[RPF] I have this breath and I hold it too tight

Jan 21, 2012 21:16

Titolo: I have this breath and I hold it too tight
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: IDK MY OTP DELPISIO (con unresolved!DDRRLL di bonus, un poco di Borchisio, e Buffon a guarnire il tutto)
Rating: PG14
Conteggio Parole: 6764 (fidipu)
Avvertimenti: AU, slash, angst, fluff, UST (same ol', same ol')
Prompt: Codardo @ bingo_italia. [ cartella]
Note: SANTO KYELO, IL SEGUITO DI TRAPPED! *O* E, niente, direi che le buone notizie si esauriscono qui, perché per il resto mi riconfermo le palle più palle dell'universo. *ride*
- Ci sono un sacco di note alla fine, perciò #giao.
- Kyappe ha un debole per Parigi. Ma Kyappe ha un debole per qualsiasi cosa, per cui non penso che valga. Se non avete familiarità con la geografia della città, no worries, neanche io ce l'ho *ride* Sono andata a memoria dall'unica volta che ci sono stata, e comunque non sono cose tanto importanti.
- Il titolo è ancora e sempre dalla stessa canzone della Florence + The Machine. #consistency Stavolta ci ho aggiunto solo quel 'too', per sottolineare il fatto che ci si aggrappa forte, magari lasciando un livido. #consistencydoppia & #omgPOESIA!!11!!3342!!!
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ I have this breath
and I hold it too tight.

Tira un vento incredibile, quando passeggiano sul lungofiume in direzione di Notre Dame, e poi Alex rimane indietro, fa cenno a Claudio di precederlo e attraversa la strada, lo segue a dieci, venti metri di distanza. Claudio si ferma a guardare la Senna, a un certo punto, e Alex gli scatta una foto quasi pigramente, per abitudine più che per reale voglia, perché il panorama non è neanche granché.
Arrivano ad un ponte vicinissimo alla cattedrale, dopo un po’, e Claudio si ferma di nuovo; Alex ora è più interessato, trova un’inquadratura per cui riesce a catturare intere le torri della chiesa e persino un pezzo di cielo, e sottovoce prega perché Claudio si volti a guardarlo. Gli va un po’ incontro, aggiustando di riflesso lo zoom, e poi Claudio si volta davvero, e sta sorridendo, e il vento gli scompiglia i capelli e gli fa perdere l’equilibrio e lui ride e quella è la foto più bella che Alex abbia mai scattato.

*

Quel pomeriggio, ne scatta una ancora migliore, perché Claudio si mette a giocare a calcio con dei bambini alti la metà di lui al parco delle Buttes-Chaumont, e poi un’altra, quando ridacchia per una sciocchezza che Alex ha detto, e poi un’altra che nemmeno ricorda, e, vabbè, ha un po’ l’impressione che continuerà così per il resto dei suoi giorni.
La cosa peggiore, ancora, è che non riesce neanche a sentirsi davvero in colpa.

*

Sembra impossibile riuscire ad esaurirla, Parigi.
Alex va dietro a Claudio col naso un po’ all’aria e un po’ schiacciato contro il fondo della macchina fotografica, e per la maggior parte del tempo non ha la minima idea di dove siano; Claudio, poi, gli pare che vaghi completamente a caso per l’infinità di strade che gli si srotolano sotto i piedi, però non s’impensierisce mai e riesce sempre a riportarli in albergo, per cui va bene, andrà bene pure se Parigi si dovesse scoprire che è più larga del cielo.
E, insomma, Alex è contento di essere, per una volta, lontano da casa, lontano dai palazzi di Torino che ormai lo chiamano per nome. È contento di arrivare a sera stremato, è contento che la cinghia della macchina fotografica gli segni la nuca, è contento di avere i piedi indolenziti ed è contento di appendere le mutande ad asciugare nella vasca da bagno, proprio accanto a quelle di Claudio. È contento, no, contentissimo, poi, della foto che ha fatto ai suoi boxer neri stesi accanto agli slip bianchi di Claudio - che poi sono quelli che Gigi ha tanto insistito perché Claudio si portasse a casa dopo l’unico servizio di intimo che gli hanno fatto fare, - sullo sfondo di una distesa di calzini a righe dei colori più assurdi e incompatibili; è contento anche di come Claudio diventa paonazzo quando gli fa vedere il display, tutto orgoglioso, su di giri perché non gli era mai capitato, prima d’ora, di riuscire a fotografare un arancione così arancione.
E il punto non è semplicemente che non ha la minima voglia di tornare a casa; il punto è che è così pieno di cose che vuole assolutamente ricordare, che scattare foto come un ossesso comincia a non sembrargli abbastanza. Dio, non gli sembra abbastanza neppure stare lì e viverla, Parigi, con Claudio accanto. C’è che vorrebbe così tanto altro - così tanto di più, - ma non si sente in diritto di chiedere niente, perché sente di avere già tantissimo - perché è a Parigi, con Claudio accanto.
Forse ci pensa troppo; forse il fatto che ci siano una lente e uno specchio, tra i suoi occhi e il sorrisino sorpreso di Claudio ad ogni angolo che svoltano, forse quella distanza di due, tre passi che continua a mettere tra sé e le sue mani - perché altrimenti non riesce a metterlo a fuoco bene, - forse sta tutto lì il problema; nelle cose che Claudio non gli dice, e in tutte le volte che Alex vorrebbe toccarlo e invece gli scatta una foto. (È pieno di foto della bocca di Claudio.)
Forse è solo che è uno stupido, e Gigi ha sempre avuto ragione su di lui; poi capita che si fermino a pranzo in una brasserie vicino al Sacré Coeur, - vicino Montmartre, anche se Alex non si concede di pensarlo, - e lui mette giù la macchina fotografica, e Claudio si è sfilato la sciarpa perché non fa poi tanto freddo, però ha un po’ sollevato il colletto del cappotto, e ha le guance arrossate e una faccia tranquilla e si rilassa contro la sedia e Alex si ferma a guardarlo ed è contento - pienamente, da capo a piedi, è tutto contento; dura un attimo, però dura, e non la scatta lui, la foto, per una volta.
Claudio si volta appena, un angolo del labbro inferiore pizzicato tra i denti, e si accorge della sua faccia beata - della sua calma onesta e disinteressata, che per una volta non è autoimposta e necessaria, e non dipende dal numero di secondi in cui l’otturatore rimane aperto. Claudio lo vede così tranquillo e sereno e sorride, un sorriso vero, di labbra e di occhi, e gli scatta una foto col cellulare semplicemente perché può.
Alex è sicuro di aver scoperto il senso della vita; se lo lascia scappare, poi, quando Claudio guarda lo schermo del telefonino e ridacchia, e non gli dispiace, perché era una cosa semplice e spaventosa e stupida, ed è meglio che rimanga nascosta.

