Titolo: Breaking habits just to fall in love
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Steven Gerrard/Georg-- Xabi Alonso, Carra, Dirk
Rating: R
Conteggio Parole: 6800 (
fidipu)
Avvertimenti: university!AU, slash, fluff, minkyate
Prompt: quadro + NSFW @
Cow-T 2, come al solito su
maridichallenge.
Note: eeeeeeeeeeeeeeee buon compleanno, Brappu, parte seconda <333333333333333333333 Devi sapere che il tuo regalo originario era tutt'altra cosa, però quando mi sono messa a scriverlo mi sono resa conto che grondava angst in una maniera tremenda e, accoppiato al DDRRLL di cui prima, non faceva una gran figura. Perciò ho rimandato, ed eccomi qui con questo fluff che non finisce mai (e in verità è potentemente angst anche lui, per un pezzo, ma shhhhhhh! Sii buona e fai finta di niente XD) e, boh, auguri. <3
- PS, poiché si parla di quadri:
Il massacro di Scio,
Der Wanderer e
Il bacio.
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.
~ Breaking habits just to fall in love.
Storia dell’Arte, quindi. Stevie è abbastanza sicuro di potercela fare - ha passato esami che la gente aspetta di avere i capelli bianchi prima di tentare, è sopravvissuto a professori fuggiti in pompa magna dal manicomio e ad assistenti parecchio prossimi a farcisi internare spontaneamente, ce la può fare. È all’ultimo anno di Economia, a tanto così dal potersi portare a casa quel pezzo di carta plastificata cui suo padre tiene così tanto - che poi, gliela plastificheranno davvero? Carra ha giurato di sì ma Stevie ha imparato a non fidarsi mai del tutto di Carra, soprattutto quando giura con quella faccia lì, - e ad intralciargli la via rimangono un paio di materie inavvicinabili del suo corso, e poi, naturalmente, l’esame a scelta.
Storia dell’Arte, ha deciso, in un momento di ispirazione, la scorsa notte. O forse è stato sabato. Insomma, ha deciso. Era abbastanza ubriaco e sbracato sul divano di non si ricorda esattamente chi, ma ha deciso; storia dell’arte. Il fatto è che Stevie è perseguitato da questo esame a scelta fin da quando era una matricola, perché c’è troppa scelta, vedi? Lui ha più o meno sempre saputo dov’è che sarebbe andato a finire, e dove indirizzare tutti i suoi sforzi: una carriera tranquillamente brillante nell’azienda di suo padre, sposarsi tra i ventotto e i trentadue anni, un paio di figli, niente animali, Carra per migliore amico fino alla morte e un appartamento il quanto più lontano possibile da Albert Dock - magari una villetta nuova di zecca su Anfield Road, se le banche non lo dovessero ridurre sul lastrico.
Cristo, Stevie è quello che da quando aveva sei anni scrive settimanalmente alla società del Liverpool per chiedere quand’è che finalmente metteranno in vendita degli abbonamenti a vita allo stadio.
Per cui, è abituato a viaggiare come un treno, Stevie, come un tram, con i binari e le fermate stabilite - le partite, le sbronze il venerdì sera, Natale con i suoi e Capodanno in giro con Carra e poco altro, davvero, - e i sedici miliardi di anni che gli ci vogliono per frenare.
E poi è arrivata l’università, l’appartamento nuovo e il doversi lavare da solo le mutande, ma pure quella non è stata una sorpresa, pure quello era preventivato fino all’ultimo dettaglio - Stevie ha imparato a usare la giusta quantità di ammorbidente a quattordici anni, ne è piuttosto fiero. Solo che un bel giorno ha guardato il suo piano di studi, e tutte le paure che neppure sapeva di avere hanno preso forma in quella dicitura tremenda, esame a scelta dello studente. Peggio che i sorteggi di Champions, davvero, considerando pure che quelli non riescono più a mettere ansia a Stevie da un bel po’ di anni, urgh, che depressione.
Esame a scelta. Carra lo ha aspettato con una gioia indescrivibile, ha disegnato cuoricini tutt’attorno al quadratino sulla sua copia della Guida dello Studente, e invece Stevie, una volta, ha trascorso una giornata intera ad implorare chiunque fosse disposto a dargli ascolto di decidere al posto suo. Poi ha deciso di affrontarla razionalmente, e si è messo a girare per la facoltà, facendo indagini di mercato tra tutti gli studenti e classificando i vari corsi in base alla brevità e semplicità del programma, piacevolezza delle lezioni e grado di pazzia del professore. Il diagramma gli è valso i complimenti del suo insegnante di Statistica, ma non è servito neppure lontanamente a far fuori i suoi dubbi, e quindi Stevie s’è trascinato dietro questo interrogativo fino, appunto, all’altra notte, o sabato sera, non è che quand’è ubriaco si segna la data e l’ora del momento in cui prende una decisione.
Storia dell’Arte.
Stevie non ricorda dove ha dormito né quando si è svegliato e neppure se ha baciato qualcuno - ma è piuttosto sicuro di no, - però sa con una certezza disarmante di aver scelto, a un certo punto, storia dell’arte. Cerca l’esame sulla sua Classifica dei Corsi, e quella gli dice che è mediamente affrontabile, ha un programma decente e il professore è uno dei più affabili dell’ateneo.
Beh, insomma, poteva andare peggio. Quantomeno non vegeta più nell’incertezza totale.
Storia dell’Arte, quindi. Stevie, veramente, ce la puoi fare.
