[RPF] He won't tell you, but he loves you

Mar 16, 2012 23:52

Titolo: He won't tell you, but he loves you
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Daniele De Rossi/Marco Borriello, Francesco Totti/Ilary Blasi, Claudio Marchisio/Alex Del Piero (unresolved, hinted at), più un fracco di altra gente in ruoli minori
Rating: NC17
Conteggio Parole: 11129 (fidipu)
Avvertimenti: HP!AU, genderswitch, het, slash, fluff, lemon
Prompt: Riding @ maridichallenge.
Note: Yup, stesso HP!AU del regalo per Brappu che al momento non riesco a ritrovare perché la connessione è un culo a carbonella XD Però stavolta sono più grandi &&& è un'AU dal Calice di Fuoco &&& un giorno tornerò con un fracco di spin-off perché ci sono millemila dettagli che devo spiegare e omg non ce la faccio. #gioiaetripudio #happykyappy #ilcomplessodiDio
- Tra l'altro, questa doveva essere la fic da 15K-in-due-giorni cui mi sono autosfidata con Def; alla fine è uscita di 11K-in-un-giorno-e-un-po', perciò, insomma, ci rivedremo.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ He won't tell you,
but he loves you.

È quasi ora.
Per l’ennesima volta Daniele alza gli occhi sulla pendola sopra il camino, e per l’ennesima volta sbuffa, irritato, nel constatare che la stupida lancetta dei minuti s’è spostata di un millimetro appena. Sua madre, seduta in poltrona a sorseggiare il suo terzo tè della giornata, ridacchia discretamente dietro la tazza.
«Abbi pazienza, tesoro,» tenta di blandirlo. Daniele si volta un po’ per guardarla male, perché, seriamente, se lei non l’avesse buttato giù dal letto Incantandogli le lenzuola ad una temperatura glaciale, impedendogli di restare a poltrire per quei sacrosanti tre quarti d’ora che gli ci vogliono, normalmente, per rimettersi in pace col mondo, lui ora non sarebbe qui a scalpitare, impaziente, e ad insultare mentalmente lo scorrere troppo lento del tempo.
Insomma, come al solito è tutta colpa di mamma se Daniele, eccitato come se avesse undici anni invece che diciassette, smania di veder scoccare le dieci e trentotto.
«Eddaje,» mormora, mordendosi le labbra e sfregandosi le nocche dei pugni chiusi, quando la lancetta lunga si trascina stancamente sul trentasette. «Daaaaaje!»
«Daniele, tesoro, non dimenticarti di salutare Bedy da parte mia, e ricordale l’appuntamento che abbiamo per la prossima settimana,» dice sua madre, e Daniele alza gli occhi al cielo, esasperato; apre la bocca per farle presente - di nuovo - che è una cosa profondamente disturbante, per lui, il pensiero di sua madre che prende il tè con la professoressa Moratti, e che quindi lei potrebbe, tanto per cominciare, fargli il santo piacere di tenerlo fuori da questa sua inquietante, inappropriata amicizia, quando finalmente, finalmente, la pendola arriva a segnare le dieci e trentotto.
Il quadrante dell’orologio svanisce in un complicato vortice di spirali, e un pupazzino incantato saltella fuori dall’apertura che si è spalancata sul legno, piroettando per aria fino a cadere sulla mensola del camino, proprio all’altezza del naso di Daniele.
«È ora!» trilla il pupazzo, sbattendo l’uno contro l’altro due minuscoli piattini di ottone lucido. «È oooooora! È oooooooora!»
Daniele ride, e butta tra le fiamme la manciata di Polvere Volante che teneva stretta nel pugno. Immediatamente, uno splendido fuoco verde divampa nel camino, riempiendolo di scintille color smeraldo. Daniele ci spinge dentro il baule, e poi afferra la Tornado e se la appoggia ad una spalla, infilandosi a propria volta nel camino.
«Buon viaggio, tesoro,» dice sua madre; lui le sorride, agita una mano.
«Triora!» esclama, e gli fanno un po’ male gli angoli della bocca per l’espressione tanto contenta che ha, e cui la sua faccia non è poi tanto abituata. Mentre la Metropolvere lo risucchia in un mare di verde, ancora sente, in lontananza, il pupazzo sul camino sbattere i piatti.