*

Claudio quasi lo bacia, in un negozio di dischi. Alex gli sta spiegando vita, morte e miracoli dei Jethro Tull agitando per aria un vinile, e lui riesce a pensare solo che vuole baciarlo, che guarda che belle labbra che ha, che chissà come sarebbe accarezzargli i capelli, che chissà poi che direbbe, che farebbe, e se gli tirerebbe un ceffone o un calcio o una ginocchiata. E, sì, vuole baciarlo anche perché non ce la fa più a sentirlo blaterare di prog-folk-hard-blues-art rock, però principalmente vuole baciarlo perché è Alex e Claudio, insomma, vuole baciarlo.
Quasi lo bacia, in mezzo alla polvere e davanti a un poster consumato di Jim Morrison. Quasi lo bacia.
Quasi.

*

«...ed è per questo che Locomotive Breath è uno dei pezzi più impressionanti - in senso positivo, eh, - della storia della musica.»
Claudio ride, affonda un po’ di più le mani nelle tasche e, ormai, ha in testa un’idea probabilmente molto sbagliata ma nondimeno affascinante di com’è che dev’essere, quella benedetta canzone, considerando che Alex ne ha parlato per tre quarti d’ora filati, quasi senza prendere fiato. Probabilmente neppure la cercherà su YouTube, quando saranno tornati a Torino, perché non vuole scoprire di non averci azzeccato neanche un accordo.
Si ferma ad un incrocio perché il semaforo pedonale è rosso, e Alex si ferma con lui, per una volta perfettamente al passo. Claudio si guarda attorno, un po’ sperduto.
«A destra o a sinistra?» chiede, perché il marciapiede di fronte si apre in un bivio. Alex sorride.
«Sempre a sinistra,» dice, è più forte di lui; l’ha ripetuto solo ogni volta che Claudio ha chiesto la sua opinione sulla direzione da prendere, e cioè circa venti volte negli ultimi tre giorni, e Claudio ridacchia, scuote un pochino la testa.
«Non me l’aspettavo, sai,» lo sfotte, con una smorfia contenta, e si dondola un po’ sulle punte dei piedi e i talloni, in attesa. Alex lo guarda - Claudio rimane sempre a corto di fiato, quando lo fa, anche se è stupido da parte sua, perché Alex in lui non vede, non deve vedere nient’altro che un viso, e il modo giusto di illuminarlo per farlo venire bene in foto, è quello il suo mestiere; eppure, certe volte Claudio sente la pelle pizzicare per l’impressione che Alex si soffermi troppo, che riesca a vedere altro, che, Dio lo perdoni, voglia vedere qualcos’altro, - e sorride tra sé.
«Sai che ti dico?» fa, e Claudio stringe le labbra, curioso. «Ho visto un caffè carino, un paio di strade più giù. Ti va se io vado lì e ti aspetto, mentre tu-» oddio, si sta sfilando la macchina fotografica dal collo; perché si sta sfilando la macchina fotografica dal collo? «-vai un po’ in giro con questa, fai un paio di foto?»
Il semaforo diventa verde, giallo, rosso di nuovo. Alex sta porgendo la macchina fotografica a Claudio, e Claudio non riesce neanche a sfilarsi le mani dalle tasche.
«...eh?» soffia, alla fine, con un filo di voce. Il sorriso di Alex s’allarga un po’ e gli compaiono queste rughette magnifiche attorno agli occhi per cui Claudio ha le vertigini.
«Giuro che non morde,» dice, dolce, divertito. «Coraggio.»
Claudio non sa neanche come protestare. Alex solleva ancora un po’ la macchina, tentandolo, e Claudio finalmente si decide, anche se gli tremano i polsi così tanto che ha una paura matta di farla cadere; è sbagliato su così tanti livelli, il fatto che Alex gli stia dando la sua cavolo di macchina fotografica - la sua, la sua, la sua, è sua! Cosa c’entra Claudio? Dio, - che gli fa male qualcosa nel petto. Infila la testa nella cinghia come se fosse un cappio, e il peso della macchina sul collo lo sorprende, gli fa perdere l’equilibrio; Alex ride, gli tira su le spalle, non riesce a resistere e gli dà un buffetto affettuoso su una guancia, magari indugia un attimo in più del necessario.
«Sei, uh. Sei sicuro?» domanda Claudio, soppesando il marchingegno e scrutando pensoso le millemila rotelline per le impostazioni, che ha la netta impressione lo stiano guardando male di rimando.
Alex, comunque, ride tranquillo, - anche se il cuore gli si è stabilmente trasferito in mezzo alla gola e Dio quanto ha bisogno di scattare una foto a Claudio con la sua macchina fotografica tra le mani, santo cielo, - e gli tocca un gomito.
«Sono sicuro,» dice, a bassa voce. Claudio ha un brivido, e accarezza distratto la levetta di accensione della macchina. «Ci rivediamo qui tra un paio d’ore?»
«Facciamo tra un’ora.»
Alex ride di nuovo.
«Un’ora e mezza.»