*
Dio, Stevie non presterà mai più fede ai sondaggi popolari. Il corso di Storia dell’Arte è noioso, noioserrimo e per di più dopo pranzo; Stevie sarebbe più che contento, di norma, di accoccolarsi in una seggiola in ultima fila e appisolarsi finché qualche anima pia non lo scuote per avvisarlo che la lezione è finita da venti minuti, - è così che è sopravvissuto a Macroeconomia, per dire, - però il professore è uno di quelli che in un’altra vita cantavano all’Opera, o forse ancora lo fanno, come hobby, e senza microfoni.
Il suo gran vocione poderoso rimbomba sulle pareti dell’aula stretta, umida e buia, ed è praticamente impossibile prendere sonno con un tale fracasso di sottofondo; quelle poche volte in cui Stevie è stato vinto dal ciondolare pesante delle proprie palpebre, si è svegliato dopo neanche un attimo con un sobbalzo, perché Cristo santo, provateci voi a dormire con un elefante che ti garrisce allegramente a cinquemila decibel sotto il naso.
Perché, naturalmente, Stevie non riesce mai ad arrivare abbastanza presto da rifugiarsi in fondo all’aula. Ha il corso di lingua straniera, prima di Storia dell’Arte - ha preso spagnolo, perché l’ha preso Carra, dopo aver letto da qualche parte che le ragazze impazziscono per lo spagnolo, anche se Stevie è piuttosto sicuro che l’italiano funzioni meglio, - e naturalmente quello lo segue dall’altra parte dell’ateneo, e finisce poco meno di venti minuti prima, mentre ’sti stronzetti che ha per compagni al massimo devono salire tre piani di scale; quindi, quando Stevie finalmente varca la porta di questo malefico corso, solitamente col maglioncino pieno di briciole del panino che ha divorato in tutta fretta strada facendo, trova già tutte le preziose ultime file occupate, ed è già tanto se non è costretto a prendere uno dei posti centrali, là davanti.
Probabilmente, quindi, seguire Storia dell’Arte non è stata la decisione migliore che Stevie abbia mai preso, ma Stevie, in generale, non è mai stato tanto bravo a prendere decisioni, basta sentirlo tentare di biascicare un buenos días per rendersene conto.
Stupida, stupida Storia dell’Arte.
*
Oh, santo cielo.
Stevie è riuscito a strappare un passaggio in motorino da Dirk, oggi, dopo spagnolo, perché ha scoperto che la ragazza di Dirk segue le sue assurdità da umanista nello stesso palazzo in cui Stevie fa Storia dell’Arte e Dirk è gentile e Stevie è un amico, per cui non ha dovuto neanche tormentarlo troppo a lungo per farsi passare il suo casco di riserva e ricevere il permesso di arrampicarsi dietro di lui.
Quindi, Stevie è arrivato con un buon quarto d’ora d’anticipo, stamattina. Si è affannato su per le scale, inebriato dal pensiero, per una volta, di non dover entrare in aula subito prima o subito dopo il professore, ed è una sensazione magnifica, soprattutto perché accompagnata dalla consapevolezza che ha finalmente detto addio all’imbarazzo della seconda fila, e gli pare che d’improvviso il mondo abbia cominciato a splendere di colori molto più piacevoli e caldi e Stevie varca la soglia dell’aula e, oh, santo cielo, perché c’è tutta questa gente?
«Ma che palle,» sbuffa, passandosi una mano tra i capelli e sfilandosi la tracolla. Un’occhiata gli basta a determinare che, sì, è tutto pieno, ma proprio tutto, ci sono persino un paio di sedie accostate alla scrivania del professore. Non va per niente bene.
Stevie passa a setaccio l’aula con lo sguardo, fila per fila, e finalmente lo vede, là! Un posto, chiaramente più centrale che il centro della Terra, che gli pare miracolosamente non occupato, non ci sono giacconi né zaini né quaderni né portapastelli né penne sul ripiano reclinabile; Stevie ci si avvia tentando di fingersi disinteressato, perché non vuole attirare l’attenzione di nessuno degli altri poveracci che, come lui, non sono qui da stamattina alle sette, e discretamente domanda alla prima ragazza della fila se lo sta conservando per qualcuno, quel posto lì.
Lei scuote piano la testa, gli sorride con gentilezza e si alza per lasciarlo passare. Stevie fa del proprio meglio per non alzare gli occhi al soffitto quando si rende conto che dovrà scavalcare mezza dozzina di persone, e benedice tutti gli anni passati allo stadio a non capitombolare giù dalla Kop che, palesemente, gli sono serviti da allenamento per quest’unico momento. Il problema, però, è che persino in curva c’è più spazio, tra una fila di seggiolini e l’altra, che qui in aula, e che lì la gente non dissemina il pavimento di borse e cartelline e zainetti tutti inevitabilmente pieni di stringhe in cui Stevie non può non inciampare in continuazione.
Si sta scusando a raffica da che ha messo piede nello striminzito corridoietto, quando finalmente arriva ad una sola persona dal suo obiettivo; il ragazzo sta scribacchiando qualcosa su un quaderno, è tutto piegato da una parte e probabilmente ha bisogno di andare dall’oculista. In qualche modo, comunque, si accorge di Stevie che sta lì in equilibrio sulla punta di un piede - perché se mettesse giù il tallone calpesterebbe, di nuovo, il prezioso stivale della ragazza alle sue spalle, - e alza la testa, lo guarda.
«Ehi,» biascica Stevie, allungando un po’ le braccia per tentare di non capitombolare in avanti. «È libero, quel posto lì?»
E per un momento si aspetta, ottimista com’è, che il ragazzo gli riveli che, oh, scusa tanto, veramente no, è per la mia ragazza o mio fratello o il mio amico immaginario, tornatene da dove sei venuto; invece, quello si volta un po’ a scrutare la sedia lì accanto - come se non riuscisse a credere che c’è davvero un posto vuoto, e in effetti lo si potrebbe considerare facilmente un miracolo, - e alla fine fa a Stevie un sorriso educato, forse un po’ timido, in ogni caso niente affatto attraente. Davvero. Stevie non trova attraente gente a caso nel suo stupido corso di Storia dell’Arte.