*

Dall’altro lato, come al solito, c’è un elfo domestico che, come Daniele appare nel camino, lo afferra per le braccia, stringendo con tanta forza che gli rimarrà il segno, e lo tira fuori di peso, depositandolo sul pavimento, per poi occuparsi del suo bagaglio. Daniele, vagamente frastornato, si appoggia al manico di scopa come ad un bastone, rendendosi pian piano conto che anche quest’anno l’Atrio è stipato di gente, nonostante il regolamento proibisca di ciondolare intorno ai camini, il primo settembre.
«Signor De Rossi, sempre in perfetto orario.»
«Buongiorno, professore,» dice Daniele, voltandosi per sorridere al professor Prandelli che, poveraccio, pure stavolta sovrintende agli arrivi, e poi quasi gli cascano gli occhi per quanto li sgrana, quando si accorge che, santo cielo, Prandelli ha la barba.
Il professore chiaramente nota la sua sorpresa - un elefante cieco a venti chilometri di distanza l’avrebbe notata, in effetti, - e fa un sorriso furbo.
«Ti piace?» domanda, accarezzandosi il mento spolverato di una gloriosa peluria grigio scuro; Daniele sorride, annuisce, e poi l’elfo domestico di prima lo spinge via piuttosto bruscamente perché, ehi, dà un fastidio tremendo, a starsene lì impalato.
Prandelli torna alla sua interminabile lista di nomi, tracciando una linea su quello di Daniele; la pergamena che tiene in mano è talmente lunga che non solo raggiunge il pavimento, ma si ripiega pure tre o quattro volte su se stessa, disordinatamente, e in mezzo a tutte quelle curve Daniele non riesce davvero a vederne la fine.
Si affretta a togliersi di mezzo, quando l’elfo domestico lo guarda male per l’ennesima volta, e appoggia la Tornado in equilibrio sul baule, trascinandolo via verso le scale in fondo alla sala. Vede arrivare Ilary, un paio di camini più giù, e allora vira leggermente, dirigendosi verso di lei, ma non fa in tempo a fare un altro passo che un doloroso nugolo di scintille rosse e dorate gli si schianta contro il gomito, facendolo sobbalzare.
«Ma chi cazz--» sbotta, voltandosi tutto corrucciato, però non c’è bisogno che finisca anche solo di pensarla, la domanda, perché Marco gli sta già correndo incontro e, dopo un secondo, gli salta addosso, appendendosi al suo collo - come se fosse normale, come se non pesasse quasi quanto Daniele, come se non fosse Marco e come se non fosse pieno di gente, intorno a loro, - e rischiando di far capitombolare miseramente entrambi, proprio nel bel mezzo dell’Atrio.
«Daaaaaniiii,» mugola Marco, strusciando il naso contro l’angolo della sua mandibola. Daniele ha ritrovato l’equilibrio, il gomito ha smesso di pizzicargli e allora ricambia l’abbraccio, stringendolo in vita, e, d’accordo, magari lo solleva un pochino da terra.
«Marco,» sbuffa, senza fiato, e senza riuscire a trattenere un sorriso. «Ciao, cazzo, ma ti pare modo di salutare la gente?»
Marco ridacchia, gli si preme contro più pienamente - e quella è la bacchetta di Daniele, no, veramente, lo è, - e si dondola un po’, scemo e cretino e felice di vederlo, e scemo e cretino e felice di vederlo è pure Daniele, in fondo, che quindi lo asseconda senza troppe storie, e addirittura aspetta che sia lui a fare un passo indietro per sciogliere l’abbraccio.
«Ciao, Dani,» mormora Marco, guardandolo da sotto in su, e gli fa un sorriso raggiante, che gli accentua le occhiaie e alza di un paio di gradi la temperatura nella stanza; Daniele lo può anche ammettere, dai, che ha sentito la sua mancanza.
«Ciao a te,» soffia, forse più piano di quanto avrebbe voluto; Marco, comunque, sembra contento, e persino s’allunga a dargli un bacio sulla guancia. Daniele ridacchia, si strofina una mano sulla nuca, i capelli corti che gli pizzicano piacevolmente le dita. «Francesco già c’è?»
«Arriva alle undici,» dice Marco. «Però c’è Claudio, se lo vuoi salutare.»
Ora, Daniele a Claudio gli vuole bene, eh, per carità; hanno diviso il dormitorio negli ultimi sei anni, per l’impressionante totale di cinquantaquattro settimane, ovvero qualcosa come milleseicentoventi giorni e passa, per cui è un po’ difficile non pensare a lui come ad un fratellino secchione e pazzamente innamorato della Difesa Contro le Arti Oscure.
Quindi, Daniele normalmente gli vuole bene, a Claudio, ma il problema è che Marco s’è dovuto trasferire a Torino, a giugno, di fatto abbandonando Daniele da solo a Roma con Francesco, e Francesco, naturalmente, ha passato l’estate intera con un broncio infinito a lagnarsi di Marco di qua e Marco di là e Claudio che ovviamente non ci tiene a Marco quanto lui - quanto loro, diceva Francesco, in genere, e intendeva se stesso e Daniele, ma soprattutto se stesso, - e quindi non è giusto che ce lo abbia lui; seriamente, sono stati i tre mesi più intollerabilmente lunghi dell’esistenza di Daniele, e il punto è che Francesco è riuscito ad attaccargliela, un po’ di quell’insofferenza gelosa e irrazionale verso Claudio, per cui no, Daniele non è proprio del tutto propenso ad andarlo a salutare.
Marco lo guarda, curioso, inclinando un po’ la testa da un lato. Daniele sospira. La verità è che, all’inizio, a lui gli era venuta una specie di avversione pure per il solo nome di Marco. Non è che sia durata poi molto, eh, però è rimasta lì quel tanto che gli basta, ora, a sentirsi in colpa come neanche un ladro.
«Vabbè,» si arrende, allora. «’Nnamo a saluta’ al regazzino.»

