[RPF] Not much chance for mistakes this time around

Aug 19, 2012 10:22

Titolo: Not much chance for mistakes this time around
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Borriello/De Rossi, Totti
Rating: PG14
Conteggio Parole: 4717 (fidipu)
Avvertimenti: slash, angst, future!fic, angst nel senso che C'E' SBORRI CHE ANGSTA SI' GESU' SALVATEMI DA ME STESSA
Prompt: Summer Sunshine @ Zodiaco!challenge di fiumidiparole.
- #04 - And when it changed, you didn't know you belong @ diecielode. [tabella]
Note: Dunque, salve. Questa è parte di una raccolta (How sad and bad and mad and sweet, titolo che è una remasterizzazione di un verso scritto dal signor Robert Browning), che prevede sei storie in totale (tra un minuto pubblico anche la seconda #thatshowiroll), e che ha a che fare, a grandi linee, col tema della nostalgia. Yep, sempre allegri da questa parte dell'universo. Un'altra cosa che c'è da sapere è che sono mesi che non scrivo così tanto e praticamente tutto di fila, per cui 'sta roba potrà tranquillissimamente risultare incoerente, scema, confusionaria. Inoltre, non ridetemi dietro per lo Sborri!angst, è un problema serio.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

The Greek word for “return” is nostos. Algos means “suffering”.
So nostalgia is the suffering caused by an unappeased
yearning to return.
Milan Kundera, Ignorance



~ Not much chance for mistakes this time around.
How sad and bad and mad and sweet, #01

C’è ancora chi lo ferma in strada per chiedergli una foto o un autografo, ma perlopiù la gente fa finta di non riconoscerlo, o non lo riconoscono e basta. Le ragazze, invece, soprattutto la sera, soprattutto nella penombra bluastra dei locali, ancora gli fanno la fila attorno, ma se c’è una cosa che Marco ha imparato è che non importa quanto in basso precipiti, e quanto poi ti metti a scavare; le ragazze, certe ragazze, non mancano mai.

Lui invece vorrebbe cose diverse. Vorrebbe un’amica con un terribile senso dell’umorismo e che magari ogni tanto gli tiri un cazzotto, tanto per ricordargli che è vivo; vorrebbe un tifoso, - di una fede qualunque, - che gli sorrida e gli dica, grazie per quel gol lì, per quella partita che senza di te avremmo perso.

Marco è sicuro di aver segnato un’infinità di reti, e di aver vinto tante partite, ma è facile confondere sogni e ricordi e allora Marco può solo tentare di non pensarci, perché non vuole impazzire del tutto.

Le stelle cadenti del dieci di agosto, le candeline sulla torta di compleanno, le macchine gialle e l’orologio che segna le 11:11 - non c’è niente che funzioni, e Marco ha inscatolato da un pezzo tutti i desideri, tutte le voglie che ha. Li ha messi via, e firma autografi per gente che gli chiede perché non è rimasto al Napoli una stagione in più, gente che si ricorda come fosse ieri del suo rigore nella finale dei Mondiali 2006.

Marco offre da bere a ragazze che, più che guardare lui, guardano alle sue spalle e a destra e a sinistra, cercando il riflesso delle luci stroboscopiche su una lente, il bagliore rosso sangue di un laser per la messa a fuoco.

Questo è Marco, da un paio d’anni a questa parte; forse, Marco è stato nient’altro che questo fin dal primo momento: sorrisi di plastica e cartone, sciocchezze professate come verità evangeliche e nessuna via d’uscita.

Col senno di poi, forse avrebbe dovuto smettere di giocare a trent’anni, quando la sua carriera era ancora quasi dignitosa. Ma la dignità c’entra poco, pochissimo, quasi nulla, col mestiere di calciatore; gente come Del Piero e Zanetti e Gerrard è nata con la camiseta cucita addosso, e Marco non ha la minima idea di come ci si senta, ad avere quella vocazione di santità.

