo, ma quando mai mi sono ricordato le facce dei quaderni? Lo sfoglio ed è pieno pieno di rime nella mia grafia - chi non capisce la sua scrittura è un asino di natura, mi cantavano all’asilo, e io asino non sono perché capisco tutto perfettamente, grazie. Solo che non mi suonano familiari, tutte ’ste parole in fila; sono fighe, per carità, e pure meglio sono gli abbozzi di graffiti intorno a cui girano i testi, ma non mi ricordo.

Non penso si possa giocare a calcio in tre, quindi affanculo Freud; dottoressa uno, Grido zero.

Via anche il quaderno, quindi, magari ci torno dopo; magari è solo un po’ di spossamento dovuto al, com’era, coma-farmacologico-di-trentasei-ore. Giusto.

Dentro lo zaino c’è una giacca di pelle superfiga, complimenti a me stesso, e, ok, un paio di scarpe, per qualche ragione. C’è un orologio d’acciaio che pesa quanto un ippopotamo ed è solo un pochino graffiato intorno alla chiusura, e pure lui finisce sul comodino; sono le undici del mattino, mamma è al lavoro.

Sul fondo, trovo due cosi rettangolari, bianchi, con gli angoli smussati e la superficie liscissima, che sembrano usciti dritti dritti da un film di fantascienza, o di alieni, o che ne so; sono vagamente inquietato, però uno dei due cosi ha un paio di auricolari arancioni attorcigliati attorno, e auricolari in genere significa musica, no? Appoggio l’altro coso sul letto e mi concentro su questo.

Una volta svolto il gomitolo degli auricolari, mi rendo conto che sulla scatoletta ho a disposizione uno schermino e quattro tasti, come la Play, solo che i tasti sono su un cerchio e non sono proprio bottoni e, quando li pigio, non succede niente.

«Huh.»

Il retro è a specchio, graffiato a morte, ma mi restituisce l’immagine di una faccia che conosco: sono io, ehi, ciao me, con un taglio trasversale sulla radice del naso e le labbra gonfie e un livido sullo zigomo e pallido come un cadavere, ma sono io. Sono anche calvo.

«Porcodd-»

iPod, c’è scritto, in mezzo alla superficie riflettente; è un nome assurdo, che non ho idea di cosa significhi e spero abbiano licenziato il tizio che ha dato l’ok per il battesimo, ma non mi suona del tutto stonato. Voglio dire, non mi sorprende quanto dovrebbe, e per qualche ragione continuo a leggere àipod.

Sopra il marchio, in caratteri più piccoli, c’è un incisione; vaffanculo, baby bro.

Sorrido.

«Vaffanculo tu, Ale,» gli dico, sfiorando le lettere col pollice. Ho un’espressione cretina, e non ce la faccio più a guardarmi riflesso, per cui mi rigiro la scatolina tra le mani e, sul lato corto superiore, dove c’è il jack delle cuffie, trovo una levetta mobile che è la soluzione a tutti i problemi della mia vita: la faccio scattare e lo schermino del coso, dell’iPod, subito prende vita.

Sono eccitato come un bambino alla fiera, non so bene perché; mi ficco una cuffia nell’orecchio che sento meno gonfio e schiaccio play. Lo schermino mi avverte che sto ascoltando un brano senza titolo di un artista sconosciuto, ok, molte grazie, quanta tecnologia sprecata, ma cazzo, la qualità del suono del sintetizzatore che mi cinguetta nell’orecchio è immacolata.

Un tizio attacca a cantare, o non proprio cantare, portami l’ultima birra, fammi compagnia, lei è andata via, e mi piace la base, mi piace il flow, mi piace la voce - mi piace, quindi me lo tengo, questo artista sconosciuto col suo brano senza titolo.

Guardicchio ancora la scatoletta, ficcando un’unghia nella saldatura tra fronte e retro cercando di capire dov’è che si apra per inserire il mini CD, ma non trovo niente, e nel frattempo il pezzo del tizio ha preso già forza e ritmo, con i cori addirittura, e poi si mette a dirmi qualcosa tipo è la musica che mi ha salvato ma, ed è quel ma che mi distrae, che si ruba tutta la mia attenzione, ma a volte non capisco se chi mi dice ti amo sappia veramente chi sono o solamente come mi chiamo.

Ed è così familiare, il sentimento e la frase e tutto quello che dice dopo, - quello che l’unico amico che c’aveva era il gatto, - e persino il modo di infilare le parole una dietro l’altra, che non riesco a smettere di ascoltare.

L’altro insetto rettangolare bianco mi osserva placido da sopra la coperta, mentre il tizio mi canta all’orecchio; lo prendo, e pure questo ha un’apertura sottile sul fondo, e il marchio di una mela stilizzata sul retro, ma niente specchio, solo una superficie di plastica trasparente spaccata come una vetrina colta da una sassata.

iPhone, si chiama questo, e non ci sono dediche, e quando maneggio con la levetta si accende uno schermo enorme, wow, questo sì che è inquietante, e mi chiede una sequenza numerica per sbloccare il telefono. Questo coso è un telefono?

La mia data di nascita non funziona e nemmeno quella di Ale e nemmeno quella di mamma; lascio perdere, perché comunque è più interessante il tizio con la sua voglia di restare piccoli per sempre.