*

Quella sera, come tutte le sere del primo settembre da sei anni a questa parte, ritrovano la sana, vecchia abitudine di una partita a scacchi magici, dopo cena, nella Sala Comune, davanti al camino.
Claudio siede in poltrona, vagamente spaparanzato contro lo schienale perché, ehi, oggi è stata una giornata stressante, ha incontrato il professor Del Piero per i corridoi ben quattro volte e tutt’e quattro le volte il professore s’è fermato a chiacchierare con lui, anche solo per un momento, per cui, insomma, Claudio ha tutto il diritto di essere fisicamente provato e psicologicamente distrutto, davvero.
Daniele si è incastrato di traverso sul divano, invece, la schiena appoggiata all’unico bracciolo ancora integro, ma di tanto in tanto cambia posizione, più o meno ogni volta che decide di cambiare strategia sulla scacchiera, e quindi paurosamente spesso. Marco è seduto lì accanto, coi piedi sul divano e le ginocchia sotto il mento e un qualche astruso volume di Incantesimi ficcato a mezzo millimetro dal naso, aggrovigliato in quel nodo che solo lui al mondo trova comodo per leggere; Francesco gli si è spalmato su un fianco questa mattina, non appena è arrivato a scuola, e probabilmente non si muoverà mai più per il resto dell’anno scolastico. Marco ha già minacciato che Affatturerà lui e tutto ciò che ha di più caro al mondo, ma neanche attentare all’integrità del suo manico di scopa è servito a molto, per cui, probabilmente, è un caso perso.
«Alfiere in E7,» mormora Daniele, pensoso, e si accorge troppo tardi dell’errore; lo scacco, poveraccio, può solo voltarsi a lanciargli un’occhiataccia, prima di strisciare malinconicamente tra le grinfie di uno dei cavalli di Claudio.
«’cco matto,» sospira lui, e i suoi pezzi suppliscono all’assenza di entusiasmo esibendosi in un accorato trenino della vittoria. Daniele sbuffa, piccato.
«C’ero quasi,» dichiara, orgoglioso, e il fatto che Claudio si limiti a fargli un sorrisino accondiscendente è un segno di quanto, ormai, sia più di là che di qua.
«Mi sa che è ora che mettiamo il pupo a dormire,» dice Marco, senza neanche alzare gli occhi dal libro.
«È capace di andacce da solo, a letto,» replica subito Francesco, strisciandogli di più addosso. Daniele lo guarda, e più lo guarda e più gli viene voglia di fare una smorfia schifata. «Oppure potemo chiama’ Del Piero, e se la vede lui.»
La testa di Claudio scatta su bruscamente, e i suoi occhi sono di punto in bianco attenti, sveglissimi.
«Dov’è Del Piero?» chiede, guardandosi attorno. Marco a quel punto lo guarda, ridacchia, e allunga una gamba per dargli un colpetto sullo stinco col piede. Né Daniele né Francesco stanno fissando la lunghezza esasperante delle gambe di Marco, assolutamente, solo che per Francesco è vero, per Daniele un po’ meno.
«Sta’ bono, non c’è nessuno,» dice Marco, con gentilezza. Claudio sbatte le palpebre un paio di volte, e poi si sgonfia di nuovo, esausto. «Che dici se andiamo a dormire?»
«Hm, dormire,» mugugna Claudio, e si stropiccia una mano sugli occhi. È un po’ difficile non volergli bene quando è ridotto uno straccio, davvero, e Francesco, mosso a pietà, si offre di metter via la scacchiera per lui, purché per Merlino, Cla’, vatti a fare una dormita come si deve.

*

Daniele si è pacificamente appisolato sul fondo dell’aula durante Storia della Magia, quando qualcosa di testardo e appuntito prende a picchiettargli contro le nocche di una mano. Lui tira su la testa, soffocando a stento un mugolio scontento e uno sbadiglio - il professor Ancelotti, mummificato dietro la cattedra, non s’è mai accorto di niente negli ultimi duecentoventisei anni, e Daniele non ci tiene a rovinargli il primato, - e scruta perplesso il cigno di carta che siede composto sul suo banco, agitando appena le ali.
Un’occhiata dall’altra parte della stanza gli conferma che, sì, è da parte di Marco. Allunga una mano per sfiorarlo, ma il cigno si sottrae al suo tocco, e spontaneamente si spiega, lisciandosi sul tavolo come nuovo, rivelando parecchie righe della grafia minuta e nervosa di Marco.
Daniele si china sul biglietto.



che ne dici di Borini cacciatore? gli ho chiesto a colazione di venire ai provini stasera, non ti arrabbiare :) lo so che non vuoi i ragazzini ma credimi, l’ho visto volare, non ce lo possiamo fare scappare. idee per il compleanno di Fra? mi sa che Ila vuole fargli una sorpresa in sala comune, ma io stavo pensando perché non al campo? lo so che non si può e bla bla bla, non fare quella faccia Dani pensaci!!! promettimi che ci pensi

Daniele alza gli occhi al soffitto, si strofina una mano sulla faccia. Fruga nella cartella, infilata di malo modo sotto al banco, finché non riesce a tirar fuori una piuma e una boccetta d’inchiostro; il Tassorosso seduto davanti a lui si volta a guardarlo con gli occhi sgranati, sorpreso, e Daniele si affretta a mostrargli il bigliettino, per chiarire che, no, per le sottane di Morgana, non ha certo intenzione di prendere appunti, non è mica Claudio. Il ragazzo sembra sollevato, fa una smorfia e torna a dormire.
Daniele scuote la testa, stappa il calamaio, controlla che Ancelotti stia ancora blaterando senza curarsi di niente, e intinge la punta della piuma nell’inchiostro.



1) ti dovrei buttare fuori dalla squadra a calci, lo sai? Cosa vai in giro ad invitare ragazzini a caso! Spero per te che sia bravo veramente.
2) No. Marco, no, niente feste sul mio campo. Neanche per Fra.

Daniele osserva la propria risposta, critico; non sa che altro aggiungere, per cui decide di accontentarsi. Mette giù la piuma, e nell’istante esatto in cui si domanda ora come diamine farà a far arrivare il biglietto fino a Marco laggiù - d’accordo, è un Mago, ma è Marco quello bravo con questo genere di trucchetti, Daniele è più uno da duelli, - il foglio si accartoccia da sé, riprendendo la forma del cigno e, meraviglia delle meraviglie, levandosi in volo con un battito secco di ali cartacee.
Daniele ha visto Marco Incantare di tutto, da che si conoscono, perciò, a rigor di logica, dovrebbe essere abituato - perlomeno un pochino, - a queste trovate bizzarre, e invece ogni volta si ritrova più sorpreso e impressionato di prima, perché, andiamo, il maledetto cigno di carta vola.
Lo guarda attraversare l’aula con tutta calma, e poi posarsi docilmente e aprirsi sul palmo della mano di Marco; già che ha gli occhi puntati in quella direzione, allora, Daniele studia pure la reazione di Marco mentre legge il suo messaggio, e si ritrova a ridacchiare silenziosamente tra sé a vederlo imbronciarsi, sicuramente per il secondo punto della risposta.
Marco alza lo sguardo, dopo un momento, e, quando si accorge che Daniele lo sta guardando, sfodera l’artiglieria pesante: sgrana gli occhi, spinge all’infuori il labbro inferiore e inclina la testa di lato, nella migliore imitazione di un cucciolo spaesato e infreddolito che l’universo abbia mai visto. Daniele scopre di avere la gola secca, accidenti a quest’aula che è sempre stata la più calda di tutte.