«È libero, sì,» dice il ragazzo, e un momento dopo sta raccogliendo la propria roba - quaderno e portapastelli e tracolla che teneva appoggiata sulle gambe, - e Stevie non capisce, non capisce davvero, finché non lo vede ripiegare e mettere a posto il ripiano, e poi spostarsi sulla seggiola più in là. Per evitargli di scavalcare ancora. Oh.
Stevie è così sorpreso che si dimentica pure di ringraziare; si siede, si rende conto di essersi seduto, ignora il fatto di essere probabilmente arrossito e si volta verso il ragazzo, che intanto è tornato al suo quaderno.
«Ehi, uh, grazie,» dice, corrugando un pochino la fronte. Quello alza gli occhi, gli sorride - non è niente, - riabbassa gli occhi. Stevie si sente davvero in colpa a disturbarlo di nuovo, ma ormai hanno aperto un canale di comunicazione, no? E il tizio gli sembra molto più simpatico - per non dire bello, e Stevie non l’ha pensato, - della ragazza dall’altro lato. «Uh, senti... ma perché c’è tutta questa gente?»
Il ragazzo rimane in silenzio per un momento, mordicchia il tappo della penna e poi lo allontana di scatto, come se si fosse ricordato di punto in bianco che non è una cosa educata da fare; le labbra di Stevie si arricciano spontaneamente all’insù.
«Il professore faceva lezione due volte a settimana, prima,» dice il ragazzo, alla fine. Parla piano, a voce bassa, e lentamente, e forse Stevie si sta sporgendo un po’ troppo verso di lui. «Adesso, solo il lunedì.»
«Oh,» dice Stevie, e poi passa il resto della lezione a domandarsi quale potrebbe essere il modo meno cretino di presentarsi, però non ne trova nessuno.
*
Tra le tante cose che Stevie fa perché sì, perché è così che dev’essere, e quindi tra tutte le cose che Stevie fa - a parte seguire Storia dell’Arte, - c’è pure il fatto di odiare il lunedì; perché è la fine del weekend, perché ricominciano i corsi e il lavoro e la vita ripetitiva di sempre e tutto il resto.
Solo che adesso Stevie il lunedì lo odia un po’ meno, perché c’è il maledetto corso di Storia dell’Arte e lui e George - che sarebbe il ragazzo che gli ha ceduto il posto un paio di settimane fa, quello che parla lentamente e ha una voce praticamente ipnotica e gli occhi ambrati, e che non si chiama davvero George, è Stevie che l’ha ribattezzato così perché non esiste che si metta a parlare con Carra di quel tizio a Storia dell’Arte per cui ho una cotta imbarazzante, - sono praticamente amici, adesso. (Praticamente descrive un ampio spettro di significati, e lo stesso vale per amici, chiaro.)
Il posto accanto a lui, da quella prima volta, è sempre lì vuoto, e se Stevie fosse un pochino più sveglio, o complottista, o una ragazza, comincerebbe a sospettare che forse George lo tiene occupato per lui. Chiacchierano un po’, quando il motorino di Dirk è veloce abbastanza da riuscire a far arrivare Stevie sufficientemente prima del professore, e prevalentemente di calcio - anche George è del Liverpool, grazie al cielo, - oppure del tempo, perché Stevie non è un gran conversatore e George, più che altro, sembra parlare solo quando è interpellato.
Poi, un lunedì che è circa il terzo dalla prima volta che si sono sorrisi a vicenda, Stevie si distrae a guardare una mosca - Stevie si distrae spesso, soprattutto a Storia dell’Arte, e in genere è per via di cose più interessanti di uno sciocco insetto rimbambito dal freddo, ma George l’ha già beccato due volte, oggi, che s’è incantato a studiare il profilo del suo naso, per cui ha pensato di evitare d’imbarazzarsi di nuovo, - e poi, quando si risintonizza sulla spiegazione del professore, si accorge di non avere idea di che cosa stia dicendo. Lascerebbe perdere, normalmente, e si distrarrebbe di nuovo, ma per una volta lo prende un genuino interesse per l’argomento, - sta parlando del massacro di qualcosa, se non ha capito male, e, ehi, i massacri sono divertenti!, - perciò Stevie, molto discretamente, si allunga a sbirciare gli appunti di George.
Poi si allunga un po’ meno discretamente, perché la grafia di George è minuta e strettissima e magari è il caso che dall’oculista ci vada anche lui, e poi finisce a invadere il banchetto di George perché, uh, ok, non c’entra niente la grafia, qui è Stevie che ha le allucinazioni; matanza non è mica una parola, no?
Stevie si stropiccia gli occhi, guarda di nuovo. No, quel matanza è ancora lì che lo guarda. Uh. Sente uno sbuffo soffocato e divertito, vicino all’orecchio, e si rende conto di avere un po’ esagerato; Stevie si raddrizza, tossicchia. George sta mordendo un sorriso, e lo guarda, e Stevie si sente avvampare come un bambino. Lo vede scribacchiare qualcosa su un angolo del quaderno, e si sporge un pochino per leggere.
your eyes are okay, it’s spanish, dice George, e Stevie vorrebbe chiedergli perché cavolo prenda appunti in spagnolo, ma non vuole disturbare la lezione, e non vuole imbarazzarsi oltre, per cui mette su un’espressione che spera significhi oooooh, ora è tutto chiaro!, e tossisce di nuovo, piano piano.