Certe volte li invidia, certe volte no, e soprattutto Alex, perché guarda come è andata a finire, la sua grande storia d’amore. Marco è sempre stato bravo ad ammonticchiare insieme giustificazioni perfettamente ragionevoli a posteriori, e se qualcuno si prende la briga di chiedergli perché diavolo non s’è mai fermato, sistemato, incastrato da qualche parte del mondo e tirato avanti tranquillo, monogamo e sereno sotto lo scudo di una squadra sola finché le ginocchia gli avessero ceduto, lui parla di quello, di quanto c’è rimasto male Alessandro Del Piero quella volta che l’hanno sbattuto fuori da casa sua senza troppe cerimonie.

Siccome alla fine va tutto in malora, dice Marco, è meglio trincerarsi dietro una montagna di soldi, e non guardare in faccia a nessuno e pigliarsela a male con gli allenatori e sorridere in conferenza stampa ogni volta che ti mettono in mano una maglietta di un colore diverso; l’affetto e la lealtà e la storia non hanno il minimo senso. Ha senso l’amicizia, quella sì, hanno senso le serate in trattoria e sbronzarsi come un ragazzino in libera uscita dopo la prima vittoria a San Pietroburgo; hanno senso le persone, mica gli stemmi cuciti sulle maglie, e Marco con le persone è bravo, bravissimo, e con le idee un po’ meno, ma non gli dispiace. Le idee sono stronzate, in fin dei conti.

Sua madre non è per niente contenta, ma è una madre, e giudicare e lagnarsi delle scelte di vita di Marco è un po’ il suo mestiere, perciò lui la bacia sulla fronte e le promette che cambierà, che le darà una valanga di nipotini, non appena trova una brava ragazza.

«Vir’ ’e trua’ pace,» lo ammonisce lei, ogni volta più severa, e Marco prende il consiglio e lo mette via insieme a tutto il resto delle cose impossibili che potrebbe realizzare se la sua vita fosse un film a lieto fine.

La pace, scopre Marco, non è giocare in qualsiasi campionato abbia una squadra disposta a rimpinzargli il conto in banca; la pace non è trascinare e trascinare e trascinare la carriera finché quella non diventa sottile come una foglia e fragile come un bicchiere di cristallo. La pace non è lasciare che ragazze con la metà dei suoi anni gli si struscino addosso; la pace non è imparare otto lingue e ancora non avere la parola giusta per descrivere quello di cui sente la mancanza.

Ma magari la pace lo aspetta nella prossima città, nel prossimo spogliatoio, nella prossima accozzaglia incomprensibile di vocali e consonanti. E allora la soluzione è continuare a giocare, continuare a girare, andare avanti.

Alex è andato avanti. Quando si sentono, - perché si sentono, perché Marco è bravissimo ad essere un amico e Alex ha bisogno di tenersi strette più persone che può, - Alex sembra felice, ma è naturale, non c’è da stupirsi, perché lo stronzo, oltre che con addosso la maglietta della Juve, è nato con la pace incorporata in petto. C’è bisogno che succedano cose impensabili, per riuscire a scuotere Alex. Alex è la roccia che sostiene Atlante che sostiene il mondo, Marco è arrivato a capirlo dopo avergli ronzato attorno per una settimana.

Marco si è posto Alex come modello, e fa tutto il possibile per essere l’esatto contrario, perché è l’unica cosa che gli riesca passabilmente bene.

La verità è che Marco certe volte pensa che, durante il suo primo anno alla Roma, ci era arrivato vicino, vicinissimo, a quello stato di grazia; e poi naturalmente è andato tutto a puttane, perché è la vita di Marco, si diverte a non dargli pace.

Ma neanche lì era una questione di idee e cuore e puttanate aleatorie: era più la risata di Francesco e ficcargli le dita nelle costole mentre quelli di Sky tentavano di intervistarlo; era la soddisfazione di avere la Capitale ai suoi piedi, davvero, e l’ebbrezza di essere un figo stratosferico mentre Belen annaspava. Era convincere Daniele a non farsi la barba, e accompagnarlo a scegliere un regalo di compleanno per Gaia, e tirargli addosso i calzini umidi e disgustosi dopo un allenamento particolarmente faticoso e seguire con la punta della lingua il contorno di quell’orrendo tatuaggio sul braccio. Era per via di tutti i passaggi che gli ha scroccato e di come Daniele si lamentava di tutto e poi il mercoledì veniva a svegliarlo portandogli la colazione e per via del fatto che Marco non ha mai scoperto dov’è che riuscisse a scovare quei cornetti crema e amarena assolutamente perfetti.