*

Claudio neanche sa cosa farsene, di una macchina fotografica. Non ha lo scatto compulsivo, e neanche ci tiene a farselo venire, grazie tante, Alex alle volte diventa inquietante - e pericoloso, soprattutto, perché mentre sta lì con la faccia incollata al mirino si dimentica, per esempio, di guardare a destra e a sinistra prima di attraversare, o anche solo di stare attraversando, cose del genere, e chissà come ha fatto ad arrivare vivo all’età che ha, veramente.
E Claudio è piuttosto sicuro di non avere neanche l’occhio giusto per fare il fotografo; Alex è bravo, Alex è bravissimo, ma aver visto mille miliardi di suoi scatti non basta a rendere Claudio capace di riconoscere un bello scorcio, o un’armonia simpatica di colori. E comunque non ha la minima competenza tecnica - neanche i rudimenti, la regola dei terzi, le diagonali, cosa significano tutti quei numeretti che continuano a lampeggiare sul display, proprio zero, ignoranza completa. Va nel panico, per i primi cinque minuti, e pondera seriamente la possibilità di correre dietro ad Alex e implorarlo di riprendersi la macchina e non fargli mai più uno scherzo del genere; non ce la fa, perché sarebbe sommamente umiliante, e si costringe a camminare a caso, col naso all’aria e le mani attorno alla macchina diligentemente accesa.
La cosa positiva delle reflex è che è proprio impossibile rendersi ridicoli scattando col copriobiettivo ancora a posto - Claudio lo scopre quando tenta di immortalare un commovente piccione acciambellato su una fontanella; solleva la macchina, scruta attraverso il mirino e, oh, è tutto nero. Nel tempo che c’impiega a svitare il tappo, con tutta l’accortezza di questo mondo, il piccione si è annoiato e sta sculettando via alla ricerca di qualche briciola di pane.
Claudio s’imbroncia, e da quel momento una mano la tiene sulla cima dell’obiettivo, prontissima a stappare tutto lo stappabile. Fotografa un balcone, un bell’albero con le foglie color granata - anche se il suo cuore juventino piange e si rivolta al pensiero del Torino, - e resiste a stento all’impulso frenetico di cancellare tutto perché, maledizione, che roba triste e noiosa. Cammina più in fretta, allora, arrampicandosi in direzioni a caso e tenendo distrattamente il conto delle volte che gira a sinistra o a destra o va dritto; non lo preoccupa tanto l’idea che dovrà tornare al punto di partenza, prima o poi, quanto, più di ogni altra cosa, il fatto che al punto di partenza ci vuole tornare con perlomeno una foto decente, perché altrimenti non riuscirà più a guardare in faccia Alex per la vergogna.
Già così è difficile, stargli vicino - camminare e mangiare e dormire con lui che è così inesauribilmente gentile e premuroso, un uomo magnifico, mentre Claudio è un ragazzino che sei mesi fa faceva l’aiutocuoco in pizzeria e adesso guadagna soldi con la pala grazie a, guarda un po’, Alex e Gigi e grazie al fatto che non sono persone, Dio, no, sono dei santi. Già è difficile viverci assieme senza farsi schiacciare dal peso di Parigi, e della fiducia che Alex - e Gigi; ma soprattutto Alex, perché è sempre Alex, nella testa di Claudio, - continua a riporre in lui, senza un dubbio, senza una pretesa. Già è difficile guardarlo sorridere, quando Alex ha fatto così tanto per lui e Claudio, in cambio, non è capace di dargli nemmeno l’unica briciola che Alex gli abbia chiesto - quella verità piccola e stupida che Claudio si tiene stretta perché si vergogna peggio che un ladro.
Già è difficile.
Ci manca solo che Claudio debba deluderlo pure così.

*

Un’ora e venticinque minuti più tardi, Claudio entra in un caffè e s’infila a sedere ad un tavolo già occupato. Alex alza gli occhi dal quotidiano che stava leggendo, lo guarda, sorride.
«Come è andata?» chiede, gentilmente.
Claudio ha le guance rosa, gli occhi brillanti, i capelli scompigliati dal vento; si stringe nelle spalle, ma gli angoli della sua bocca si arricciano all’insù mentre si sfila la macchina fotografica e, con cautela, la porge ad Alex al di sopra del tavolino.
Alex non se la riappende al collo, e neppure si mette a curiosare tra le sue foto, ma la appoggia da parte, chiama un cameriere e ordina cappuccino e croissant per entrambi, perché saranno pure le cinque del pomeriggio, ma gli pare che una specie di colazione ci stia bene.