George non smette di sorridere per il resto dell’ora, e Stevie, siccome è cretino, decide di seguire il consiglio di Carra - dev’essere la prima volta nella sua vita, oh, Dio, palesemente questa cosa dell’esame a scelta l’ha fatto impazzire; alla fine della lezione, domanda a George se per caso ha voglia di un caffè.
*
Sono le quattro del pomeriggio, e la caffetteria di fronte alla facoltà è affollata come una fermata dell’autobus all’alba, però Stevie e George riescono, in qualche modo, a sgusciare fino al bancone e piazzare le loro ordinazioni in tempo record.
«Wow, siamo stati bravi,» sorride Stevie, che ha la testa un po’ leggera perché George è lì con lui a prendere un caffè. Non che ci sia qualcosa di strano in due amici che prendono il caffè; non che Stevie abbia mai pensato o sperato di fare altro. Assolutamente no. Si sposerà tra i ventotto e i trentadue anni, Stevie, avrà un paio di figli, niente animali, un appartamento tranquillo e lontano dal porto e, se magari le cose gli vanno bene, una casetta ad Anfield Road; e se l’universo decide di voler essere incredibilmente generoso con lui, avrà il suo abbonamento vita natural durante allo stadio.
Non c’è spazio per una cotta per il suo compagno di corso a Storia dell’Arte; non è contemplato, però George, se vuole, magari può venire ad Anfield con lui. Magari possono essere amici.
George ridacchia, gioca distrattamente con una bustina di zucchero. Hanno già parlato della partita di sabato e di quella di domenica prossima, mentre scendevano le scale, e si sono permessi addirittura una digressione sui mondiali di Formula Uno, perciò Stevie ha finito le cartucce. Però è contento. E, a margine, sta potentemente morendo d’imbarazzo, ma non importa.
George si pizzica la punta del naso - è una cosa che fa, ha imparato Stevie, quando è incerto su cosa ha appena detto il professore, o non si ricorda con precisione una data, e stavolta non è che può rivolgersi al tizio seduto accanto a lui; non Stevie, quello dall’altro lato. Stevie non è molto affidabile, quando si tratta di essere seri e diligenti e prendere appunti.
Alla fine, George sembra riuscire a risolvere da solo il dilemma che lo attanaglia - ed è anche questa una cosa che fa spesso, Stevie se n’è accorto; non è uno che chiede aiuto tanto facilmente, George, e, uh, l’orgoglio è una qualità che Stevie apprezza molto. Nelle donne. Naturalmente.
«Xabi,» dice George, alla fine; Stevie sbatte gli occhi, confuso, perché non ha mai sentito di un caffè chiamato xabi. Gli italiani non sanno proprio più cosa inventarsi. George si accorge di averlo perso, ridacchia, fa marcia indietro. Gli porge una mano. Uh? «Mi chiamo Xabi,» chiarisce, e Stevie quasi gli dice, no, ti chiami George. Si morde la lingua in tempo, grazie al cielo, e stringe la mano di George. Xabi. Oh.
Quantomeno adesso ha un senso che prenda appunti in spagnolo.
«Oh, ok, ciao, piacere,» annuisce Stevie, impacciato; Geo-- Xabi ridacchia, piegando un po’ la testa, la bocca che scompare oltre il bavero del cappotto. Stevie si ricorda, di punto in bianco, che sono due mesi che segue un corso di spagnolo. «Uh, yo... tengo? Yo tengo Steven, Stevie,» dice, con la faccia più seria che ha.
Xabi ride di nuovo; le sue orecchie sono rossissime.
«Soy,» dice, con un sorriso deliziato; Stevie non capisce cosa c’entri la salsa di soia, adesso, e non è mai stato bravo a camuffare le proprie espressioni. «Yo soy, o bueno, me llamo.»
Oh.
«Oh. Ok. Ok, quindi yo... soy Stevie,» ritenta, mordicchiandosi la punta della lingua, e Xabi annuisce, contento.
«Muy bien,» dice, e Stevie magari si porta un quaderno per prendere appunti, giovedì, a spagnolo.
Il ragazzo dietro il bancone finalmente sfodera le loro ordinazioni - ha servito quattro persone in coda alle loro spalle, nel frattempo, e se Stevie non fosse così perso a studiare il colore impossibile dei capelli di George - Xabi - si sarebbe anche lamentato, o più probabilmente no, - e Stevie si aggrappa al suo macchiato al caramello come se fosse una sciarpa del Liverpool.
Xabi lo precede di fuori, dal momento che non c’è neppure un’ombra di tavolino non occupato, - ah, la prevedibilità della vita di Stevie! - e poi si guarda attorno, vagamente in imbarazzo.
«Ti va... una passeggiata?»
Stevie annuisce, rinvigorito dal caffè.
«Solo se non devo più parlarti in spagnolo,» sorride, e sorride un po’ di più quando Xabi ridacchia.
«Affare fatto.»
C’è un campanello d’allarme che impazzisce, sul fondo della testa di Stevie. Affare fatto.
*
Georg-- Xabi è più piccolo di Stevie di un anno. Xabi è a Liverpool in Erasmus. Studia lingue straniere alla Complutense - sarà una qualche famosissima università spagnola, Stevie non vuole rendersi ridicolo domandando, - e beve il caffè senza zucchero e la prima cosa che ha fatto, arrivato in città, è stata andare a vedere lo stadio. Poi il monumento a John Lennon. Poi è andato a cercarsi una casa.
Xabi non è proprio spagnolo di Spagna, è basco, e la lingua che parlano lì è un’accozzaglia incredibile di consonanti che nessuna persona normale vorrebbe pigiare insieme nella stessa parola. Non è per niente eccitante. Stevie non è per niente eccitato. Stevie si sposerà tra i ventotto e i trentadue anni, avrà un paio di figli, niente animali, quella benedetta casa lontano dal porto o su Anfield Road e farà le vacanze dovunque sua moglie vorrà, perché non esiste che decida lui.