Roma era l’abbraccio a bordo campo e il sogghigno asimmetrico di Erik e adesso Marco guarda qualche partita, ogni tanto, e non riconosce nessuno e non è la stessa cosa di quando gli capita una replica di Juve-Milan e non c’è traccia di Quagliarella o Ibra o Ringhio. Dovrebbe essere uguale, dovrebbe essere la stessa fitta di nostalgia che gli spezza un po’ il fiato pure per certi incontri francesi o tedeschi o russi o americani, e invece è un po’ peggio, ma Marco ha smesso da tempo di porsi certe domande.

Marco cerca pace, ma in realtà neanche quello; Marco è contento di fare la trottola su e giù per il globo, tanto i soldi non gli mancano e la gloria è potersi permettere tutto quello che vuole e le medaglie di cui ha bisogno se le porta a spasso nel portafogli. Negli anni ha riscoperto una passione mai veramente sopita per gli orologi da polso, e la sua assistente personale - perché ha un’assistente personale, adesso; Giulia, e si sono saltati addosso a vicenda giusto un paio di volte, quindi la loro è una relazione molto professionale, - ha il fattorino di DHL tra le chiamate rapide perché Marco spedisce pacchetti in continuazione, regali più o meno cretini e più o meno costosi per la galassia di persone che conosce, che considera suoi amici, di cui gli piace non dimenticarsi.

Viziare la gente è la sua nuova attività preferita, davvero. Non passa giorno senza che Marco non abbia trovato una sciocchezza che deve assolutamentissimamente far avere al Gila, o a Sammy, o a suo fratello, e quando lo chiamano, o gli arriva un sms o un’e-mail o certe volte addirittura una lettera, di carta, proprio scritta a mano, o un regalino di risposta, Marco è la persona più felice del mondo. Marco è importante.

È un’altra cosa che sua madre non approva, per qualche motivo; Marco le sorride, le manda un bacio attraverso la webcam e promette che il prossimo regalo sarà per una ragazza, per una brava ragazza, che andrà in giro per Central Park, domani, e inviterà a prendere un caffè la prima ragazza che vede seduta su una panchina a leggere.

«A leggere un libro vero, non uno di quegli iPad infernali,» specifica, quando il cipiglio di sua madre non si ammorbidisce. «So’ sempre brave ragazze, quelle che leggono, no?»

Giulia si affaccia in soggiorno per ricordargli che tra un’ora c’è quella cena di beneficenza, e lui deve ancora farsi la doccia.

«Ti voglio bene, ma’,» dice Marco, con una smorfietta di scuse.

«Trova pace,» replica sua madre, vagamente minacciosa, e Marco alza gli occhi al soffitto, esasperato, ma sta sorridendo.

*

Marco si arrende un pomeriggio caldo e appiccicoso in cui non trova nulla di decente in televisione, il take-away del suo ristorante cinese preferito è stranamente insapore e fuori la gente griglia spiedini sulle grate dei marciapiedi, perché nessuno ha avvertito il sole che settembre è iniziato già da una ventina di giorni e forse sarebbe il caso di calmarsi un po’.

Giulia gli trova un volo per l’indomani in meno di dieci minuti, e mentre la stampante sputa fuori la carta d’imbarco, lei sta già tirando fuori dallo sgabuzzino un paio di valigie, e Marco dovrebbe prendere in seria considerazione la possibilità di darle un aumento, o di sposarsela, una volta per tutte.