*

Tornano in albergo intorno alle due, le due e venti. Alex ha bevuto un pochino, no, un bicchiere e mezzo di vino, dai, ma non è più abituato, e tanto gli è bastato per non riuscire a stare tanto bene in piedi in metropolitana, e nelle ultime cinque ore ha scattato solo due foto, tutt’e due col cellulare, tutt’e due a Claudio con la sua macchina in mano, una anche carina, con una bella composizione, l’altra scurissima e sgranata e confusissima, ed è la sua - ennesima - preferita di sempre.
La porta della stanza la apre Claudio, perché Alex non ha voglia di litigare con la serratura; fa caldo, dentro, e Alex si scrolla di dosso il cappotto, si snoda la sciarpa, va in bagno a sciacquarsi il viso e gli sembra di sentirsi già meglio, già del tutto sobrio - tanto che ha quasi voglia di uscire di nuovo, gli prudono le mani.
Claudio, però, si è seduto sul bordo del letto, si è sfilato le scarpe, e Alex non ha nessuna intenzione di andare in giro senza di lui, perciò si stiracchia, si gratta la nuca, riflette sulla possibilità di farsi una doccia ora o domani mattina, o magari sia ora che domani mattina.
La macchina fotografica siede in cima al suo comodino, lui non ricorda di averla messa lì e forse è stato Claudio. Alex sorride, si siede sul bordo del letto e scorre all’indietro le immagini in memoria, distratto, finché non trova la prima che non è sua.
Claudio ha scattato, a occhio e croce, una trentina di foto; sono palazzi, per la maggior parte, e ad Alex piacciono molto alcuni dettagli - un leone rampante in cima ad un portone, una ringhiera in ferro battuto arricciata in spirali orientaleggianti, una cascata di edera su un muro di mattoni rossi, - un paio di vedute larghissime, quasi sconfinate sulla città, che chissà dove si sarà inerpicato per avere una visuale così enorme, e qualche esperimento maldestro con le luci del traffico. E poi, proprio alla fine, una foto alla quale Alex quasi non bada, perché ci vede solo uno scorcio di marciapiede, dei passanti, un albero, una vetrina; la successiva, però, lo sorprende, perché la scena è la stessa, ma presa con un campo molto più stretto, e i passanti sono gli stessi, e l’albero è lo stesso, e la vetrina, su cui si concentra lo scatto, la vetrina è la stessa, però oltre quella vetrina c’è lui, c’è Alex, con il giornale davanti, e per il riflesso sul vetro della città si distingue poco di lui - il profilo del naso, qualche ricciolo che gli ricade sugli occhi, - ma è lui e forse non è un capolavoro di foto in senso stretto, ma Alex si tiene il respiro rincantucciato dentro il petto perché non vuole che il momento passi.
Claudio siede a gambe incrociate sul letto, e lo guarda. È imbarazzato, però curioso, però soprattutto imbarazzato, e poi una quantità ancora di cose cui neppure si piglia il disturbo di dare un nome perché sarebbe probabilmente controproducente. Sta lì e guarda, e, quando finalmente Alex alza gli occhi e cerca il suo viso, non sa come interpretare la sua espressione morbida, però è piuttosto sicuro che non sia niente di male.
Alex avrebbe bisogno di due giorni di completa solitudine per riuscire a esprimere anche solo per sommi capi quello che pensa; desiste, allora, perché due giorni col mondo chiuso fuori se li può prendere quando gli pare ma non quando è a Parigi con Claudio, accidenti, e si risolve a fargli un sorriso, una specie, un tentativo, ecco, la cosa più vicina ad un’espressione commossa che abbia la forza di fare, e spera che, per Claudio, sia un complimento sufficiente.
A Claudio, onestamente, sarebbe andata bene pure la sua più totale indifferenza, perciò, ecco, siamo tutti contenti. Solo che poi Alex si accorge di come Claudio stringe le mani attorno alla caviglia viola, e il suo sorriso si smorza un po’.
Claudio lo nota, lo capisce. Aggrotta le sopracciglia, e si sente in colpa, quello è il punto della sua intera esistenza. Si sente in colpa e, ah, lo sapeva che seguire Alex a Parigi non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose, ma, Dio, è così innamorato di lui - si sente in colpa pure per quello, chiaramente, anche se ci sta lavorando, - che non ce l’ha fatta a dirgli di no, e non ce l’avrebbe fatta neanche tra cent’anni, con una pistola puntata alla tempia.
Alex gli ha persino lasciato usare la sua macchina fotografica.
«È un mio amico,» pigola, alla fine, giocando con l’orlo dei pantaloni. Alex non si muove, non dice nulla, aspetta; Claudio sospira, quasi divertito. «Non proprio un amico, d’accordo. Un... un amico d’infanzia.»
È complicato da spiegare, perché Claudio deve pescare le parole dal fondo di un pozzo di vergogna densa come catrame, e non ce la fa. È complicato da spiegare, perché Alex sta lì fermo e forse nemmeno respira, aspetta, e Claudio non ne ha mai parlato con nessuno, Claudio cerca persino di non pensarci, Claudio è un po’ - un po’ tanto - codardo e no, non ce la fa. E comunque gli piace convincersi che non sia importante, raccontare ad Alex la storia di ogni segno che ha addosso; si stropiccia i capelli, Claudio, e vorrebbe farsi scattare una foto.
Alex aspetta ancora un momento, e poi non riesce più a trattenersi.
«Hai, uh. Claudio, hai provato a denunciarlo?» domanda, sottovoce, e ha questa sensazione assurda di stare offendendo qualcuno, non sa se Claudio o la sua intelligenza o questo suo benedetto amico al quale Alex spaccherebbe volentieri la testa.
Claudio sbuffa una specie di risata, scuote la testa.
«È... difficile, Ale. Non voglio metterlo nei guai, vedi,» mormora, e guarda dappertutto meno che verso di lui. «E comunque non-- non succede spesso, ecco, non lo vedo quasi mai, solo quando... viene a casa, a volte, e a volte, uh... Non è che se ne va tutto intero anche lui,» abbozza un sorriso, gli mostra il dorso di una mano, una cicatrice bianca sulla nocca dell’indice che gli è rimasta da quella volta che ha angolato male un cazzotto al mento. «Però è... Ale, va bene se non capisci, Dio, non ci capisco niente neanche io che ci sono dentro. Solo, ti prego, non--»
E non lo sa, di cos’è che lo vuole pregare, - forse di non odiarlo, di non giudicarlo male, di continuare a volerlo guardare, - e non riesce a dire niente perché Alex s’è alzato, lo abbraccia; è un po’ scomodo, perché Claudio è ancora seduto a gambe incrociate sul materasso e Alex sta lì in piedi e quindi finisce per appoggiargli il mento tra i capelli e stringergli le braccia attorno alle spalle, mentre Claudio può giusto circondargli i fianchi e nascondere il viso nella sua maglietta, ma è la cosa più bella di sempre e Claudio non ha neppure voglia di baciarlo, dopo, è contento così.
Alex si morde le labbra, rimane fermo e si tiene Claudio contro per un sacco di tempo, così a lungo che quasi smette di essere imbarazzante e strano e inappropriato. Gli dà un bacio sulla fronte, poi, e gli incornicia il viso tra le mani, accarezzandogli le guance coi pollici, perché non sa come altro fargli capire che, Dio, è un ragazzio così buono e scemo e perfetto e lui è così contento di essersi conquistato la sua fiducia, anche se non è per niente sicuro di sapere come ha fatto.
Claudio non riesce a guardarlo, arrossisce e si tormenta coi denti l’interno di una guancia. È contento davvero, però ha tentato di darsi a bere una bugia - non è vero che non vuole baciarlo; però non osa, già gli pare di esagerare ogni volta che respira e quando si rende conto di non aver ancora lasciato andare i fianchi di Alex, e alla fine fa un sorriso minuscolo, che forse significa che ha capito.