Più mi sforzo e meno riesco a ricordare cose. Più ci penso, e più mi rendo conto che io Ale non mi ricordo esattamente che faccia abbia; che non sarei capace di descriverlo nei dettagli, né a lui né alla mamma né a Ema né a - non mi ricordo più che altri amici ho. E il fatto è che so di averne; lo so; e il fatto è pure che Ema non lo conosco neanche così bene, voglio dire, ci ho litigato due volte di brutto e poi quella sera che eravamo ubriachi fradici abbiamo fatto free style insieme, ma siamo fermi lì, eppure continuo a metterlo insieme ad Ale e alla mamma come se fosse importante, e non so perché è importante. È importante?

Ho un mal di testa che è più un dolore sordo in mezzo al cranio e la dottoressa dice che non mi devo affaticare, che non ci devo pensare, che il mio cervello ha preso un brutto pestaggio ed è ancora un po’ gonfio e devo lasciarlo riprendersi, guarire.

Ho un occhio nero nella testa e non capisco più niente, voglio solo - non lo so cosa voglio. Mi arriccio su un fianco, e l’artista sconosciuto mi canta di questa tipa che o la ama o l’ammazza, pioggia che annega ma rinfresca.

Mi piace. Mi viene da vomitare.

La dottoressa dice che hanno chiamato il numero di casa che ho dato all’infermiera, ma quelli che hanno risposto non ne sapevano nulla della signora Aleotti.

Mi sveglia un tocco sulla spalla, e non lo so cosa stavo sognando ma era qualcosa di brutto, perché spalanco gli occhi e per un attimo non riesco a respirare e ho la bocca intrisa del sapore del sangue; ma sto bene, sono intero, sono sul mio letto in ospedale e quando mi giro c’è mamma, con gli occhi pieni di lacrime, e come diavolo ho fatto a dimenticarmi il suo viso?

«Mamma,» gracchio, stupidamente, e lei pigia insieme le labbra per impedirsi di piangere e io mi ricordo del mio aspetto orribile - ma non riesco a preoccuparmene troppo, perché anche mamma non è che stia tanto bene, sembra invecchiata di vent’anni. «Mamma.»

«Shh, tesoro, sono qui,» mi dice, e mi accarezza la guancia sana e io respiro più tranquillo, mi calmo abbastanza da accorgermi dell’iPod buttato in mezzo alle lenzuola che ancora fa cantare il mio artista sconosciuto; lo ripesco, tirandolo per il filo degli auricolari che non ho più addosso da un pezzo, e schiaccio pausa. Mamma avvicina una poltroncina al letto e ci si siede su. «Come ti senti?»

«Bene,» le dico, subito, perché non avrebbe senso dirle qualcosa di diverso. Lei non se la beve nemmeno per un istante, ma mi prende una mano tra le sue e la accarezza gentilmente.

«I dottori dicono-»

«Lo so cosa dicono. Ci sto lavorando.»

Mamma mi guarda, e più io guardo lei, le rughe sulla sua fronte, sul suo collo, intorno ai suoi occhi, e più mi sento crescere dentro una specie di rabbia, perché ognuno di quei segni mi pare così sbagliato; ma lo so che è giusto. Che è il duemilatredici, che ho avuto un incidente - che non ho la minima idea di cosa ho combinato negli ultimi, boh, quindici anni?

È un pensiero così immensamente assurdo che non riesco nemmeno ad averne paura come dovrei.

«Cosa stavi ascoltando?» mi chiede, allora, per cambiare discorso. Neanche provo a fermare il sogghigno che mi sale sulle labbra.

«Non lo so bene,» dico. «Nel senso, lo schermo dell’iPod mi dice che l’artista è sconosciuto, e non sono riuscito ad aprirlo per guardare il CD,» di nuovo, mamma si morde le labbra. «Ma è un tizio che mi piace davvero, davvero un sacco, e-»

E prima che io possa rendermi ridicolo parlandole della mia nuovissima cotta per un cantante di cui non conosco neanche il nome, la porta della mia stanza si spalanca e tre tizi vestiti da totali paninari si riversano dentro.

«Scusate, c’era la fila al bar,» dice il più magro dei tre, un tizio moro con una faccia sottile e furba e i capelli lunghi, tenuti indietro da, Dio santo, un frontino. Tiene in mano due bottiglie di vetro verde con impilati su dei bicchierini di plastica, e chissà se lo posso bere, il caffè freddo; comunque, sono contento che nel duemilatredici esista ancora.

«Non preoccuparti, caro,» gli dice mamma; Frontino allora viene avanti, mi dedica un sorriso piccolo e quasi timido mentre fa il giro del letto per andare ad appoggiare il caffè freddo su un tavolino. C’è qualcosa di familiare nelle sue braccia lunghe, nella sua camminata solo leggermente scomposta, ma prima che possa farmi venire un’emicrania mi distrae mamma, che aggiunge: «E voi? Fatevi coraggio, su.»

Mi rendo conto, allora, che gli altri due incredibili zarri erano rimasti inchiodati sulla porta. Si scambiano un’occhiatina incerta, ora, poi sospirano quasi all’unisono e varcano la soglia.

«Ehi,» dice quello più alto e muscoloso, che è di un biondo allucinante e indossa degli occhiali da sole con le lenti viola.