«Non credo che Mila sarebbe entusiasta dell’idea,» dice Giulia, e Marco fa una smorfia. Mila, la stupenda modella con cui Giulia ha una relazione che fa l’altalena tra il grandioso e il catastrofico ormai da due anni e mezzo, e che senza alcuna ragione razionale detesta Marco con lo stesso fervore con cui Marco detesta i peli superflui.

«Sarebbe anche ora di lasciarla, sai,» replica Marco, mordicchiando la cannuccia da cui è mezz’ora che beve tè freddo. «Voglio dire, non sa neanche giocare a pallavolo.»

Per ripicca, Giulia gli riempie il bagaglio a mano di mutande, e Marco se ne rende conto soltanto al metal detector, quando è costretto a rovistare in mezzo a boxer leopardati e slippini di seta bordati di pelliccia per raggiungere l’accendino a benzina sepolto sotto tutta quella vergogna.

Qualcosa di positivo, comunque, ne viene fuori: la guardia giurata che lo perquisisce ha le mani un po’ lunghe, e quando si piega sulle ginocchia per controllare che Marco non nasconda un coltellaccio da macellaio negli stivali, gli fa un sorriso asimmetrico da sotto in su.

Marco si morde la lingua per evitare di fare battute cretine, tipo che la pistola dovrebbe cercargliela nelle mutande e, oh, guarda, dopotutto quella non è una pistola; ci guadagna, poi, un glorioso quarto d’ora nel bagno del McDonald’s al duty free, e quindi può aggiungere uomo in divisa armato di fucile assolutamente vero alla lista di persone che si sono date da fare tra le sue cosce.

*

Francesco apre la porta, lo guarda, gli tira un cazzotto sul mento. Marco non può dire di non esserselo meritato, e fa un sorriso mentre si massaggia la mandibola offesa.

«Levati quella smorfia dalla faccia o te la tolgo io a schiaffi,» dice Francesco, gli occhi sgranati come se avesse davanti un fantasma. Marco alza le mani in segno di resa e ridacchia.

«Ciao, France’.»

«Ma fottiti. Oh Dio mio, Marco, ciao,» soffia, e gli si butta addosso per abbracciarlo.

È per questo che Marco, di tanta gente che conosce in città e non vede da anni, ha deciso di presentarsi da Francesco; proprio da Francesco, quando casa di Daniele è a due isolati di distanza dall’albergo dove Giulia l’ha spedito.

Marco è venuto da Francesco perché Francesco è la cosa più vicina ad un migliore amico che uno spogliatoio gli abbia mai regalato. Tra una lagna e un caffè acquoso alle macchinette di Trigoria e un’uscita troppo tardi la sera prima di una partita, Francesco è diventato importante come Fabio, come Piergiorgio; Francesco è un fratello, e non importa quanto sia incazzato e ferito e amareggiato, non importa quanto sei cretino, un fratello non può scaricarti come se nulla fosse.

Daniele, con ogni probabilità, e con tutte le ragioni del mondo, gli avrebbe sbattuto la porta in faccia; Francesco lo abbraccia come se stesse annegando e Marco ride contro la sua spalla e lo stringe troppo forte.

«Già se sperava ch’avessi tirato le cuoia,» dice Francesco, facendo un passo indietro, ma si tradisce con il sorriso cretino che gli illumina il viso, e poi lo invita a entrare, ed è quel passo dallo zerbino all’interno della casa di Francesco che tranquillizza e spaventa Marco più di tutto. È tornato. «Tra un po’ Ilary e i bambini tornano da scuola, Marco, se se mettono ’n testa de menatte sappi che io nun te difendo.»

Marco ride.

«Sii buono dai, oggi ne ho prese abbastanza,» mugola, sporgendo il labbro inferiore e sgranando gli occhi nella speranza di fargli pietà.

Francesco scuote la testa, gli fa strada verso la cucina.

«De qua, daje, ti piglio un po’ de ghiaccio prima che me móri,» dice, allegramente. Marco lo segue in silenzio, sorridendo tra sé, e gli fa piacere vedere che casa di Francesco non è cambiata poi tanto, dall’ultima volta che c’è stato.