Stevie non chiede a Xabi un appuntamento. Se vuoi, domenica allo stadio ci andiamo insieme non è un appuntamento. Ci sarebbero andati entrambi comunque.
*
Un bel lunedì - e Stevie ancora la sente, l’assurdità di definire bello un lunedì, ma ormai i suoi lunedì sono belli tutti e questo in particolare, perché ieri il Liverpool ha fatto il culo allo United e lui, per un momento, ha potuto abbracciare Xabi, - il professore di Storia dell’Arte si presenta in classe con un proiettore.
«Woah,» soffia Stevie, impressionato dai prodigi della tecnica. Xabi, accanto a lui, ridacchia e gli dà una specie di goffo schiaffetto sul braccio. Stevie sogghigna e mastica una matita, mentre il professore e il bidello del piano, combinando gli sforzi, riescono a montare il miracolo tecnologico.
Sulla parete dietro la cattedra compare il ritratto un tizio in piedi in cima a una specie di montagna, - scusate le spalle, - circondato da un mare di noiosissimo grigiolino; l’aula è talmente bassa e la diapositiva talmente grande che la proiezione si piega, finendo per buoni venti centimetri sul soffitto. Qualcuno ha la geniale idea di spegnere le luci, e Stevie distingue una serie di spuntoni di roccia, sullo sfondo del quadro, che sbucano da quella che, adesso, sembra una sorta di nebbia, o di nuvole molto basse. Commovente, davvero.
Xabi si accorge della sua espressione perplessa e sospira, esasperato.
«Stevie, è un dipinto famoso,» dice, probabilmente con affetto. «Il viandante sopra il mare di nebbia? Non ci credo che non l’hai mai visto.»
E, d’accordo, ora che glielo fa notare, Stevie ha l’impressione un po’ vaga che ci sia qualcosa di familiare, nel cappotto del tizio, ma forse sta solo tentando di compiacere Xabi. Il professore sciorina dati sul dipinto e sull’autore, che Xabi annota giudiziosamente, e poi si mette a blaterare cose filosofiche e probabilmente a caso sull’Esistenzialismo o qualcosa del genere, e su certi scrittori italiani e inglesi e Stevie è ancora vagamente sbronzo per ieri sera - ha dovuto distrarre Carra con l’alcol, perché altrimenti quello non avrebbe mai smesso di assillarlo con la sua sciocca teoria per cui Stevie si sarebbe innamorato di Xabi, - perciò chiude gli occhi, sprofonda nella sedia, si appoggia un pochino alla cosa più morbida e calda che trova nei paraggi - la spalla di Xabi, - e si appisola.
*
Non è che Xabi torna in Spagna domani, eh, o tra una settimana. Ci sono ancora quattro mesi, praticamente una vita, e poi la Spagna non è neanche lontana, non è irraggiungibile. La testa di Stevie comincerebbe a fare piani assurdi di voli oltre la manica ogni quindici giorni, se lui non la zittisse categoricamente.
Non esiste.
Deve laurearsi, lui, e prendere a lavorare nell’azienda di suo padre. Sposarsi a, quant’era? Trentadue anni, trentacinque? Trentacinque, sì, non suona male. E poi, adottare due figli - no, no, farli, due figli. Magari due figlie. E potrebbe prendersi un cane, a Xabi piacciono i ca-- niente animali, Stevie. Niente animali e niente casa al mare a Donostía, anche se è la spiaggia più bella d’Europa; o magari sì, d’accordo, la casa al mare lì ci può stare, ma non a due passi da quella dei genitori di Xabi, abbi pietà.
Vabbè.
Storia dell’Arte ha davvero reso Stevie un povero pazzo.
«Com’è che funziona, l’Erasmus?» domanda, allora, il povero pazzo, che di certe cose non si è mai preso la briga d’interessarsi, un pomeriggio che, per qualche ragione, sono in biblioteca a studiare.
Xabi alza gli occhi dal libro che stava leggendo - un tomo polveroso e scritto minuscolo, che a Stevie fanno male gli occhi solo a guardarlo, - inclina un po’ la testa di lato.
«In che senso?» chiede, sottovoce. Stevie si gratta una guancia. Non lo sa neanche lui, in che senso; Carra lo saprebbe, ma Carra, bastardo, pensa sempre di sapere tutto e poi, alla fine, non sa mai niente, Stevie ha deciso così.
Alla fine, si stringe nelle spalle.
«Si può, per esempio, uh, chiedere... una proroga?» si decide a biascicare, arrossendo. Agita una mano per aria. «Sai, per tornare a casa più tardi.»
Xabi stringe le labbra e non risponde, però Stevie si accorge che sta sorridendo.
*
La festa per la conclusione del corso di spagnolo non doveva essere niente di che, solo una roba informale per avere la scusa di abusare le nuove capacità linguistiche che - non - hanno acquisito in tre mesi e, più che altro, per sfondarsi di sangria fino a vedere i sorci - o i tori sarebbe più appropriato? - verdi, solo che Stevie commette il grave errore di prendere appuntamento con Carra fuori dall’aula di Storia dell’Arte, per andare a comprare gli alcolici e le ultime decorazioni per l’appartamento, perché, sai, così risparmiano tempo, e Carra ha la macchina, e il lunedì non ha niente da fare.
È un piano che non fa una piega, in teoria, ma in pratica Carra è un enormissimo stronzo, e invita Xabi alla festa prima ancora di salutare, porca miseria. E Xabi non ha impegni. Oh, cielo.