«Come va?» domanda l’altro, col naso all’aria e le mani nelle tasche e un cappello con la visiera calcato in testa, e sento mamma al mio fianco vibrare per la voglia che ha di fargli una ramanzina e raddrizzargli la postura.

Sorrido, e dico, «Ehilà.»

I due sembrano, effettivamente, prendere coraggio; Biondo arriccia le labbra in un sorriso e si toglie gli occhiali da sole, infilandoli nel taschino del gilet di jeans - a quanto pare non sono l’unico a non aver mai abbandonato gli anni Novanta. Lo guardo, e Cristoddio se il cuore non mi si ferma per un istante quando mi accorgo che si tratta di Ema.

Puttana Eva.

È solo grazie alla flebo ancora inchiavata nell’incavo del gomito che non mi sbatto una mano sulla bocca per la sorpresa; ma devo essere sbiancato, perché Biondo - Ema - e Cappello si allarmano subito, precipitandosi al mio capezzale.

«Zio, tutt’apposto?»

«Che succede? Ti chiamo un’infermiera? Vuoi un po’ di acqua e zucchero?»

Mi ci vuole un istante per recuperare la freddezza necessaria a scollare, «No, uhm, sto-sto bene. Tranquilli.» Mamma mi strizza la mano come in un avvertimento e quindi aggiungo, «Grazie.»

Ema e Cappello sembrano tranquillizzarsi; Frontino chiede, «Lu’, vuoi un po’ di caffè?»

«Sennò ti abbiamo portato i cioccolatini,» dice Ema, e dà di gomito a Cappello, che mi stava scrutando con un’espressione imponderabile, finché Cappello non si riscuote e solleva una busta di plastica, piazzandola sulle coperte.

«Cioccolatini,» dice, indicandola; dentro ci sono qualcosa come otto chili di roba, tra Baci Perugina e Ferrero Rocher e i Lindt e degli ovetti Kinder in miniatura - Shocko-bons, dice il sacchetto, ma passata la soglia degli anni Duemila improvvisamente la gente si è dimenticata come concepire nomi che non facciano altamente cagare? - e, soprattutto, eterna gioia dei miei occhi, un pacco formato famiglia di Bounty.

È evidente, dunque, che Ema e Cappello e Frontino devono conoscermi bene; gli sorrido, e mi tuffo all’attacco della prima barretta, e loro mi sembrano contenti, sollevati. Mi sento una merda, perché sono venuti fin qui per me e mi hanno portato i dolci e io neanche mi ricordo come si chiamano, però poi ho la bocca piena di cioccolato e cocco, e non sto dicendo che questo basta a risolvere tutti i miei guai, ma di sicuro me li fa dimenticare.

Cappello si toglie il cappello e, come per Frontino e le sue braccia, c’è qualcosa che mi è familiare, in lui, nel profilo del suo naso, nel modo in cui si strofina i capelli cortissimi. È pieno di tatuaggi, ma anche io sono pieno di tatuaggi, e non tutti hanno un senso, non ancora.

Cappello si toglie il cappello e si guarda le scarpe, e mi si stringe il cuore, - devo avergli voluto bene, perciò devo volergli bene anche ora, - quindi allungo una mano, piano per non farmi accoltellare dalla flebo, e gli ficco un dito in una guancia. Lui non si scosta subito, mi lascia fare, e quando alla fine si tira indietro sta sorridendo, e il suo fingersi scocciato fa acqua da tutte le parti.

«Non ti ricordi niente, quindi,» dice Ema, e mi viene da ridere perché, minchia, la delicatezza. Frontino gli scocca un’occhiataccia, e lui arrossisce e fa retromarcia. «Voglio dire. Hai, uh, un’amnesia, insomma.»

Mi gratto il lato del naso. «Così dicono i dottori. C’è un… un rigonfiamento nel mio cervello, tipo, e finché non si risolve quello, sono un po’ spaesato.»

Ema annuisce, serio serio, e si accarezza il mento come un luminare; gli voglio bene, e se fino a dieci minuti fa non mi sapevo spiegare perché, adesso non ne ho davvero bisogno.

Cappello sta osservando l’ago della flebo che mi s’immerge nel braccio, ora, e chissà cosa ci trova di tanto interessante in quel filo di pelle semitraparente. La voce di Frontino mi distrae.

«Saremmo venuti prima,» dice, come a scusarsi, e poi sospira, si strofina una mano sulla fronte. «Scusaci. È che-non avevamo idea.»

Scuoto la testa. «Non vi preoccupate. È colpa mia, in realtà, perché tra una cosa e l’altra non-uhm, i miei contatti di emergenza sono tutti sul telefono, suppongo, e non mi ricordo il codice per sbloccarlo.»

I miei tre amici si guardano; il bicchierino di caffè freddo tra le mani di mamma scricchiola un po’.

«Il codice,» dice Cappello, la voce bassa e rassicurante e io la conosco, questa voce, la conosco, devo solo ritrovare il posto in cui ne ho seppellito il ricordo, sotto il bernoccolo che ho nel cervello. «È 4-3-8. Gidivì.»

Lo scandisce con una certa reverenza, come se fosse qualcosa di veramente, veramente importante, e allora annuisco, e prego che si bevano la mia recita.