*

Sono di nuovo a Torino in un niente, e in un niente Alex si lascia di nuovo annullare dal lavoro, senza neanche riprendere fiato. Claudio torna in pizzeria, per un paio di settimane, e poi una mattina si sveglia con un livido sull’interno morbido di un braccio e un sms di Gigi che gli chiede di venire in studio, appena trova un momento.
Claudio il momento lo trova subito; si butta sotto la doccia senza neanche pensare, per scrollarsi di dosso quel po’ di sbronza che gli è rimasta appiccicata alla pelle, e poi s’infila i primi vestiti che trova, - lui, che con tre camicie e cinque felpe e due jeans nell’armadio passava le ore a meditare su cosa avrebbe potuto indossare il giorno dopo per andare in studio, per andare da Alex, - scappa via con i capelli ancora umidi e lo stomaco vuoto.
Gigi viene ad aprirgli la porta, lo abbraccia.
«Si può sapere dov’eri finito, eh? Pensavo di averti dimenticato in aeroporto,» ride, e Claudio vorrebbe rispondergli qualcosa di scemo e simpatico, ma Alex li sente arrivare e si volta e gli sorride, contento di vederlo, e Claudio riesce a stento ad agitare una mano.
«Ehi, hai fatto presto,» dice Alex, abbandonando il cavalletto che stava montando per dargli una pacca sulla spalla, e guardarlo più da vicino. Claudio ridacchia, gioca con un bottone del cappotto.
«Avevo la mattina libera,» spiega, e poi Gigi sta saltellando via per Dio sa che ragione, e Alex si seppellisce le mani nelle tasche dei jeans. «Mi, uh... c’è del lavoro per me?»
«Veramente ti volevo parlare di una cosa,» dice, e Claudio annuisce, lo segue nel suo ufficio - una stanzetta piccola, senza finestra, in cui lui non era mai stato prima, per cui si ferma per un momento sulla soglia, guarda la scrivania anonima di legno bianco, le riproduzioni di quadri famosi appese alle pareti, gli schedari ordinati, e decide che non gli piace, che non è abbastanza Alex, - si sfila il cappotto, si accomoda su una sedia di fronte alla scrivania.
Alex percorre con un dito le coste dei raccoglitori allineati su uno scaffale, ha un’espressione pensierosa e concentrata e adorabile e Claudio lo fissa, si domanda se sarebbe tanto inopportuno tirar fuori il cellulare e rubare una fotografia. Si è fatto contagiare più di quanto non gli piaccia ammettere, a quanto pare.
Alla fine, Alex trova quello che stava cercando, e con un sorriso trionfante disincastra dall’impeccabile fila un grosso album rosso acceso, con la copertina imbottita.
«Dai un’occhiata, se non ti dispiace,» dice, porgendolo a Claudio, che lo apre su una pagina a caso, curioso. Gli sembra l’ennesimo catalogo di moda, all’inizio, tutto fotomodelle magre in abiti succinti o surreali, e ragazzi longilinei ed eterei corazzati dentro alti paletot scuri come la notte, però poi inciampa nel primissimo piano in bianco e nero di un ragazzo con gli occhi scurissimi, il naso punteggiato di lentiggini, che si morde le labbra - è uno scatto strano, e sarebbe pure terribile, se non fosse per la temperatura impeccabile dei neri e dei grigi, e per quel qualcosa di indefinibilmente attraente e bello sul viso del soggetto; Claudio si ferma a guardarlo, corruga la fronte.
«Me lo ricordo, questo,» dice, perché gli è familiare, quel viso ovale, quell’espressione concentrata su qualcosa di lontano, probabilmente scemo, probabilmente eccitante. Alex sorride, e Claudio di punto in bianco ricorda - era dappertutto, un anno fa, questo tizio. È il volto di Hugo Boss, adesso, ma con quest’unica foto ha salvato dal tracollo l’intera industria di moda della Capitale.
«Sì, probabilmente è la foto più famosa di quelle di Daniele,» ridacchia Alex, e Claudio lo guarda, curioso - Daniele? «De Rossi,» spiega lui, allora, e, oh, si siede sul bordo della scrivania, e le sue ginocchia sono a tanto così da quelle di Claudio. «È un collega e un amico, soprattutto, lavora a Roma... hai tra le mani il suo portfolio, in effetti.»
Claudio si acciglia, sfoglia ancora un paio di pagine.
«Non ti seguo, Ale,» mormora, perché non può essere che Alex voglia il suo parere sulle foto di ’sto Daniele, no?
Alex si tira indietro i capelli, un po’ a disagio.