Alle pareti vede appeso qualche ritaglio di giornale più recente, in mezzo a quelli che ha letto così tante volte da poterli citare a memoria, e una sfilza di foto delle vacanze in Australia e in Messico e in Cina e degli ultimi cinque compleanni dei bambini, di cui Marco sa tutto perché Francesco gliene ha parlato per ore a telefono, mandandogli a fuoco sia l’orecchio che la bolletta, raccontandogli tutto fino al più piccolo dettaglio; c’è una nuova collezione di pietruzze di vetro opalescente in bella mostra su una mensola, un disegno particolarmente carino di Chanel incorniciato sopra il camino, e c’è una grossa testuggine di legno accanto al telefono in corridoio. Ci sono un sacco di libri, la maggior parte di favole illustrate e personaggi dei cartoni animati e topi detective, sparsi a casaccio su qualsiasi superficie orizzontale.

C’è una foto di Daniele e Francesco e la Coppa Italia.

E poi, in cucina, il frigorifero è tappezzato di cartoline tenute su da magneti a forma di frutta, di macchinine, di lettere dell’alfabeto. Marco sorride, finché non si rende conto che le cartoline gli sono familiari; sorride, finché non si rende conto che tutte, tutte quelle cartoline le ha spedite lui.

«France’,» gracchia, mentre Francesco si china ad aprire il freezer.

Francesco lo guarda da sopra una spalla, da sopra lo sportello del congelatore; Marco si morde le labbra, fa un gesto vago in direzione del frigorifero. Francesco arrossisce. Tira fuori una scatola di piselli surgelati e per un momento se la palleggia tra le mani, incerto.

Chiude il freezer con una pedata, poi, si avvicina a Marco e gli schiaffa i piselli contro la faccia con un po’ troppa violenza.

«Potevamo mica buttarle,» mugugna, e Marco ride, scaccia via le sue mani e si appoggia la scatola ghiacciata dal lato giusto.

«È una cosa molto, molto carina,» dice. Francesco agita per aria un pugno minacciosissimo, Marco fa finta di spaventarsi, sua madre sarebbe fiera di lui.

*

Ilary, naturalmente, decide di dare una cena per celebrare la ricomparsa di Marco. Promette e giura che sarà una serata tranquilla, discreta, informale e in amicizia, niente tragedie, però poi procede ad invitare un universo di persone e Marco vuole mangiarsi le mani, ma non c’è molto che possa fare, perché non ha il coraggio di mettersi contro Ilary. È piuttosto affezionato a tutte le parti del proprio corpo, grazie mille.

Quella sera, dunque, Marco stringe un’infinità di mani, sorride, blatera amabilmente e si pente un miliardo di volte di aver messo la cravatta; chi è che indossa una cravatta nel bel mezzo di agosto, per la miseria? Casa di Francesco è grandiosamente climatizzata, è vero, ma Marco è nervoso e si odia e ogni volta che prosciuga un flute di champagne, uno nuovo e pieno fino all’orlo gli si materializza tra le mani come per magia.

Quando arriva Daniele, quindi, Marco è vagamente brillo, ha una fame che sta morendo e si è arrotolato le maniche della camicia fin sopra i gomiti. È una pessima combinazione di fattori, forse la peggiore nella storia dell’umanità, e Marco muore dalla voglia di scappare in un’altra stanza, - possibilmente quella in cui hanno allestito il buffet, se solo sapesse qual è, - in un altro continente, su un altro pianeta, ma non può fare altro che restare impalato in mezzo al soggiorno e osservare Daniele che pian pianino, ma inesorabilmente, gli si avvicina. Daniele che ha addosso dei vestiti assurdamente eleganti, che non c’entrano niente con lui; Daniele che si ferma a salutare chiunque incontri il suo sguardo, Daniele che sorride educatamente e chiacchiera per un momento con tutti, ma pian pianino, inesorabilmente, si avvicina.

È la tragedia che Ilary gli aveva promesso non sarebbe accaduta, e Marco ha trentanove anni, ma comunque vuole correre ad aggrapparsi all’orlo della sua gonna e fare i capricci e darle della traditrice in eterno.