Mi accorgo di stare guardando ogni cinque secondi la porta, e prima o poi se ne accorgeranno anche loro, quindi a questo punto tanto vale parlare, tanto più che cambio pure argomento. «Mamma, ragazzi... ma Ale?»

Ale perché non è venuto con voi?, volevo chiedere. Perché non lo nominate? Perché non c’è? Dov’è? Che sta aspettando? Ma mi muore la voce in gola solo a pronunciare il suo nome, perché mi manca, come se non lo vedessi da dieci secoli, e i punti dove mi hanno operato fanno male e, in realtà, sono tutto un dolore, da capo a piedi, in un modo sottile che non mi atterra completamente ma nemmeno mi permette di dimenticarmene, e voglio il mio fratellone.

Cappello e Frontino e Ema si guardano, poi guardano mamma. Lei sospira, si alza.

«Vado a cercare un’infermiera,» dice, chinandosi a baciarmi sulla fronte - pessima idea, ma stringo i denti e tento di non fare una piega. «Sei sciupatissimo, tesoro, e non puoi mangiare solo caramelle.»

Prima che possa correggerla, perché i Bounty sono molto più che semplici caramelle, è quasi un insulto, mamma è già sgusciata via e sono solo con Ema, Frontino e Cappello; e ho come la sensazione che non riuscirò molto a lungo a dissimulare il fatto che, ora come ora, non ho la più vaga idea di quale sia il motivo per cui siamo così tanto amici.

Potrei dirglielo, certo, sparargli in faccia il fatto che, ehi, i miei ricordi sono fermi ai miei vaghi e nebulosi diciott’anni, come va la vita? Ma non saprei come dirlo in maniera carina, e onestamente, mi è bastato intravedere l’espressione distrutta di mamma.

«Lu’,» dice Frontino, scollando i fianchi dal davanzale della finestra e venendo ad appoggiarsi ai piedi del letto. Mi guarda, come se stesse cercando di leggermi nel pensiero, o negli occhi, o qualche vaga cazzata di quel genere. «Esattamente quanto, uhm, quanto ti ricordi, di quello che è successo prima dell’incidente?»

Mi viene da ridacchiare, ma mi contengo. Scrollo le spalle. «Abbastanza.»

Frontino mi guarda incerto, ma sono più preoccupato da Cappello, ora come ora; Cappello ha l’aria sveglia e pragmatica, Cappello mi scruta con gli occhi stretti e Cappello dice, «Non ti ricordi un cazzo.»

Ora sì che rido, nervoso. «No, mi ricordo-»

«Che hai un fratello,» mi interrompe Cappello. «E una madre, e che ti piacciono i Bounty. Che altro?»

Merda. «Che, uhm. Che siamo a Lecce. Che vivo a Cologno.»

Cazzo. Un lampo di panico passa sulla faccia di Frontino. Stanno cominciando a capire, e io non so come fermarli. «Lu’, a Cologno?»

«Vivi a Milano,» dice Cappello.

«Ma la carta d’identità-»

«Non la rinnovi da diecimila anni, hai cambiato casa tre volte, nel frattempo.» Cappello si strofina il dorso della mano sotto il mento, pare che gli stiano cavando il dente del giudizio quando chiede, «Luca, Grido, zio, mi riconosci?»

Ci vorrebbe uno di quegli allarmi a festa che si vedono nei film quando il protagonista sbanca le slot machine; complimenti, Cappello, hai vinto tutto: hai fatto la domanda del secolo.

Il problema, però, a me resta, così come tutti i miliardari del mondo continuano a spaccarsi la schiena sotto alle solite croci, amore amici tasse e salute; io che cazzo vi dico, adesso?

«Ema,» biascico, tentando di arginare i danni. «Di Ema mi ricordo.»

Ed Ema fa un passo avanti, gli occhi blu sgranati come palle da golf. «Di me ti ricordi? Solo di me?»

Brutta bestia, la verità.

Cappello si copre la bocca con una mano e si butta all’indietro contro lo schienale della sedia; Frontino strizza la barra di plastica ai piedi del mio letto con così tanta forza che le nocche gli sbiancano. Ema mi si butta addosso, abbracciandomi stretto, e mi dovrei imbarazzare, ma mi sento solo più tiepido e vagamente più calmo, e quando gli batto una pacca imbaranata in mezzo alle spalle lui strizza ancora un po’, ed è come se la mia gabbia toracica se l’aspettasse, perché mi sono contratto in anticipo.

Ema. Ema lo conosco.

«Ok,» dice Frontino, mollando di scatto il letto e andando a prendersi uno degli ovetti Kinder in miniatura. «Ok,» ripete, a bocca piena, e giocherella con l’incarto. «Quindi hai-un buco di memoria abbastanza grosso.»

«Abbastanza,» convengo, da sopra la spalla di Ema. Ho come la sensazione che non mi lascerà andare per un bel pezzo. «Ma la dottoressa dice che può succedere. E siccome non ho troppi problemi a ricordare le cose a breve termine, dovrebbe essere passeggero.»

«Ok,» ripete Frontino, e, onestamente, se Ema ora andasse ad abbracciare lui, sarei più contento.

«Io sono Ale,» dice Cappello, sottovoce. «Alessandro Merli. THG, Takagi.»

«Hai un sacco di nomi.»

«Non fare lo stronzo,» mi rimorde, ma sorride, e Takagi mi piace.