*

Quella sera, a cena, l’intero tavolo di Grifondoro è d’umore più nero del nero, talmente tetro che si riflette persino nel soffitto cangiante della Sala Grande, che si profonde in un tappeto disordinato di nubi cattive e gonfie d’acqua e di tuoni. Daniele pasticcia con gli spinaci che ha nel piatto, non ha la minima voglia di mangiare; Francesco, accanto a lui, al contrario sfoga la frustrazione col cibo, e sta praticamente per tuffarsi intero nella zuppiera di carne alla genovese. Marco ha costruito una piramide di mollica di pane, circondandola con un recinto di croste, e Claudio è mezz’ora che traffica con una carota, probabilmente sta cercando di scalpellare un busto di Del Piero.
Il fatto è che la professoressa Moratti gli ha impedito di fare i provini per la squadra di Quidditch, e, per di più, ha annunciato che tutte le prenotazioni per il campo sono state annullate, e non ha voluto sentire ragioni né proteste né minacce né niente - a nulla è valso fare leva sul viscerale, insano amore che quella donna nutre per il Quidditch, e neppure ricordarle che Daniele, da giudizioso vicecapitano quale è, ha programmato già da due anni la sessione di allenamento di oggi.
È una tragedia epocale senza precedenti nella storia del Mondo Magico, insomma, e la cosa peggiore è che non ha neppure un senso.
«Non è che l’hanno rapita gli alieni, e quella che vediamo è un clone malvagio?» bisbiglia Fabio, sporgendosi sopra il tavolo e occhieggiando sospettoso il tavolo dei professori, perché è cosa nota che i cloni malvagi montati dagli alieni hanno l’udito supersviluppato.
Daniele alza gli occhi al soffitto e sbuffa, ma il mormorio pensieroso che percorre la tavola sembra dare onestamente peso all’ipotesi di Fabio. Oh, per le mutande di Merlino.
«Ci dev’essere qualcosa sotto,» dice Marco, alla fine.
E, beh, in effetti qualcosa sotto c’è per davvero.
Quando arriva il momento del dessert, il preside Zoff si alza in piedi, domandando silenzio. Ha l’aria solenne di uno che ha tutta l’intenzione di fare un discorso, ed è un fatto insolito, considerato l’eccezionale carico di pigrizia che il preside si porta dietro - o forse lo lascia nei propri alloggi ogni giorno, perché è troppo pigro per caricarselo in spalla. Insomma, quello.
«Pargoli!» esclama, sghignazzando come il pazzo che hanno tutti molto presto imparato che è. «Mi permetto di ritardare per un istante il tuffo nel budino, che so essere il vostro momento preferito di ogni giornata tra queste mura, per una ragione molto speciale. Spero che vi sentirete orgogliosi e onorati quanto lo sono io nell’apprendere che, per quest’anno, la nostra scuola è stata scelta per ospitare un evento di capitale importanza!»
«I Mondiali di calcio?» domanda Francesco, risollevandosi di scatto dal broncio gigantesco in cui s’era marcito a sapere che il suo amato budino si sarebbe fatto attendere. Daniele soffoca a stento una risata dietro una manica della divisa, ed è contento quando Claudio si prende il disturbo di tirare a Francesco un cazzotto contro la spalla.
«Ragazze e ragazzi,» prosegue il Preside, indisturbato dalla crescente stupidità dei suoi studenti. «Molti di voi saranno stati addolorati dalla notizia che tutte le attività legate al Quidditch, per quest’anno, sono sospese,» ma non si può sospendere il Quidditch!, bisbiglia qualcuno, forse le mura stesse del castello, «Eppure, nondimeno, vi offro ragione di festeggiare, questa notte e per tutte quelle a venire - con moderazione, s’intende; non fatemi impazzire i Prefetti. Studenti! La Scuola di Magia e di Stregoneria di Triora è onorata di ospitare il Torneo Tremaghi!»
Un sacco di ragazzi, specie tra quegli stronzetti di Serpeverde, gonfiano le penne e mettono il naso per aria, guardandosi attorno con lo sdegno borioso di chi già da mesi s’era fatto spifferare il gran segreto; Daniele, come pure la quasi totalità del suo tavolo, appartiene orgogliosamente alla bassa plebaglia che i poteri forti tengono all’oscuro di tutte le cose più fighe, e non si vergogna di sgranare gli occhi e tirare un calcio eccitato a Francesco.
«Il Tremaghi!» fiata, e piano piano gli si apre sulla faccia un gran sorriso entusiasta. «Hai capito niente, Fra’?»
«Danie’, dobbiamo per forza partecipare,» replica Francesco, sporgendosi sul tavolo per darsi enfasi. «Per forza, capito?»
«Sì, sì, non c’è manco il Quidditch, non voglio crepare di noia,» ride Daniele, e si scambiano un cinque da sopra un cestino del pane.
Il Preside sta ancora blaterando di robe inutili, tipo il premio di tremila galeoni per il vincitore e l’elevatissima percentuale di mortalità del torneo, ma Daniele e Francesco sono troppo persi a confabulare per stabilire quante possibilità abbia uno di loro di diventare Campione della scuola - circa il novantanove e nove percento, davvero, basta guardarle, le altre Case, per capire che non c’è la minima competizione, - e l’unica cosa che riesca a distrarli un po’ è il fatto che Marco non accenna a volersi unire alla loro accorata discussione, ma sta lì e fissa pensieroso e tetro la tovaglia.
«Oh,» fa Francesco, che gli siede accanto, e gli tira una gomitata per attirare la sua attenzione, però, prima che possa chiocciare qualsiasi cosa, lo sconfinato portone d’ingresso della Sala Grande si spalanca, e il resto della scuola trattiene all’unisono il fiato.
Pure Daniele, Marco e Francesco, allora, si voltano a guardare cos’è che ha attirato l’attenzione di tutti - professori, studenti, ritratti e fantasmi compresi, - e appena in tempo per veder entrare di corsa un enorme leone dorato, che si ferma ai piedi del pulpito del Preside e, dopo aver scrollato la criniera, dà un ruggito assordante.
Daniele si copre le orecchie con le mani, ma non fa in tempo a bestemmiare il cappello a punta di mago Merlino che una ventina di studenti, ordinatamente divisi in due colonne, marciano nella Sala Grande con gli occhi fissi sul dannato felino.
«Diamo il benvenuto ai nostri amici dell’Accademia di Zugarramurdi!» esclama il Preside, allargando le braccia, ed è evidente che Zugarramurdi è la sua nuova parola preferita del giorno.
Ancora un po’ sorpresi e confusi - tutti quanti, sì, pure i cretini di Serpeverde, - gli studenti di Triora si impegnano in un applauso spaurito; a chiudere la delegazione spagnola c’è un mago tondissimo e dall’aria simpatica, che saluta Zoff con un abbraccio fraterno. I due Presidi confabulano allegramente tra di loro, e poi spediscono i ragazzi a prendere posto al tavolo dei Corvonero; il leone è il primo a obbedire, e si butta su una panca appoggiando la testa sulle zampe incrociate e, probabilmente, sta pure russando.
«Miseriaccia,» soffia Daniele, e Francesco fa un verso distratto, allungando il collo per scrutare i nuovi arrivati al di là della sua spalla.
«Sembrano delle mezze calzette,» decreta, con un sorriso. «Guarda quello, pensavo che in Spagna ci fosse il sole, perché è così bianco?»
Claudio - non gliel’hanno dato per caso e neppure per la faccia che ha, il soprannome di Principe Prefetto, - lo zittisce bruscamente, perché con il portone della Sala spalancata si sente lo schiocco dei camini nell’Atrio, segno che sono in arrivo altri ospiti.
«E accogliamo con gioia anche per la delegazione della Scuola di Hogwarts!» ride Zoff, e piuttosto giudiziosamente si preoccupa di dare l’esempio, prendendo a sbattere le mani, incoraggiante, tanto che l’applauso che accoglie gli stropicciati visitatori inglesi è quasi addirittura caloroso.
Questi sono ancora più pallidi degli spagnoli, e sorridono pure di meno; non li accompagna nessun felino antropofago, però il loro Preside ce l’ha l’aria seriosa di uno che fa colazione sgranocchiando bambini.
Mentre da tutte le parti volano convenevoli, gli inglesi trovano posto al tavolo di Serpeverde, e in tutto il resto della Sala si ricomincia a mormorare peggio che durante le lezioni di Ancelotti.
«Non ci credo che hanno cancellato il Quidditch per una scemenza così,» brontola Fabio, scandalizzando Francesco.
«Ma sei scemo! Solo perché te sei troppo lattante per partecipare e vincere la gloria eterna, non vor di’ che er Torneo è una cosa inutile! Pensa a come ce starà bene nell’Atrio, il ritratto alto venti metri di Franceschino tuo mentre sollevo la Coppa!»