Stevie comincia a innervosirsi al supermercato, mentre Carra, col carrello strapieno di tacos e salsa piccante e paella surgelata, spulcia l’intero arsenale di palloncini disponibile, alla ricerca delle confezioni monocromatiche, perché gli servono solo rossi e gialli e niente più. Stevie ha voglia di urlare qualcosa a proposito degli stereotipi profondamente offensivi, ma non ha davvero bisogno di parlare. Carra lo guarda, nota il modo in cui stritola la cinghia della tracolla e l’insolito rossore che gli colora le guance, capisce, e si mette a ridere.
«Stev’, respira. Ti prometto che nemmeno si accorgerà degli insulti alla sua cultura, se fai all’universo il sommo piacere di invitarlo a uscire,» dice; prima di andarsene, mentecatto che è, gli calca in testa un sombrero che Dio solo sa dove ha scovato.
Stevie non è per niente divertito.
*
Xabi è molto divertito.
Gli piacciono da morire, a quanto pare, i tremendi toreri stilizzati che Carra ha incollato alle pareti, le stelle filanti rosse e gialle e i palloncini e addirittura le maracas che Dirk e la sua ragazza distribuiscono tra gli invitati. Stevie lo guarda con gli occhi sbarrati mentre accetta un poncho e, tutto sorridente, se lo infila, sistemandoselo sul petto con le mani bene aperte. E non c’entra niente il fatto che Stevie darebbe via un braccio per avere il coraggio di dirgli, aspetta, si è spiegazzato un po’ qui, e toccargli la schiena e le spalle.
Xabi si riprende il bicchierone di carta pieno di ghiaccio e sangria - fatta in casa secondo la ricetta originale, ha giurato Andy, e Stevie spera che l’abbia comprata, - e un po’ ride.
«Non mi guardare così,» dice, divertito. «Sembra che hai visto gli alieni. Sono capace di divertirmi, sai?» E si morde la punta della lingua, in quel modo adorabile, e, oh, Stevie non ha mai avuto il minimo dubbio che Xabi sia perfettamente capace di divertirsi. O di far divertire lui. Uh.
«No, non è quello,» scolla, agitando una mano e la testa e, in definitiva, agitandosi tutto. «È solo che, uh, pensavo... non-- non ti urta?»
E indica la fiera della banalità che ha messo le tende nel suo appartamento, perché sa che se qualcuno gli ficcasse in mano una tazza di tè e due biscotti, pretendendo di averlo invitato ad una festa a tema inglese, a lui come minimo esploderebbe la testa di rabbia.
Xabi sorride sopra il bordo del bicchiere. I suoi occhi brillano e Stevie fa mezzo passo verso di lui.
«Te l’ho detto, Steven, che non sono spagnolo,» dice. Stevie boccheggia per un minuto intero, ed è ridicolmente grato di non aver scelto il corso di basco.
«Oh,» espira, alla fine. «Oh, ok. Va bene. Se vuoi, uh... vieni, ti faccio vedere il terrazzo.»
Lo deve portar via dal salotto, perché c’è un unico quadro, in tutta la casa, ed è lì, ed è una maledetta riproduzione del Bacio di Hayez, e Stevie ha l’impressione che quei due stronzi stiano lì a giudicarlo.
*
È raro, rarissimo, che di prima mattina a Liverpool non piova, o che ci sia il sole, o che il cielo sia azzurro e terso e quasi da cartone animato, e infatti pure oggi c’è una bella, confortante coltre di nuvole grigiastre e cotonose tutta sdraiata sulla testa della città.
Stevie si sveglia con la faccia rivolta alla finestra, e miracolosamente sorride, ma, più che per il panorama familiare, di casa, è per il peso che gli zavorra giù tutto il lato sinistro del corpo, facendogli formicolare il braccio e impedendogli di sentirsi le dita. Si volta, più piano che può, e rimane fermissimo a studiare l’espressione serena di Xabi che dorme, accoccolato su un fianco, sopra di lui.
È una bella sensazione.
Xabi è caldo, pesante e reale. Stevie gli sfiora i capelli, con la mano che è ancora viva, con tutta la delicatezza con cui potrà voler sfiorare quelli dei suoi figli, o delle sue figlie, tra otto, dieci anni, quando li avrà; sposato tra i ventotto e i trentadue anni, era quello il suo piano. Una famiglia, una casa, un lavoro e poi lo stadio; nel tempo libero una birra con Carra, con Dirk, con qualche altro amico che avrà voglia, come loro, di farsi intrappolare da Liverpool. Non è un brutto programma, e soprattutto non gli fa paura come gliene fa la Storia dell’Arte. Come gliene fa Xabi.
Stevie chiude gli occhi - tre mesi, si dice; tre mesi e Xabi torna a Madrid e magari ci sentiamo su Skype, magari tornerà a trovare Anfield, gli amici, l’università, una volta ogni tanto, magari lo invito al mio matrimonio, però tre mesi e torna a Madrid, tre mesi ed è tutto finito, - e, quando li riapre, Xabi si sta svegliando.
«Buenos días,» mormora, attorno a un sorriso un po’ scemo che si affretta a mettere via. Xabi si stiracchia leggermente, nasconde la faccia contro la sua maglietta.
«’gunon,» brontola, pigro; potrebbe averlo mandato a farsi fottere, ma Stevie ridacchia e, siccome non ce la fa più e gli vuole accarezzare i capelli, gli dà un colpetto affettuoso dietro la testa.
«Non pensavo che fossi così appiccicoso, Xabs,» lo prende in giro, divertito, e Xabi mugola di nuovo, questa volta era decisamente un insulto, prima di rotolare sulla schiena, un po’ troppo spericolato, e infatti rischia di cadere giù dallo strettissimo letto di Stevie. Passato l’attimo di panico, si risistema su un fianco, non appena Stevie tira via il braccio.