«Francesco,» dice Frontino, indicandosi. «Strano, cioè.»

Annuisco, ed Ema mi molla, si siede sul letto tirando su col naso. «Thema, se non ti ricordi.»

«Ok,» dico. «Ok. Strano, Thema, Takagi, e Grido.» Mi sfugge un sogghigno. «Possiamo metter su una boy band.»

C’è da dire, in onore di Strano, Thema e Takagi, che me la mettono giù con la dovuta cautela, ma resta il fatto che, come non esiste un modo decente di dire ad un amico ‘yo, guarda che non mi ricordo più com’è che ti chiami’, così non è materialmente possibile annunciare ad un uomo che negli ultimi quindici anni ha fatto parte della boy band più longeva e affermata della storia musicale del suo Paese, e sperare che l’uomo suddetto riemerga dalla rivelazione con la propria dignità intatta, o quantomeno in buona salute.

Mi sono categoricamente rifiutato di ascoltare qualche nostro pezzo, anche se più sto intorno a questi tre stronzi e più mi si affollano sul retro del cervello motivetti pop su cui spero, prego e mi auguro di non aver mai rappato in pubblico in vita mia, e faccio ancora fatica a processare le cifre astronomiche che Takagi mi snocciola, di copie vendute e soldi incassati, visualizzazioni su YouTube - suppongo sia il nuovo nome di MTV, - e, soprattutto, di pubblico ai nostri concerti.

Non ci credo, non ci posso credere.

«Mi prendi per il culo, zio.»

Ma Takagi scuote la testa, e con un sorrisetto mi sfotte, «Quello è un onore che lascio a Thema.»

«Ehi!» insorge subito Thema, lanciandogli una delle mie leggerissime ciabattine da degente. Takagi la schiva facilmente, e ride, solo che.

«Non stiamo insieme, vero?» domando a Thema, e se non altro, adoro vederlo diventare color porpora e annaspare nella foga di negare, e giurare e spergiurare che no. Solo che, il mio dubbio era onesto. Perché Thema è bello, era bello quindici anni fa come me lo ricordo, e io non sarei mai andato a rompergli le palle, quella prima sera di quel primo litigio, se non avessi avuto una mezza cotta per quei bicipiti incredibili che aveva, che ha ancora.

Però dev’essermi passata, perché mi sembra sincero mentre si sbraccia e insiste che non c’è mai stato niente tra me e lui.

Solo che.

«Hai un tatuaggio lì,» dico, indicando l’interno della sua coscia fasciata dai jeans scuri. Thema ci piazza su una mano come se avesse bisogno di coprirsi, ma mi basta chiudere gli occhi e strizzarli forte per vederlo: una traccia d’inchiostro sottile sulla sua pelle che è a tratti bianca e a tratti abbronzata. «È un-un serpente? Una specie di S?»

«Una S, sì,» dice Takagi, lentamente. «Lu’, come-non puoi averlo visto ora. Te lo ricordi?»

Un attimo ancora e l’immagine che stavo cercando di ricostruire attorno al tatuaggio - il ricordo di quando, dove e come diavolo l’ho visto, quel tatuaggio maledetto, - mi si sgretola dietro le palpebre. Scrollo piano le spalle.

«Me lo ricordo. Ma non è molto nitido.»

«Ma già il fatto che te lo ricordi è un buon segno!» ride Strano, sbattendo le mani entusiasta; non è che abbia torto, in effetti. Mi fa solo un po’ orrore che la mia guarigione sia cominciata per via di un tatuaggio sull’interno coscia di Thema, Cristoddio.

Mi viene in mente che il mio nuovo-non-nuovo status di re del pop italiano potrebbe permettermi di fare due chiacchiere col tizio che signora ancora un’autorete e suo figlio va a casa una salma.

Devo avere in faccia un sorriso davvero, davvero cretino, perché Takagi mi tira addosso una pallottola di stagnola di Ferrero Rocher.

Acconsento, alla fine, a vedere un video, perché la dottoressa dice che potrebbe farmi bene, e usa una metafora molto commovente di cose tenute sottochiave e portoni da spalancare e insomma, mi convincono, e Strano sfodera il suo iPhone e io gli dico, «Niente audio.»

Non voglio sentirci. Proprio mai nella vita, se è possibile.

Loro protestano un po’, forse persino si offendono, ma gli faccio la mia miglior espressione da cucciolo bastonato, e quella, sommata alla mia faccia letteralmente pesta, sommata all’amnesia, è abbastanza da portarli al collasso, credo.

«Vabbè,» mugugna Strano, e si mette a smanettare con lo schermo dell’iPhone e so esattamente cosa sta facendo: sta ravanando tra i file della sua libreria multimediale. Ok, ce la posso fare.

Mi viene in mente, allora, che nessuno di loro mi ha ancora dato notizie di Ale - mi viene in mente che ho avuto un incidente e che sono quasi morto e che ero a Lecce - mi accorgo di stare tremando, quando prendo il telefono dalle mani di Strano, ma strizzo gli occhi e mi concentro sul video e tento di non pensarci.