«Daniele mi deve un favore,» dice, perché, ehi, lui è il campione del cominciare i discorsi dalla parte più sbagliata possibile. «Per cui pensavo che, uh. Se mai volessi, sai, andar via da Torino,» deve farsi forza, per non pensare che l’ultima volta che ha tentato di parlare con Claudio di qualcosa ha poi finito per portarselo due settimane a Parigi. «E se ti piacciono i suoi lavori,» agita una mano, un po’ a caso, pregando che la frase si finisca da sé; non succede, per cui sospira, gli tocca darsi da fare. «Insomma, se ti interessa, basta una parola.»
Claudio rimane per un po’ a guardarlo, vagamente interdetto, e confuso, e alla fine dice, pure lui, la cosa più sbagliata che gli passi per la testa.
«Vuoi... vuoi che me ne vada, Ale?»
E sgranano gli occhi in due, dopo un momento, ugualmente sorpresi; Alex è quello che si riprende più in fretta, perché Claudio è troppo impegnato ad odiarsi profondamente.
«No, Dio, Claudio, Dio, per carità, no,» dice, agitato, le parole che inciampano l’una sull’altra. Si calma un momento, sospira. «No, volevo solo... farti sapere che c’è questa possibilità, ecco.»
Claudio si morde le labbra, e si morderebbe le mani, se potesse.
«Scusami,» sospira, stropicciandosi il viso. «Ale, scusami, sono un cretino, non volevo dire quello-- sono un cretino,» scuote la testa, e Alex sorride, infinitamente intenerito, gli tocca una guancia.
Claudio è in trappola, lo capisce quando alza gli occhi in quelli di Alex.
È piuttosto sicuro che che non esista al mondo qualcuno - a parte Sonia, e forse Gigi, - che, dopo essersi perso in quello sguardo verdecastano, riesca a riemergerne e rifiutargli qualcosa; lui, sicuramente, non è che non ce la fa, è che proprio non vuole, persino quando si tratta di dire che, sì, d’accordo, andrà a Roma, se è quello che Alex vuole - se è quello di cui Alex ha bisogno per aiutarlo.
«Dici che... che servirebbe?» chiede, abbassando un po’ la voce perché ha l’impressione di sembrare più spaventato di quanto non sia; Alex trattiene il fiato, sposta la carezza più in giù, sul lato del suo collo.
«Non lo so,» ammette, con una punta di tristezza. Claudio è contento di averlo legato a sé abbastanza da rendere doloroso il pensiero di una separazione, e si sente in colpa per questo, perché, diamine, la smetterà mai di essere così egoista? «Probabilmente sì. Puoi stare via sei mesi, un anno, e poi quando torni - se torni, se vuoi tornare, - trasferirti, non-- non lo so, Claudio, scusami, sono invadente.»
Claudio fa cenno di no con la testa, sospira.
«Mi prometti che non è un problema?» chiede. «Che... che per Daniele non sono un disturbo, o per te, o per l’agenzia?»
«L’unico problema sarà convincere Gigi a non chiamarti ogni dieci minuti, credimi,» sorride Alex, sereno; Claudio ride un po’, e non appena lui distoglie lo sguardo, Alex si acciglia, diventa più triste. «Pensaci su, però, non mi devi rispondere subito. Posso aspettarti quanto vuoi, tutto il tempo che ti serve.»
Claudio lo guarda, stringe le mani sul bordo del raccoglitore che tiene sulle ginocchia.
«Anche un anno?» chiede, le labbra che s’arricciano all’insù nel tentativo asimmetrico di fare un sorriso. L’espressione di Alex diventa morbida, per un momento, e poi si affila in una smorfia furba, disincantata.
«Anche dieci,» dice, la voce lieve, come stesse scherzando, e non ha mai detto niente di più vero; Claudio arrossisce, sorride. Si tira in piedi, e un po’ maldestramente gli porge il catalogo, che Alex gli sfila di mano chinando elegantemente la testa.
«Allora ti faccio sapere,» mormora Claudio, che ancora non riesce a capacitarsi del fatto che potrebbe andare a Roma, mettere una quantità incolmabile di chilometri tra sé e Torino - tra sé e Alex, per un po’, - e, Dio, cambiare. Per un po’.
Alex annuisce piano.
«Con calma,» dice, guardandolo da sotto in su. Claudio si gratta una guancia, imbarazzato.
«Grazie,» soffia. «Per un miliardo di cose, Ale-- grazie.»
Alex annuisce di nuovo, si stringe al petto il raccoglitore perché ha bisogno di reggersi a qualcosa, ché altrimenti non sa cosa combinerebbero le sue maledette mani, e lo guarda andare via.