*

Con grandissima sorpresa di nessuno, il Calice di Fuoco sputa fuori il nome di Daniele come Campione di Triora; il tavolo di Grifondoro esplode in un boato di gioia e svariate panche finiscono riverse per terra, tanto è l’entusiasmo che i ragazzi profondono nello sporgersi a riempirgli la schiena di pacche di congratulazioni. Tra i Serpeverde invece pare che sia calata la Peste Nera, e, in tutta onestà, è uno stato d’animo che Marco condivide abbastanza, anche se si guarda bene dal darne segno, curandosi, anzi, di essere il primo a buttarsi addosso a Daniele quando Zoff ruggisce il suo nome.
In qualche modo, il nuovo eroe nazionale riesce a districarsi dall’amore soffocante della sua Casa, e con le ginocchia che gli tremano si dirige verso il tavolo degli insegnanti, dove la professoressa Moratti lo spinge praticamente di peso attraverso una misteriosa porticina nascosta dietro lo scranno del Preside.
Il Calice si rimette a lampeggiare, allora, e dopo aver sbuffato e fiammeggiato come una vecchia stufa si decide a tossire via il secondo frammento di pergamena; il Preside lo prende al volo, soffia via un pochino di cenere e stringe gli occhi.
«Il Campione di Hogwarts è Steven Gerrard!» annuncia, e la sparuta comitiva di inglesi persi tra i Serpeverde esulta come un sol uomo, provvedendo subito a spintonare fuori un tizio con la fronte corrucciata e l’attaccatura dei capelli praticamente sul naso, che ha tutta l’aria di non avere la minima idea del perché il Preside McLaren abbia voluto portarlo fino in Italia, figuriamoci poi di come abbia fatto il Calice a scegliere proprio lui tra tanta gente.
Anche Gerrard, nonostante i suoi dubbi, viene fatto sparire dietro il tavolo degli insegnanti, e il Calice riattacca a rimuginare; questa volta impiega un tempo quasi infinito a prendere la sua decisione, dannata coppa che non è altro, ma finalmente sceglie anche il terzo Campione, un tale Iker Casillas, che per un istante sembra per davvero sorpreso, però poi decide di lasciar perdere la modestia, e si scioglie un sorriso anche vagamente scemo.
«Molto bene,» sorride Zoff, spalancando le braccia. «Ora che ci siamo curati di queste minuzie, possiamo passare alle cose importanti: tornatevene nei vostri dormitori a studiare, ragazzi!»
«Che palle,» sbotta Marco, perché ora che Daniele è fuori portata d’orecchie si sente libero di imbronciarsi quanto gli pare. «Non poteva scegliere una Serpe, quel bicchiere di merda?»
«È un Calice,» corregge Claudio, sovrappensiero - non ha ancora schiodato gli occhi dal tavolo dei professori, poverino.
«Sai quanto mi frega,» replica Marco, e raccoglie da terra la tracolla.
«Marco, non sei contento pe’ Daniele?» chiede Francesco, sgranando gli occhi come se non lo riconoscesse; Marco, quant’è vera la Pietra Filosofale, arrossisce.
«Non è che non so’ contento,» mugugna, tirandosi in piedi. «Però Fra’, l’hai sentito il Preside, no? La gente muore un sacco, in questo Torneo.»
Francesco scoppia a ridere, allora, e gli butta un braccio attorno alle spalle.
«Maddaje, che ce lo vedi Danielino a fasse ammazza’ da ’no spagnolo e ’n inglese?» dice, facendogli l’occhiolino; Marco sta per replicare che è esattamente questo modo di ragionare che porta la gente a crepare nei modi peggiori, quando d’un tratto la fiumana di studenti che lentamente sciama verso l’uscita della Sala Grande si pietrifica in blocco, sorpresa da un intenso lampeggiare blu e turchese.
Si voltano - tutti - all’unisono a guardare il Calice, e quello, pigro pigro, come se niente fosse, dopo un momento sputacchia fuori il suo quarto verdetto.
Il più vicino è il professor Del Piero, e persino il vento di fuori e le civette su in Guferia smettono di fiatare, mentre si china a raccogliere la pergamena consumata dal fuoco.
Francesco ha una visione divina, e per un istante è certo che Del Piero leggerà il suo nome.
E invece.
«Claudio,» chiama il professore. E Claudio non si può muovere, perché c’è Marco che si è aggrappato alla manica della sua veste e non vuole lasciarlo andare.
«No,» bisbiglia, fissando a occhi sgranati Del Piero che, tranquillo come fosse un momento qualunque di una mattina qualunque di un giorno qualunque, guarda verso di loro. «No, Claudio, no. Il Tremaghi vuole tre Campioni. Tre. Tu non vai da nessuna parte.»
Però molla la presa, non appena Claudio lo sogguarda; molla la presa e se ne pente subito, allunga una mano per riacciuffargli una spalla ma Claudio cammina in fretta, incastra un passo dietro l’altro più rapidamente che può perché altrimenti piomberebbe giù per terra. Ci pensa Del Piero a stabilizzarlo un pochino, quando Claudio lo raggiunge, perché gli stringe un braccio e lo guarda negli occhi ed è così sereno che Claudio si rimette a respirare, si calma.
«Andiamo,» mormora il professore, e se per una frazione di secondo gli s’incrina la voce fanno entrambi finta di nulla.