C’è una DeLorean volante e una ragazzina che s’intrufola in una specie di archivio futuristico, e ci siamo noi, noi quattro, per davvero ’sti tre cretini che ho intorno ed io, Gesù Cristo, siamo cantanti davvero - e siamo davvero conciati in maniera ridicola e ho bisogno di stoppare il video su un primo piano di Thema perché, mio Dio, sono codini, quelli?

Il cretino non apprezza la mia risata, e mi dà un pugno sul braccio, ma senza neanche provare a farmi male; nell’inquadratura successiva ci sono pure io, e Takagi che aveva qualcosa come dieci chili in più e molta meno barba, e gli dico, «Non raderti mai, Taka,» e lui fa un sorriso gentile che mi fa capire che ho detto la cosa giusta.

La ragazzina viene tirata sotto da un’auto della sicurezza ma io riavvio il tempo col mio magico bracciale del potere - «Sul serio?» rido, e, di nuovo, Thema non apprezza, - e allora lei riesce a tornare nella stanza; il paradosso temporale non basta perché Thema-nel-video si sia cambiato quell’imbarazzante canotta bianca, purtroppo, ma devo dire che io non sto tanto male coi capelli lunghi e tirati all’indietro.

«Com’è che mi sono rasato a zero?» chiedo. «Siete dei pessimi amici, non me lo dovevate lasciar fare.»

Nel frattempo, per salvare la ragazzina mi sono fatto sgamare dalla sicurezza mentre giochicchiavo con i loro video di sorveglianza, ma so già come andrà a finire: butto il cattivo giù da una balaustra grazie all’upgrade del magico bracciale del potere, Thema mette fuori combattimento l’agente bona che aveva puntato una pistola alla testa di Takagi, la ragazzina non viene investita, porta a compimento la sua missione, si rivela essere bionda e noi quattro continuiamo a cantare e far gesti espressivi alla telecamera.

Fermo il video, perché non ho bisogno di guardare oltre.

«Ok,» dico. «Le emozioni non muoiono mai.»

L’orario delle visite finisce, ma non c’è testardaggine al mondo anche solo vagamente paragonabile a quella di mamma Aleotti, e la dottoressa capitola presto, acconsentendo a che tutti e quattro - mamma, Thema, Strano e Takagi - restino in camera con me ancora un po’.

Vengono a staccarmi dalla flebo, dopo una mezz’oretta, mi caricano su una sedia a rotelle e mi portano nel seminterrato dell’ospedale per una TAC, o qualcosa del genere, e io non sono un tipo tranquillo, perciò se mi vedi che sto zitto e a cuccia, di sicuro sto tramando qualcosa.

E infatti sto tentando di mettere insieme il coraggio di parlare, e non appena mi tirano fuori dalla macchina, e sono sicuro che la dottoressa e io siamo soli, le dico, «Sto meglio.»

Lei mi guarda, fa un sorriso. «Sì, stavo per dirlo io. Il rigonfiamento si sta riassorbendo senza complicazioni.»

Scuoto la testa, che un pochino mi duole, ma suppongo che la dottoressa lo sappia. «Mi ricordo,» mormoro, e, naturalmente, la dottoressa è sorpresa dalla mia faccia da funerale.

«È una buona notizia, signor Aleotti.»

Buona, splendida, magnifica, fantastica.

Mentre la dottoressa mi spinge lungo il corridoio blaterando cose mediche che suonano come rumore bianco alle mie orecchie, l’unico pensiero nella mia testa è che mi ricordo. Poche cose, ma più ci penso e più diventano nitide, e, chiaro, non è che mi alletti l’idea di buttare nel cesso quindici anni di vita, ma c’è roba, là in mezzo, che preferirei non ricordare.

Per esempio l’incidente. Per esempio tutti i funerali a cui sono stato. Per esempio - non lo so più, ma ho una paura fottuta.

Di sopra, è rimasto in camera solo Takagi.

«Ho spedito tua madre e quei due idioti a cercare un albergo,» dice, alzando gli occhi dal libro che ha in grembo. «Oh, dottoressa. Come è andata?»

«Ci sono progressi incoraggianti,» dice lei, e io alzo gli occhi al soffitto e mi riarrampico sul letto, perché, a quanto pare, è l’unica cosa che posso fare. Non mi lasciano manco leggere o guardare la tele, bastardi.

La dottoressa si congeda, accennando addirittura un inchino aggraziato; Takagi mi guarda e io mi ricordo di quando si è fatto quel tatuaggio sul polso, quanto Cristo ha sofferto sotto le mani di, come si chiamava il tatuatore, Marco? Qualcosa del genere. Me lo ricordo.

Chiude il libro con un tonfo, si sfila le scarpe e piazza i piedi sul letto, incrociandoli alle caviglie.

«Come ti senti?» mi chiede, giusto mentre io gli dico, «Dimmi di Ale.»

Takagi china la testa per un attimo, e quando flette le dita so che è perché sta cercando la visiera di un cappello da calcarsi sulla fronte. C’è chi si spinge gli occhiali su per il naso e chi si gratta dietro l’orecchio, e Takagi si tira giù il cappello.

«Che vuoi sapere?»

Vita, morte e miracoli. «Mi ricordo che è successo qualcosa,» dico, sparando a casaccio nel buio. «Ma non mi ricordo cosa. E poi l’incidente.»