*

Claudio quasi lo bacia, il giorno che se ne parte per Roma. Gigi e Alex sono venuti a salutarlo in aeroporto, e lui sta lì e non si decide a mettersi in coda per il metal detector perché vuole baciare Alex, prima di andarsene, vuole davvero, ma c’è Gigi, e poi Gigi si allontana per rispondere a una telefonata e Claudio comunque ad Alex non lo bacia perché non è Gigi il problema, non sono gli altri il problema - è lui, il problema, e il fatto che non troverà il coraggio né in questa vita né, probabilmente, in nessun’altra.
«Daniele viene a prenderti a Fiumicino,» dice Alex, e Claudio ride, per cui Alex si acciglia un po’. «Te l’avevo già detto?»
«Giusto quelle venti volte,» ridacchia Claudio, e Alex stringe le labbra, mette su un’espressione esageratamente mortificata.
«Sono un po’ nervoso,» ammette; Claudio continua a seguire con gli occhi la curva di uno dei riccioli che gli ricade morbido su un orecchio, e non è mai stato così tranquillo e devastato dall’ansia allo stesso tempo.
«Andrà tutto bene,» mormora, distratto. Ci ripensa, poi, e arriccia un po’ il naso. «Andrà tutto bene, no?»
Alex ridacchia, gli stringe un gomito.
«Andrà tutto bene,» annuisce, e Claudio è già più convinto.
Alex, poi, abbassa gli occhi, e sull’interno del polso di Claudio c’è una macchia verdastra. Ovviamente. Il cuore gli si stringe da morire, e lui probabilmente s’è impicciato abbastanza, fin troppo, nella sua vita, ma non ha imparato niente.
Non riesce ad impedirsi, allora, di far scorrere la mano in giù lungo il braccio di Claudio, e di prendere il suo polso delicatamente tra le dita, voltandolo un po’ per guardare pienamente il livido.
Claudio rabbrividisce, si pizzica il labbro inferiore tra i denti; Gigi è ancora lontano, tutto preso dalla telefonata, e Claudio magari un bacio non ce la fa a prenderselo, però mezzo passo in avanti riesce a farlo, e appoggia la fronte contro una spalla di Alex, stringe fortissimo gli occhi.
Alex non dice nulla, non sembra nemmeno sorpreso, ma intrufola una mano tra i suoi capelli e l’altra lascia andare il polso, gli s’infila sotto il cappotto, indietro verso la schiena, attirandolo più vicino. Claudio s’imbroncia, non se ne vuole andare e non si muove finché Gigi non torna e gli si spalma addosso, rovinando il momento.
Quando si risolleva, Claudio magari ha gli occhi un po’ umidi e, quando tira su col naso, non è perché abbia il raffreddore. Dovrebbe proprio muoversi, comunque, ché il suo imbarco apre tra meno di mezz’ora. Alex gli stringe ancora il gomito, però non lo guarda davvero perché forse lo sa che, poi, Claudio non sarebbe capace di andarsene; Gigi lo bacia due volte su ogni guancia, lo abbraccia, giura che gli telefonerà ogni due ore.
Claudio scuote un pochino la testa, sorride.
«Considerala una vittoria,» dice Alex, un po’ esasperato, ma ha gli occhi lucidi anche lui. Claudio annuisce, tira un po’ la cinghia della tracolla, prende un respiro profondo che è l’ultima aria di Torino - di Alex, di casa, - che respirerà per non sa neanche quanto tempo.
«Vado,» sospira, perché ha l’impressione che ancora un po’ e Gigi cambierà idea, impedendogli categoricamente di muoversi da dov’è; gli piacerebbe, ma non è sicuro che sia la cosa giusta. «Ciao,» mormora, e se ne va, e ciao, poi, ha solo le vocali di quello che avrebbe voluto dire per davvero.

*

Non c’è Daniele ad aspettarlo a Fiumicino, ma Marco - il tizio della famosa fotografia, quello che la gente vedeva la sua faccia e aveva questo bisogno compulsivo di comprarsi venti trilioni di mutande; Marco che, Claudio scopre dopo trenta secondi, è allegro come un dannato cardellino una mattina di primavera, e non ha una manopola per togliere il sonoro, purtroppo.
«Quindi sei di proprio torinese di Torino?» domanda, praticamente prima ancora che Claudio possa stringergli la mano. Prende due delle sue tre valigie, però, per cui probabilmente è un ragazzo gentile.
«Sì,» mugugna Claudio, che non riesce a capire perché il suo comune di nascita possa essere un argomento di conversazione interessante. Marco schiocca la lingua contro il palato, sorride. Ha un bel sorriso, d’accordo, ma Claudio non l’ha pensato davvero.
«Allora non ti spaventare quando usciamo all’aria aperta, eh,» dice, e Claudio si acciglia. Era per davvero un riferimento allo stereotipo del Nord Italia nebbioso e triste e senza sole? Dio santo, non si conoscono neanche da cinque minuti e Marco già s’è qualificato per il titolo di Cazzone Più Cazzone Con Cui Claudio Abbia Conversato Nell’Ultimo Anno - e nell’ultimo anno Claudio ha conversato per la maggior parte del tempo con Gigi, santa miseria.
Poi dall’aeroporto ci escono davvero, e Claudio rimane imbambolato appena al di là delle porte scorrevoli perché, oh, allora è questo che intende la gente quando parla del sole.
Marco si accorge della sua sorpresa - e della sua momentanea cecità, pure, - e ride, si ferma a guardarlo.
«Che ti avevo detto?» gongola, e Claudio arrossisce, mugugna sottovoce. «E siamo solo a marzo, frate’, vedi che bello appena viene l’estate.»
Claudio, grazie mille, all’estate non ci vuole manco pensare. Claudio sta già sudando. Claudio, a sorpresa, vuole già tornare a casa.
La macchina di Marco ha l’aria condizionata, però, e lui mette su un CD di tremenda roba neomelodica e si mette a cantarci su, ma con ironia, o perlomeno Claudio lo spera; non è tanto stonato, e ride ogni volta che Claudio arriccia il naso perché non capisce un cavolo di quello che sta dicendo, per cui, per quando arrivano a destinazione, forse lui e Marco sono diventati anche amici.