Al di là della porticina c’è un’enorme stanza rotonda, piena di trofei ammucchiati a casaccio, su cui si riflettono le fiammelle di una miriade di candele fluttuanti. I tre Presidi stanno in piedi davanti al camino, ciascuno col proprio Campione appiccicato al fianco, - Daniele ha gli occhi sbarrati e neanche sbatte le palpebre, tanto è sorpreso, - e attorno a loro si sono schierati i quattro Direttori delle Case di Triora, il Ministro della Magia e il suo piccolo esercito di attendenti. Claudio si sente un imbucato ad una festa in cui non conosce nessuno, però Del Piero non si allontana da lui neppure di mezzo passo.
«No está bien,» rompe il ghiaccio Del Bosque, corrugando la fronte pacioccosa. «Dino, concorderai que no, no se puede competir así-»
«Me ne rendo conto, Vicente, me ne rendo perfettamente conto,» mormora Zoff, accarezzandosi pensoso il mento. «Ma il Calice ha scelto il ragazzo, l’hanno visto tutti-»
«Oh, e quindi lo includeremo nei giochi?» insorge McLaren, con una pronuncia sorprendentemente buona. «Mi pare molto conveniente, Dino, che la tua scuola abbia due Campioni-»
«Devo ricordarti che è stata la tua scuola a custodire il Calice negli ultimi quarant’anni, e che siete stati voi a portarlo qui, e che non è mai uscito dalle tue stanze prima di stasera, Steve?» sbraita il Preside, puntandogli addosso un indice. «E comunque, stai forse insinuando che sarei stato così stupido da mettere in atto uno stratagemma così elementare e onestamente ridicolo, se avessi voluto truccare il Torneo?!»
«Forse il ragazzo-» tenta il Ministro, avanzando di mezzo passo verso Claudio, ma subito Del Piero balza a sbarrargli la strada.
«Il ragazzo non ha niente a che vedere con questa storia,» dice, a denti stretti. «Le posso assicurare, Ministro, che per quanto Claudio sia uno studente eccezionale, non possiede le competenze necessarie a Confondere un oggetto magico tanto potente quanto il Calice di Fuoco. In effetti, dubito che chiunque in questa stanza ne abbia la capacità. Senza offesa, Preside.»
«Non c’è problema, Alessandro,» lo blandisce Zoff, con mezzo sorriso. Daniele e Claudio pensano, in stereo, che Zoff potrebbe convincere il Calice a cinguettare come un usignolo in quattro secondi netti, senza bacchetta, appeso per i piedi all’albero più alto della Pineta Proibita. «Ed hai sicuramente ragione. Il Calice è stato stregato, ma di certo non da uno studente; mi auguro che verrà aperta un’inchiesta, Ministro?»
«Ma naturalmente! Ci affretteremo a-»
«E che saranno insegnanti di mia scelta ad occuparsene, Ministro?»
«S-suppongo che si possa organizzare un-»
«Con l’aiuto di qualche Auror, tanto per stare tutti tranquilli?»
«L-la metterò in contatto con il Dipartimento, Preside, e potrete-»
«Molto bene, allora è tutto deciso,» annuisce Zoff, sbattendo le mani. Del Bosque e McLaren aprono la bocca nello stesso istante, pronti a protestare, ma il Preside li previene sollevando le braccia in segno di resa e scuotendo la testa. «Essere scelti dal Calice costituisce un contratto magico vincolante, signori. Claudio non può essere esonerato dal partecipare al Torneo, dovremo convivere con questo increscioso contrattempo al meglio delle nostre possibilità.»
Naturalmente non basta a chetare le rimostranze dei due Presidi, ma Zoff è svelto ad invitarli entrambi nel proprio ufficio - che sia per continuare la discussione o per accoltellarli entrambi, rimarrà un mistero ancora per un po’; il Ministro e i Direttori delle Case li seguono, Gerrard e Casillas non hanno la minima intenzione di attardarsi e alla fine rimangono Claudio, Daniele e Del Piero, tutti e tre piuttosto a disagio, e neppure per lo stesso motivo.
Claudio si sente un po’ un budino, e ha molta voglia di affondarsi un cucchiaino in un fianco per vedere se sa di cioccolato o di caramello.
«Oh,» gli dice Daniele, tirandogli un calcetto gentile contro la punta di una scarpa. «Alla faccia de quelle Serpi der cazzo, no?»
Claudio dà una risatina nervosa, giochicchia con l’orlo della cravatta.
«Seh. A Marco verrà un infarto,» mormora, e Daniele alza gli occhi al soffitto, ma sta sorridendo.
«Se non era ’sto Torneo era er Quidditch, Cla’, lo sai com’è,» dice. «Daje, se vedemo in dormitorio.»
E se ne va, naturalmente non prima di aver lanciato un’occhiatina sospettosa a Del Piero. Claudio si strofina le mani sulla faccia e tra i capelli, esausto; vuole solamente poter scappare nel bagno dei Prefetti al terzo piano e affogarsi in un bagno infinito pieno della sua schiuma preferita, quella che fa le bolle turchesi a forma di animali, però poi c’è Del Piero che gli stringe una spalla, che gli si avvicina, che gli sfiora il viso con una mano, sollevandogli il mento.
«Ehi,» soffia, e gli fa un sorriso delicatissimo e il cuore di Claudio martella così forte che gli sfonderà il petto. «Sopravviveremo anche a questa.»
Claudio dovrebbe fargli presente che è contro il regolamento del Torneo, offrire aiuto ai Campioni. Dovrebbe, davvero.