«La mia schiena ti ringrazia per avermi permesso di dormire qui,» dice Xabi, nascondendo uno sbadiglio con una mano, e poi si stropiccia il viso, assonnato. Stevie sbuffa un sorrisino, si stringe nelle spalle, ma è ancora abbastanza incriccato sul pensiero di Xabi che ha dormito con lui, stesso letto, stesso cuscino, stesse lenzuola, stessa aria respirata, perciò non gli viene in mente niente da replicare.
«Vado in bagno,» dice, sottovoce, anche se l’ultima cosa che vuole, in questo momento, è alzarsi; Xabi annuisce, non lo prega di rimanere né niente del genere - naturalmente, - e Stevie, strada facendo, decide di farsi addirittura una doccia, sai, nella speranza che poi, quando ne viene fuori, nel frattempo Xabi si sarà riaddormentato.
Xabi non si è affatto riaddormentato, venti minuti più tardi, ma sta sdraiato sulla schiena sul letto di Stevie a fissare il soffitto; è un peccato, ma non completamente. Stevie arrossisce come un peperone, e si stringe di più addosso l’accappatoio, per evitare di mostrare al mondo che, sì, la sua scemissima pelle è scema abbastanza da avvampare fino al petto.
«Ehi,» mormora, a malapena udibile perché Carra, nella stanza accanto, ha ricominciato a russare. Stevie dovrebbe andare a farlo rotolare sulla schiena per zittirlo, ma decide che i vicini possono sopportare, per una volta; se stanno ancora dormendo, Carra è un’ottima sveglia. Ha Xabi nel suo letto, lui, non è che ha voglia di andare chissà dove. Ed è contento pure che sia tutto vestito e solo marginalmente scompigliato, sì, perché non è che Stevie voglia fare quel genere di cose, con lui, o che vorrebbe averle fatte. No. Veramente.
Apre il cassetto della biancheria, per darsi qualcosa da fare, e questo sembra riscuotere Xabi.
«Stevie, ti dispiace se uso il bagno?» chiede, sorprendentemente senza esitare, anche se la sua voce è un po’ tesa.
«Fa’ pure, è tutto tuo,» dice Stevie, e grazie al cielo che, stavolta, s’è ricordato di buttare i vestiti sporchi nel cesto della biancheria da lavare, piuttosto che abbandonarli come stracci sul pavimento. Poi l’ha richiuso, il cesto? Oddio.
Xabi è già scappato in bagno, comunque, per cui non c’è modo di verificare. Merda.
Stevie si riveste in tutta fretta, perché non sa quando Xabi piomberà di nuovo in camera e, no, non ha intenzione di mostrargli il proprio culo nudo - gli ci vuole uno sforzo di volontà non indifferente per evitare di pensare non ancora, - e poi, siccome l’unica cosa da fare sarebbe mettersi a ripulire l’appartamento dai resti della festa, - ahahahah; no, - si siede sul bordo del letto e aspetta.
Xabi esce dal bagno molto più composto di quanto non fosse quando ci si è precipitato - Stevie ha una mezza idea di chiedergli di non togliersi mai più di dosso quel maglioncino, - e gli sorride, guardandolo un po’ da sotto in su.
«Buongiorno,» dice, e si ficca le mani nelle tasche posteriori del jeans. Anche quello, Stevie vota perché rimanga lì a stingerglisi meravigliosamente attorno alle gambe per sempre.
«Ciao,» annuisce lui, ed è strano, perché ieri sera non erano così imbarazzati l’uno dall’altro; non erano timidi. Cioè, Stevie sì, Stevie è sempre così frenato dai suoi bellissimi complessi che certe volte è sicuro di non avercela, una personalità, sotto tutte quelle decisioni prese prima ancora che lui nascesse, e Xabi è timido e silenzioso e composto ed educato, però, ecco, adesso è strano.
Stevie è tranquillo, intorno a Xabi, riesce a stare più a proprio agio e più se stesso che con chiunque altro, a parte forse Carra, e adesso, invece, non sa come trattarlo; e Xabi è cauto per natura, ma con Stevie sorride e ride e lo tocca con naturalezza e adesso, invece, sembra che non sappia proprio cosa farsene delle proprie mani, del proprio corpo tutto intero.
Vedi che andare a letto con le persone rovina sempre tutto. Anche quando ci sei solo andato a letto, senza andarci a letto. Stevie comincia ad essere così disperato che quasi si pente di non aver fatto altro che dormire, stanotte. Cristo santo, attenti al cielo che tra un po’ se ne casca.
Xabi sta curiosando tra i suoi CD, intanto. A Stevie piacerebbe dire che sta curiosando tra i suoi libri, considerando che è in piedi davanti ad una libreria, ma, no, ci sono solo CD, lì, e se si china a ispezionare la mensola di sotto troverà la collezione di Phil Collins quindi, ok, occorre distrarlo. In fretta, ed efficacemente.
«Si è buttato, secondo te?» domanda Stevie, allora; si morde la lingua, e aggiunge anche questa alla lista delle decisioni del cazzo che ha preso nella sua vita.
Xabi, però, smette di studiare i suoi CD e si volta a guardarlo con un’espressione confusa.
«Chi è che doveva buttarsi?»
Stevie ripercorre a ritroso il filo dei propri pensieri, dà un respiro un pochino tremante quando il suo cervello gli ricorda com’è stato piacevole appisolarsi contro la spalla di Xabi. È un po’ un’abitudine, quindi, dormire con Xabi. Dormire. Non dormire.
«Il tizio del quadro,» spiega, tentando di calmarsi. «Il... viandante sul che cos’era di nebbia.»
Xabi ridacchia, ha in mano A Rush of Blood to the Head, nota Stevie. Oh. Non hanno mai davvero parlato di musica.