La temperatura della stanza sembra essere precipitata di cinquanta gradi, e Marco, automaticamente, avvampa.

Daniele gli si ferma davanti, le mani sepolte nelle tasche dei pantaloni di sartoria, e ha un broncio annoiato sul viso e tiene gli occhi fissi sulla parete alle spalle di Marco. È serrato su se stesso come il riccio di una castagna - un riccio scavato nel marmo e ricoperto di venti centimetri di acciaio. Il Fort Knox delle castagne.

È Daniele, insomma.

E Marco è un coglione, perché si ricorda adesso che Daniele è fresco di addio al calcio giocato - così fresco che ha ancora addosso la voglia di rimangiarsi tutte le conferenze stampa e tornare a scorrazzare come un cretino per i campi di Trigoria, glielo si legge dovunque sulla pelle.

Daniele, che trovava genuinamente deprimente il pensiero di poter dare alla Roma una sola carriera.

Marco si morde le labbra.

«Buon compleanno, Dani,» dice. «Con, uh, un mese di ritardo?»

Daniele serra la mandibola per un istante, e poi alza gli occhi al soffitto, esasperato.

«Guarda che mi arrivano le e-mail,» sbuffa, ancora fissando la distesa di stucco candido come se quella gli stesse rivelando i segreti della vita, dell’universo e tutto quanto. «E i messaggi. E le cartoline. E i pacchi.»

Marco nasconde un sorriso scemo dietro un colpo di tosse fintissimo.

«Che ne posso sapere, non è che mi hai mai risposto,» dice, e, veramente, trapela giusto un’ombra di amarezza. Marco dovrebbe ricevere un applauso e tutta la stima dei presenti, e invece Daniele lo guarda, finalmente, e la sua espressione è durissima e severa e Marco sente il pavimento scivolargli via da sotto i piedi.

«Lo bevi, quello?» chiede Daniele, accennando con uno scatto del mento al bicchiere di champagne cui Marco, onestamente, si sta aggrappando come a un salvagente.

Marco, istintivamente, scuote la testa, e glielo porge. Daniele glielo strappa di mano senza sfiorargli le dita neppure per sbaglio, e poi vaga via, buttando giù lo champagne in un unico sorso.

A Marco gira la testa, ma in fondo non è andata poi così male.

Francesco spunta fuori dal nulla con un piatto stracolmo di cibo, e gli dà una pacca sulla schiena.

«Dagli tempo,» dice, sereno, mentre Marco si tuffa sulle pizzette senza neanche un barlume di decenza. «Lo sai com’è fatto.»

E Marco lo sa, com’è fatto Daniele; lo sa perfettamente, esattamente, magnificamente, lo sa con precisione millimetrica, ed è proprio per questo che, non appena ha messo a tacere il brontolio del proprio stomaco, si sistema le maniche della camicia, raddrizza il nodo della cravatta e va a cercarlo.

Perché Daniele è permaloso e incazzato e giustamente non vuole avere niente a che fare con lui, perciò Marco non può permettergli di crogiolarsi ancora nel suo maledettissimo brodo.

Marco è tornato e deve ad ogni costo riaprirsi una porta nella vita di Daniele, dovesse sgomitare come un pazzo per riuscirci, o farsi strada a sciabolate. Fosse anche l’ultima cosa che fa, davvero, perché magari è un codardo e un idiota e non ha abbastanza spazio né nella testa né nel petto per cose belle e complicate come un ideale, ma per le persone sì, ha tutto lo spazio del mondo per le persone, per Daniele, e quindi non esiste che Marco se lo lasci scappare.

È qui, adesso. Daniele farà bene a farsene una ragione.

Marco lo trova in esilio sul balcone della camera da letto dei padroni di casa. Daniele è appoggiato alla ringhiera e guarda Roma stiracchiata per chilometri sotto di loro, una costellazione di nei bianchi e gialli e arancioni su una schiena scura, piegata dalla stanchezza.