*

Per una settimana intera, Marco campa con le sole ore di sonno che può concedersi durante le lezioni di Ancelotti; durante la notte è troppo impegnato a pattugliare avanti e indietro in gran segreto tutto il territorio entro i confini della scuola per preoccuparsi di cose sciocche e inutili tipo dormire.
Alla fine i suoi sforzi vengono premiati, e riesce a scoprire con un mese di anticipo il segretissimo ostacolo che quei due coglioni che ha per migliori amici dovranno affrontare come prima prova.
Draghi.
Seriamente. Degli stracazzo di draghi.

*

Nessuno dei quattro Campioni sembra sorpreso e terrificato quanto dovrebbe essere chiunque sia posto di fronte all’inaspettata necessità di affrontare un lucertolone mortale che respira fuoco, è immune alla stragrande maggioranza degli Incantesimi noti ad un mago di diciassette anni ed è, di solito, delle dimensioni di una catena montuosa; al Ministro, più che altro, i ragazzi sembrano parecchio costipati, ma sarà un effetto della tensione.
Gerrard è il primo, e delizia il pubblico di Triora correndo su e giù per novanta minuti, schivando con sorprendente agilità tutte le vampate di un irritato Grugnocorto Svedese, finché non riesce, dopo cinque minuti di recupero e svariate richieste di calci di rigore, a mettere le mani sullo stupido uovo dorato che poi è lo scopo della prova.
Dopo di lui, Claudio, secchia irritante che non è altro, non fa più di due passi dentro l’arena. Infastidisce il suo Dentedivipera finché quello non si decide a dargli addosso, e poi aspetta proprio l’ultimissimo istante prima di sferrargli - quasi pigramente - un Conjunctivitis di potenza pazzesca, direttamente negli occhi; il drago, che gli era arrivato talmente vicino da inzuppargli la manica della veste con il veleno che gli grondava dalle zanne, scappa via con un guaito, e nel giro di cinque minuti quel cretinetto di Claudio ha il suo bell’uovo sotto braccio.
Casillas perde un’infinità di tempo a tentare di distrarre uno già svogliatissimo Lungocorno rumeno, e alla fine si risolve a scagliare sull’uovo, dall’altra parte del campo, un Incantesimo di Levitazione; il drago si risveglia, allora, e tenta in tutti i modi di riprendersi quella patacca dorata, ma il tira e molla palesemente non è il suo gioco. Casillas, a un certo punto, dà uno strattone alla propria bacchetta, strappando l’uovo dalle grinfie del drago; non ne controlla la traiettoria, perché l’Incantesimo si è spezzato, ma riesce a prenderlo al volo, con una prodezza acrobatica piuttosto impressionante, e, dopo Claudio, è stato lui il più veloce.
Daniele, che va per ultimo, ha una strategia.
No, veramente. L’hanno elaborata lui e Marco, e ci hanno sputato su sangue invece che impegnarsi sui compiti - Daniele, perlomeno; Marco è capace di fare tutto quello che deve, a parte dormire, e pure decentemente, - per cui, pure se ha avuto tipo due ore per crogiolarsi nel suo brodo di angoscia e paura, non scende nell’arena completamente terrorizzato.
No, davvero.
Ha una strategia. Ce la può fare.
L’uovo gli sembra distante svariate centinaia di migliaia di anni luce, e l’Ungaro Spinato è la quintessenza di tutti i suoi incubi peggiori. Però Daniele ha una strategia.
«Accio Tornado!» grida, nel silenzio attonito del primo pomeriggio ligure. In realtà c’è tutta la scuola che urla a squarciagola, intorno a lui, facendo più chiasso che uno stadio alla Coppa del Mondo, solo che Daniele non sente niente, e probabilmente è meglio così.
La strategia, comunque, ha una grossa falla, e Daniele si ritrova a fronteggiarla muso a muso circa quarantacinque secondi dopo aver Appellato la sua scopa; lo Spinato non ha la minima intenzione di aspettare i suoi comodi e, per di più, sembra pure particolarmente incazzato.
Accidenti a Morgana.
Tutto quello che Daniele può fare, allora, è scappare, dal momento che non è a prova di fuoco né di artigli. Perché non ha dato retta a Marco che voleva fargli indossare un’armatura, comunque?
Al centro dell’arena c’è un dislivello circolare, disseminato di rocce e sporgenze che sembrano abbastanza ignifughe; Daniele è lì che corre, non appena lo Spinato dà uno sbuffo di fiato rovente, e gli pare di aver corso in tondo, acquattandosi ogni volta che può, per un’eternità, quando, finalmente, per un minuto intero non ci sono più fiammate spaventose a lambirgli la cima della testa.
Daniele, cauto, si affaccia al di là dello spuntone di marmo che gli ha offerto riparo, e si accorge che lo Spinato è lontano più di dieci metri, circondato e tormentato da quello che pare un branco di lupi ed enormi serpenti. Uh. Strano.
Quello che nota subito dopo, comunque, e che ha ben maggiore importanza, è che quella stronza della sua Tornado si è degnata di fluttuare fin qui; dunque, Daniele balza fuori dal suo nascondiglio e corre a inforcare la scopa.
È al sicuro, in aria. È al sicuro, con la strategia sua e di Marco.
È al sicuro, e senza neppure rendersene conto ha già l’uovo tra le braccia.