Takagi inarca le sopracciglia, lo so, lo so che non l’ho convinto neanche per sbaglio, ma spero capisca che sono nella merda fino al collo. Spero capisca che non posso dirgli, ‘guarda, mi sa che ho litigato di brutto con mio fratello, sai quello che occasionalmente mi scopa, non è che me lo puoi confermare?’, perché quella è un’altra cosa da aggiungere alla lista infinita di robe che non esiste maniera umana di dire.

Incomunicabilità tre, Grido meno mille.

Non lo so se c’è una ragione per cui mi ricordo le cose di cui mi ricordo, nell’ordine in cui me le sto ricordando; il tatuaggio di Thema e quello di Takagi e le canne smezzate con Strano i pomeriggi a Milano, il colore delle pareti del cesso di casa mia, e sotto quante cartelle nel portatile è sepolta quell’unica foto del cazzo di Ale che mi sono concesso di tenere salvata. Non lo so perché adesso mi ricordo dell’infornata di lasagna che mi ha fatto mamma quando siamo tornati da Toronto, anche se ancora non riesco a ricordarmi perché eravamo andati a Toronto.

Non lo so.

Mi sa che nemmeno Taka lo sa, ma magari mi può dare una mano. Mi fa bene, stargli vicino; certamente mi fa più bene che continuare ad arrovellarmi il cervello tentando di richiamare la sensazione delle mani di mio fratello in mezzo alle gambe.

«Avete litigato,» mormora Takagi, guardandomi in faccia come se mi stesse contando i respiri. «Non è stato-non so bene perché, in realtà. Ma era una cosa pesante, il giorno del tuo compleanno. Ci siamo ubriacati, la sera, e poi non lo so se vi siete parlati, ma mi hai chiamato un paio di giorni dopo per avvisarmi che eri in viaggio.» Sospira, si strofina una mano sulla nuca. «E poi due settimane e mi chiama tua madre per dirmi che sei finito in ospedale.»

Abbiamo litigato, io e Ale; non riesco a ricordarmelo ma posso immaginare, perché se mi concentro sento l’eco di un miliardo di altri litigi: e la Play, e chi si è finito il prosciutto, e quanto cazzo ci resti chiuso in bagno, e non ne posso più di vedere Thema che ti si struscia addosso, e ma che regalo del cazzo, e ma avevi detto che mi venivi a prendere alle otto e ora sono le dieci meno un quarto.

Vaffanculo, baby bro, mi dice l’incisione sul retro dell’iPod che Ale mi ha regalato, e anche se non mi ricordo il momento preciso in cui mi ha messo in mano il pacchetto e mi ha guardato scartarlo, l’iPod è qui comunque. E anche se non mi ricordo il momento preciso in cui ho baciato mio fratello per la prima o la seconda o la centesima volta, la voglia di averlo, che mio fratello sia mio, è fissa qui comunque.

E anche se non mi ricordo cos’è che mio fratello mi ha detto per farmi infuriare tanto che fino a Lecce sono andato a nascondermi, e anche se non mi ricordo cos’è che ho detto io, ad Ale, di tanto brutto, lui qui non c’è comunque.

Non è venuto a trovarmi.

Non so perché mi sveglio, per una volta che non stavo avendo un incubo né niente; non sono mai nemmeno stato uno col bioritmo puntuale e preciso e svizzero, ma mi sveglio ed è mattina presto - secondo l’orologio sul comodino, è proprio il genere di orario infame che bestemmiano gli operai, per esempio. Sono ancora dolorante, ammaccato e stanco; sono la vecchia Centoventisei di Spazio, in pratica, e oh, aspetta, me la ricordo davvero, quella macchina. Non dovrei ricordarmela, sono sicuro che ieri a quest’ora non me la sarei ricordata mai, e invece me la ricordo e mi ricordo pure che ci abbiamo visto The Mask al drive-in, io e Ale, un paio di giorni prima della finale dei Mondiali 2006. Che ha vinto l’Italia.

Mi ricordo, e la testa non mi fa neanche troppo male.

La porta della stanza si apre con un cigolio leggerissimo, e se non fosse tutto così dannatamente silenzioso non me ne sarei neanche accorto, e invece. Me ne accorgo, e guardo Ale, mio fratello, intrufolarsi dentro mentre fa smorfie rassicuranti a qualcuno di fuori, probabilmente un’infermiera. Non è orario di visite, credo, e Takagi è andato via ieri sera, o meglio, ho dovuto cacciarlo, perché fosse dipeso da lui, sarebbe rimasto a dormire su quella seggiola di plastica.

Ale si richiude la porta alle spalle e si fissa i piedi e secondo me sarebbe capace di starsene lì impalato per tre ore, quindi gli dico, «Uhm, salve. Cerchi qualcuno?»

Lui alza la testa di scatto, piantandomi in faccia due occhi sgranati; trattiene il fiato, quando s’accorge del mio aspetto orrendo, e fa una smorfia indefinibile, prima di avvicinarmisi con cautela.

«Lu’,» mormora. «Non-non mi riconosci?»

Cristo, è così spaventato che quasi mi viene voglia di continuare la recita. Peccato che mamma non mi abbia fatto così stronzo fino al midollo.