Daniele dà un’occhiata all’indietro, da sopra una spalla, quando sente la portafinestra scorrere, e non sembra sorpreso che Marco sia lì. (Magari è un buon segno.) Senza fare una piega, Daniele torna a contare le luci o le stelle o, semplicemente, a farsi gli affaracci suoi. (Magari no.)

«Da bambino eri una sega a nascondino, eh?» dice Marco, e non osa avvicinarsi.

«Che vuoi, Marco?» domanda Daniele, dopo un momento. Marco ha una cinquantina di risposte da dare, come minimo, ma ci pensa Daniele a restringere il campo. «Sei tornato solo pe’ rompe’ ’n artro po’ ’e palle?»

Marco si passa una mano tra i capelli, ci pensa su.

«Sono tornato perché volevo torna’, Dani,» dice, alla fine. Ha il tono di uno che si sta arrendendo, anche se non è proprio sicuro del perché sia così, e Daniele ride, e Marco per un attimo respira, però poi si rende conto che non era una risata contenta, quella; era una risata spezzata, incazzata, delusa. «Danie’?»

Daniele si volta a guardarlo, e forse era meglio se continuava a dargli le spalle.

«Tipico,» dice, sbuffando ancora la coda di una risata cattiva, senza allegria. «Sono tornato perché volevo torna’,» gli fa il verso. «Che altro me potevo aspetta’?»

Marco corruga la fronte.

«Dani, ti dispiace spiegarmi cosa-»

«Non è così che funziona, Marco,» sbotta Daniele, andandogli incontro e fermandoglisi così vicino che a Marco sembra di essere tornato indietro di anni. «Nun poi anda’ e veni’ come te pare e aspettatte che - magari a Francesco sta bene, magari a... a tutti l’altri je fanno piacere le lettere e li messaggi e li regalini come se fossimo dei cazzo de regazzini scemi che te devi tene’ zitti e boni distribuendo caramelle e spicci - ma io non sto qua aspettando i comodi tuoi. Non è così che funziona.»

«E com’è che funziona, Dani?» mormora Marco, e Daniele sospira, improvvisamente stanco.

«Cresci, Marco,» dice. «È pure ora, che dici?»

Un po’ di rabbia ritrova la strada per la testa di Marco, allora, perché, oi, è cresciutissimo, lui, e ha ancora un briciolo di orgoglio; afferra Daniele per i lembi della giacca, allora, - fa veramente troppo caldo per tenere addosso una giacca, ma lo stronzo sembra perfettamente immune all’implacabilità del clima, - e lo strattona a sé, sporgendosi a baciarlo.

Daniele mugola qualcosa di sorpreso e probabilmente offensivo contro la sua bocca, e Marco ne approfitta per spingere fuori la lingua e leccargli le labbra, prepotente. Daniele, nonostante tutte le lagne che monta, deve aver sentito la sua mancanza, perché gli si arrende dopo un momento, e stringe il viso di Marco tra le mani, attirandoselo contro.

«Secondo te perché so’ tornato?» chiede Marco, senza più un briciolo di fiato. Daniele tiene gli occhi chiusi e le labbra premute in una linea sottile, quasi invisibile sotto la barba.

«Nun te lo devo di’ io a te, Marco,» dice, e Marco si mette a ridere.

«Dio, quanto sei pesante,» sbuffa, spintonandolo un pochino. Daniele stringe gli occhi.

«C’avrò pure il diritto d’esse’ pesante quanto me pare considerando che-»

«Sì, sì, Dio mio, quello che vuoi,» dice Marco, alzando gli occhi al cielo, e poi preme un bacio contro l’angolo delle labbra di Daniele. «Dani, ci sei mai stato in Australia?»

«Io con te non vado da nessuna parte,» dice Daniele, subito, e Marco sorride e sta già pianificando di comparirgli nudo per casa il prima possibile per fargli cambiare idea.