«Il viandante sul mare di nebbia,» dice.
«Sì, quello,» annuisce Stevie. «Si è buttato, secondo te?»
Xabi corruga la fronte, fa un sorriso un pochino confuso.
«Non... non credo che volesse buttarsi,» dice. «Sono piuttosto sicuro che nessuno abbia mai pensato che volesse buttarsi.»
«Davvero?» chiede Stevie, sgranando gli occhi. Ora viene fuori pure che è un critico d’arte geniale, ma guarda un po’ tu. «Credevo-- uh. Però un po’ sembra che sia così, no? Che stia guardando di sotto, pensando... pensando se vale la pena buttarsi o no.»
Quando Xabi lo guarda, gli occhi sorprendentemente brillanti e attenti e penetranti, Stevie si accorge di avere gola secca.
«Magari sta solo aspettando qualcosa,» osserva Xabi, quietamente, ma continua ad avere quell’espressione seria, concentrata, e Stevie ha quest’istinto incontrollabile e stupidissimo di indietreggiare, o raggomitolarsi per minimizzare il bersaglio e fingersi morto.
«E ch-che sta aspettando?» gracchia, invece. Xabi si stringe nelle spalle, pianissimo. Stevie ha una mezza idea - sta aspettando che la nebbia se lo venga a prendere, il viandante, perché lui è troppo spaventato, o troppo pigro, per muoversi.
E Stevie, prima, non aspettava niente; semmai erano le cose ad aspettare lui: lo hanno aspettato i suoi genitori, la sua cameretta già tutta arredata, e lo ha aspettato la sua istruzione e ogni settimana lo aspetta un sedile ad Anfield col suo nome scritto sopra. Lo aspetta il matrimonio che s’è scritto da solo, la donna con cui lo renderà vero; lo aspettano i figli che già conta di avere, lo aspetta l’ufficio di fronte a quello di suo padre.
E Stevie, adesso, aspetta che Xabi faccia qualcosa. Più in profondità, in effetti, sta aspettando che Xabi torni a Madrid. E più sotto ancora, sta davvero aspettando che gli vada incontro, e che decida di volerlo baciare. Si sta consumando, nell’attesa.
Vedi che andare a letto con le persone rovina sempre tutto.
Carra ha smesso di russare.
Carra, se li vedesse adesso, pesterebbe Stevie così tanto che neanche sua madre potrebbe riconoscerlo. Probabilmente rifilerebbe un paio di ceffoni pure a Xabi, e per quanto Stevie ci abbia spesso pensato, che forse un cambio di faccia lo aiuterebbe ad avere successo con le ragazze e col mondo, proprio non ce la fa a tollerare il pensiero che qualcuno possa fare del male a Xabi. E siccome è solo di una scusa che aveva bisogno, e siccome non c’è l’assurda felicità di aver vinto una finale di Champions con cui giustificarsi, Stevie se lo fa bastare, il pensiero di Carra che arriva fino a Madrid per gonfiare Xabi di botte, se se ne va senza che Stevie l’abbia baciato.
E allora lo bacia.
È la cosa più breve, imbarazzante e sciocca che Stevie abbia mai fatto, ma Xabi reagisce subito andandogli incontro e, oh, non è più una cosa breve né sciocca, e imbarazzante sì, imbarazzante sempre, però anche magnifica, perfetta. Stevie si allontana e Xabi si sporge a cercarlo di nuovo, è la sensazione più vertiginosamente bella di sempre; si baciano e Xabi prende le mani di Stevie tra le proprie e se le sistema sui fianchi, facendolo ridere piano. Stevie lo stringe, allora, se lo avvicina e poi indietreggia finché non raggiunge il letto, e Xabi lo spinge giù, seduto, e Stevie si impedisce di pensare, così riesce a muovere le mani in giù e sul retro delle cosce di Xabi, fino a raggiungere l’interno delle ginocchia e invitarlo a scendere, a sistemarsi sulle sue gambe. Xabi gli circonda il collo con le braccia, e adesso l’ombra lievissima di barba rossiccia sul suo mento struscia contro quello di Stevie e gli fa il solletico; è assurdo e giusto e Stevie ridacchia, piega un po’ la testa all’indietro per guardarlo meglio.
«Yo tengo Xabi,» sorride, istupidito dalla contentezza. Xabi inarca le sopracciglia, però poi ride, dopo un attimo di esitazione.
«Sí,» dice, scuotendo la testa. «Sí, Stevie, lo tienes.»
E Stevie non sa se sorridere di più per quello o per il fatto che, ehi, ha detto Stevie; lo bacia, allora, e non riesce a liberarsi della sensazione che sia la prima decisione buona che prende, ma non è davvero una cosa spiacevole.
Mentre spinge Xabi giù contro il letto, Stevie pensa al matrimonio, ventott’anni o trentadue o anche mai; mentre Xabi gli offre la gola perché possa baciarla, Stevie pensa ai due figli da fare, al lavoro, alla casa; mentre intreccia le dita alle sue, e lo guarda e lo sente gemere contro di sé, piano piano, Stevie non pensa - non pensa ai tre mesi e mezzo che rimangono della borsa Erasmus di Xabi, non pensa a Madrid e non pensa che vedi che andare a letto con le persone rovina sempre tutto, perché non esiste che questo possa rovinare qualcosa, - e non pensa a niente che non sia la stretta possessiva delle gambe di Xabi attorno alla sua vita, o la sua pelle caldissima che non vuole smettere di assaggiare, di scoprire, d’imparare; Xabi chiude gli occhi, sospira e s’inarca contro di lui, e l’unico piano che Stevie abbia è farlo gemere ancora, e stringerglisi addosso più forte.