Gli faccio un sorrisino. «Ciao, Ale,» dico, e lui sembra sgonfiarsi, e si rilassa, e ringiovanisce di dieci anni. Ha comunque tutta l’aria di uno che s’è appena fatto Milano-Lecce in auto senza uno straccio di sosta, e lo so che non dovrei gioirne, ma al diavolo, sono contento che gli importi abbastanza di me da fare una pazzia sconsiderata del genere. (Con ogni probabilità è venuto in aereo, figuriamoci, ma sta comunque di merda e mi è concesso fantasticare.)

«Mi hai fatto spaventare, bimbo,» dice, scostando la sedia con un calcio e lasciandocisi cadere sopra. Io mi raddrizzo un po’ contro i cuscini, e non so bene se ho più voglia di prenderlo a sberle o di baciarlo.

Non mi ricordo quand’è che ho cominciato a volere Ale così, in questo modo tanto diverso da quanto sarebbe appropriato - ma non c’entra l’amnesia, per una volta; è proprio che non è successo in un momento preciso, che un attimo prima gli volevo bene e un attimo dopo volevo schiacciarmi addosso a lui e sentirlo gemere il mio nome. È che Ale è Ale e io, per come sono cresciuto, sono di Ale. Voglio l’attenzione di Ale, sempre; voglio le mani di Ale addosso, voglio che Ale mi mormori nell’orecchio battute cretine e sconce, voglio che mi abbracci perché non ha nient’altro da fare, voglio essere tutto quello che Ale vuole. È il mio fratellone e il mio più vecchio amico e il mio idolo, ed è ognuna di queste cose da sempre; e io da sempre voglio stargli vicino, il più vicino possibile.

Però adesso Ale non mi tocca, a malapena mi guarda.

Mormora, «Mi spiace non essere venuto prima,» ma io non voglio sapere niente; non voglio sapere cosa stava pensando, perché ha fatto venire mamma e i ragazzi da soli, come ha potuto. Non voglio sapere nemmeno perché s’è deciso a scendere, alla fine.

«Sto bene,» dico, quindi, tentando di fare il noncurante. «Mi sto riprendendo alla grande dalla botta in testa, tranquillo.»

Ale sospira, sbuffa, si preme i palmi delle mani contro gli occhi serrati. Alla fine mi guarda, e per favore, Ale, per favore, non smettere mai.

«È colpa mia?» domanda in un soffio, e quasi mi viene da ridere.

«Certo che no, razza di cretino,» gli dico, e gli tirerei una sberla se non sentissi le braccia pesanti come macigni. «Certo che no, Cristo santo, ma cosa vai a pensare.»

«Ma che ne so,» sbotta Ale, buttando le mani per aria con un misto di disperazione e confusione. «Te ne vai sbattendo la porta, non ti fai vivo per settimane, e la prima cosa che scopro è che sei in ospedale.»

«Sto bene,» gli dico, e alzo gli occhi al soffitto, perché questa linea di pensiero è diventata vecchia nell’istante in cui ha aperto la bocca. Ale, sei un deficiente; come può venirti in mente il dubbio che io abbia tentato di ammazzarmi per via di un’idiotissima lite con te?

D’accordo, ti amo, e d’accordo, ogni volta che mi rifiuti non è che mi viene voglia di organizzare una festa e distribuire cappellini colorati e stelle filanti, ma non essere assurdo. Sei un dramma umano già così, l’ultima cosa di cui hai bisogno è avere il tuo fratellino sulla coscienza, e non so perché non riesce a farti breccia nel cervello il semplice, naturale concetto che mai nella vita farei qualcosa per ferirti.

Mai nella vita, Ale, non importa quanto mi rompi le palle, e non importa quanto sono incazzato con te e non importa quanto posso avere ragione; non sono capace di farti così tanto male. Siamo andati tutti e due correndo dietro alle ragazze per tentare di darci una verniciata di normalità, ma pure quello l’abbiamo fatto mano nella mano, quindi non conta, no?

E sono felice, alla fine, perché sei qua: perché ti sei sposato, e quello è stato un colpo basso e meschino che non mi aspettavo, anche se mi sono messo il completo e sono venuto in chiesa e ho applaudito ed ero sincero quando ti ho fatto le congratulazioni; ti sei sposato, e hai provato a non cercarmi, e non ce l’hai fatta. E quindi so che sei incapace quanto me di volermi del male. Che se ce l’avessi avuto tu, un buco nella memoria e una mia canzone nelle orecchie, ti saresti innamorato pure tu di una voce senza nome.

Mi prendi per mano, e mi guardi, e lo so che non mi chiederai scusa e che non ne parleremo mai più nella vita e che andremo avanti così, a spallate, a baci al buio e a nascondere i segni dei morsi sul collo, ma ti amo, Ale, e ne vale la pena. Peggio ancora, non posso farne a meno. Peggio ancora, non voglio farne a meno.

«Scusa,» mormori, e mi sorprendi, quasi mi spaventi, ma sono ridotto a uno straccio in un letto d’ospedale, sono quasi morto, non mi vedi da settimane, ci può stare che ti ammorbidisci e, per una volta, mi dici quello che voglio sentire senza che io debba impazzire per estorcertelo. «È che-lo sai come sono. Mi spavento. Bimbo, sei-sei troppo, per me.»

«Cazzate,» sbuffo, con un’ombra di sorriso e una, due, trecento lacrime che mi accoltellano il fondo degli occhi.

Sono della misura esatta per te, Ale. Lo sai.

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