*

Negli anni, il pensiero di Marco ha reso Daniele un sacco di cose; lo ha reso arrabbiato, deluso, ferito, e pure cinicamente soddisfatto, perché ehi, vedi che aveva ragione a credere che, alla fine, chiunque nel mondo si rivela essere un pezzo di merda stronzo ed egoista. Lo ha reso anche cose di cui Daniele va un po’ meno fiero, - perché la furia omicida e la disillusione sono roba figa, virile ed epica; la nostalgia, la solitudine e la tristezza paralizzante fanno un po’ meno Batman, e un po’ troppo Ryan Gosling in Le pagine della nostra vita.

Ora, Daniele è ancora arrabbiato. Daniele è ancora deluso. Daniele ancora vorrebbe spaccare una bottiglia contro la testa di Marco perché Marco è un idiota. Daniele ancora si detesta profondamente perché ha passato anni a sentire la mancanza di Marco, a volere Marco, a godersi a metà i successi e soffrire il doppio per i fallimenti perché Marco Borriello era troppo impegnato a rimbalzare in giro per il mondo per curarsi di lui, di loro, di lui.

Daniele è ancora furioso perché Marco è uno stronzo, perché Marco non gli ha nemmeno fatto la grazia di sparire e basta, tagliarlo fuori da tutto e addio; no, Marco ha pensato bene di tormentarlo come un dannato fantasma, con i messaggi e le mail e i pacchetti che a un certo punto Daniele ha smesso pure di aprire perché era troppo, perché non ce la faceva più, perché ogni sillaba e ogni cappello assurdo e ogni braccialetto colorato che Marco gli spediva dai quattro angoli della Terra era buono solamente a ricordargli che, yo, guarda quanti chilometri vi separano. E guarda quanto è a suo agio Marco, con tutta questa distanza.

Guarda quanto sei cretino ad essere così perdutamente perso per lui. Guarda come è felice lontano da te, guarda come riesce a pensarti e scriverti e ricordarsi di te senza morire mentre tu sei così patetico che non ce la fai neanche a chiamarlo.

Daniele è livido di rabbia, però è anche abbastanza stanco; stanco di tutto, onestamente.

È stanco del dolorino alla base della schiena che viene a salutarlo ogni volta che si sforza un po’ di più, è stanco delle moine che gli fa l’universo per tentare di portarlo via da Roma, è stanco dei botti allo stadio, è stanco di vedere Tamara felice col suo nuovo compagno mentre lui non riesce ad avere una relazione serena nemmeno con la lavatrice, è stanco di fingere che non gli importa di Marco, che non ne vuole sapere più niente.

Non è sicuro di nessuna delle decisioni che ha preso negli ultimi mesi - lasciare il calcio e quel copriletto giallo e azzurro e la bicicletta nuova di Gaia e andare alla cena di Ilary per Marco e baciare Marco, - ma quantomeno sono decisioni. Sono sue. E sono dei cambiamenti.

Daniele si stropiccia gli occhi, libera un lungo mugolio scontentissimo. Perché diamine non può mai avere un attimo di respiro? Anche solo una frazione di secondo, mica pretende tanto.

«Ho portato la colazione,» dice Marco, e Daniele, terrorizzato, fa un salto all’indietro che gli sarebbe valso perlomeno un bronzo olimpico.

Marco sorride, compiaciuto, - sta praticamente gongolando, il bastardo; ha addosso una canotta bianca e un pantaloncino di jeans e ai piedi delle infradito giallo canarino ed è né più e né meno che Marco. Nel bel mezzo del soggiorno di Daniele.

«Come hai fatto a entrare?» domanda Daniele, tentando di trattenersi dal mandarlo a fanculo a gesti.

«Con le chiavi, no?» replica Marco, come se fosse ovvio. Daniele inarca le sopracciglia.

«Hai ancora le chiavi.»

Marco sorride, furbo. «Non hai cambiato la serratura.»

Daniele si stringe nelle spalle; è arrabbiato, è inquietato, è incerto, ma soprattutto è capace di riconoscere una battaglia persa, quando ne vede una. E comunque, la busta di carta del bar che Marco gli sta sventolando sotto il naso ha un odore magnifico.

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