*

«È una presa per il culo, ’sto Torneo,» sbotta Francesco, ficcandosi in bocca una cucchiaiata di budino dopo l’altra, a ripetizione. Daniele e Marco sono vagamente disgustati dallo spettacolo, Claudio è andato a sedersi dall’altra parte del tavolo mezz’ora fa e nessuno vuole davvero sapere perché il Torneo sia una presa per il culo, perciò Francesco lo spiega. «Tutte ’e prove, i Campioni, i draghi e bla bla bla... cor cazzo, dico io! Il vero pericolo mortale lo affrontiamo noi, altroché!»
Brandisce il cucchiaio come uno scettro, e Marco, a questo punto, è un pochino curioso, per non dire mosso a pietà.
«Fra’, ma di che stai parlando?» domanda, gentilmente.
Francesco sgrana gli occhi, sconvolto.

*

«Der Ballo der Ceppo, stavo parlando!» sbuffa, esasperato, il giorno dopo, mentre lui e Daniele s’inerpicano su per le scale della torre di Astronomia. «Seriamente, Lele. Esiste qualcosa di peggio?»
Daniele ha una splendida ustione che si sta pian pianino riassorbendo proprio in mezzo alla schiena, souvenir del suo incontro con lo Spinato, e che gli rende praticamente impossibile stare seduto, stare in piedi, camminare, stare sdraiato, fare qualunque cosa; ciononostante, no, non gli pare che esista qualcosa di peggio del Ballo del Ceppo.
«No, in effetti no.»
«Lo vedi?!» esclama Francesco, gettando le mani per aria. «Pe’ Marcolino è facile parlare, a lui je basta schioccà’ ’n attimo le dita e c’ha tutte ‘e ragazze che vole, ma io e te, Lele, io e te è ’na cosa diversa. Io e te semo òmini veri, c’abbiamo i sentimenti! È teribbile, no, quanno uno c’ha i sentimenti.»
Daniele annuisce, distratto.
Sta pensando a Tamara, vedi un po’. A Francesco non lo dice, ma ci sta pensando; perché lei gli ha spezzato il cuore e Francesco, giustamente, la odia, ma Daniele ancora no, e ieri, durante l’ora di Divinazione, Tamara gli ha sorriso. Chiaramente, vuole essere invitata al Ballo del Ceppo da lui.
Daniele è in crisi, e l’unica cosa che sa - dato che gliel’ha detto Marco, - è che non deve dirlo a Francesco. A Claudio sì, a Claudio va bene - «Tanto quello c’ha altri cazzi per la testa, anzi, casomai se è distratto abbastanza finisce che glielo chiede lui, a Tamara, di portarlo a ’sto Ballo,» ha sbuffato Marco, innervosito da chissà che cosa, - ma a Francesco, che ancora mette mano alla bacchetta, con l’odio negli occhi, ogni volta che incrocia Tamara in corridoio, per la barba di Merlino, a Francesco non va detto.
E, insomma.
Daniele magari la invita davvero, Tamara. Qualcuna la deve invitare per forza, e l’unica altra ragazza con cui abbia parlato più di mezza volta è Ilary, e, come dire, no.
«Daniele,» Francesco gli schiocca le dita davanti agli occhi, e Daniele sobbalza. «Daniele, vedi de finilla, lo so che stai a pensa’ a Ilary. No, Daniele, vabbè? No.»
«No, no!» scatta Daniele, agitando le mani e avvampando nella perfetta epitome dell’uomo colto in flagrante di reato. «Giuro che no’ stavo a pensa’ a lei, France’, giuro!»
E, nella foga di discolparsi, va a sbattere contro qualcosa, qualcuno - qualcuno, qualcuna. Tre o quattro libri precipitano al suolo, dopo l’impatto tra il braccio di Daniele e la spalla della ragazza, e lui si volta di scatto, subito si china a raccogliere i più vicini.
«Scusa,» dice, un po’ impacciato, porgendole i due volumi polverosi. La prima, primissima cosa che nota di lei sono le labbra - rosate e piene e Daniele non ce la fa a non pensare a un’infinità di cose dolcissime che gli piacerebbe fare a quella bocca.
Si ritrova un deserto, dalla gola in giù, quando lei gli fa un sorriso timido e delizioso.
«No, figurati,» mormora, risollevandosi appena appena a fatica sotto il peso dei libri.
Daniele vuole morderla, e ha perso qualsiasi barlume di ragionevolezza; soprattutto, s’è dimenticato di dover andare a lezione.
«Vuoi una mano?» chiede, di slancio, accennando al carico che la ragazza tiene tra le braccia. «Ti posso accompagnare, non è un problema.»
Lei ci pensa su per un istante - ha gli occhi grandi e castani, i capelli scurissimi, lunghi e disordinati, è bellissima, - e alla fine annuisce.
«Grazie,» dice. «Sei gentile.»
Daniele fa un sorriso cretino.
Non è che è gentile; cioè, non è solo quello. È che è già innamorato.

seconda parte »

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