*

Claudio non fatica a trovarsi un po’ di spazio nella caotica, enorme mole di lavoro che Daniele gestisce lì a Roma, principalmente perché Daniele, come lo vede, lo prende e praticamente di peso lo piazza là dove ha bisogno di lui.
Quindi, quando Gigi chiama la prima volta, Claudio può rassicurarlo e dirgli che va tutto bene, che si trova magnificamente, che la casa è splendida e sì, sì, ha già fatto amicizia.
In effetti, tutto va molto meglio di quanto avesse osato sperare. È un po’ come a casa, Roma; c’è Daniele che tenta di fare le cose come il professionista musone e perfezionista che è, e il suo collega Francesco che invece passa il tempo a riempirlo di palline di carta, e poi Marco, che è una mina vagante e si diverte come un pazzo a far spazientire Daniele.
È un po’ come a casa, se non fosse che Alex non c’è, e senza Alex per Claudio è un po’ più difficile - un po’ più imbarazzante, un po’ meno naturale, - mettersi davanti all’obiettivo e non scappare via a gambe levate dopo trenta secondi.
Non ci fa davvero l’abitudine, ma impara ad ignorare la sensazione, un po’ come impara a far finta che Alex non sia praticamente il suo unico pensiero.

*

Roma è una tale girandola di fuochi d’artificio di cose da fare che Claudio può disfare perbene le valigie solo dopo tre giorni che è lì, perciò è solo dopo tre giorni che è lì che si accorge della macchina fotografica che Dio solo sa come Alex è riuscito a ficcare di nascosto in mezzo ai suoi asciugamani.
È come se l’avessero appena svegliato con una secchiata d’acqua gelida - il suo stomaco si riempie di un’inopportuna voglia di cappuccino e croissant, - e Claudio si sente così stupido che è sicuro non esista un numero grande abbastanza per contare le volte in cui sua madre, quand’era piccolo, deve aver lasciato che si buttasse giù dal seggiolone.

*

Marco lo bacia dopo due settimane e, d’accordo, magari è anche un po’ Claudio a baciarlo.
Il fatto è che sono tutti e due non proprio ubriachi, ma sicuramente alticci, ed è mercoledì, perciò sono tutti e due un po’ alticci in casa, - casa di Marco, - da soli, che non è proprio il modo migliore di passare una serata, onestamente, ma è mercoledì, per cui tutto sommato va bene.
Vabbè, probabilmente sono tutti e due più ubriachi di quanto non gli piaccia ammettere.
Comunque, stanno guardando un film, o un telefilm, o un documentario - stanno guardando qualcosa, e la testa di Marco è pesante contro la spalla di Claudio, per cui Claudio lo scuote via, molto signorilmente.
Marco mugola, scontento, e, siccome è una piaga sociale, gli dà un bacio sul collo, così, per irritarlo, perché non è che può far saltare i nervi a Daniele, dato che Daniele non c’è. Claudio sobbalza, lo guarda, e vorrebbe essere sconvolto, però si sente tiepido e leggero e Marco ha una faccia davvero bella, per cui si baciano - è ovvio, ha un senso. Le labbra di Marco sono soffici e piene contro le sue, la sua lingua curiosa ma non troppo prepotente e Claudio intreccia una mano ai suoi capelli, se lo spinge addosso e si ritrova sdraiato sul divano, con Marco che gli pesa addosso per intero. Non è stata una grande idea, considerando com’erano partiti, ma per qualche ragione non gli dispiace davvero.
«Mi piace Daniele,» mormora Marco, sulla sua bocca, quando se ne separa per riprendere fiato. Claudio aggrotta le sopracciglia, gli ci vuole un momento per ricordarsi che, sì, lui un Daniele lo conosce. Quando capisce, spalanca un po’ gli occhi e smette di tirare i capelli di Marco, glieli accarezza.
«Oh,» dice, semplicemente, perché che altro c’è da dire? E poi, arrossendo furiosamente nonostante la sbronza: «A me piace Ale.»
Per un attimo, Marco ha su la sua stessa espressione confusa. Poi fa due più due, e schiude le labbra.
«Oh,» soffia, e lo bacia, più gentilmente. Nasconde il viso contro il suo collo, poi, abbracciandolo stretto, e contro la sua pelle mugola: «Lo sapevo che c’era un motivo se mi piacevi.»
Claudio rimane a fissare il soffitto, illuminato a intermittenza dalla luce verdeazzurra del televisore. Pensa a tutti i giornali su cui è finita la sua faccia, e per la prima volta la cosa gli fa una paura fottuta.
Si sveglia incriccato, la mattina dopo, perché dormire su un divano con Marco incollato addosso come una seconda pelle non è proprio l’ideale, e con un mal di testa da record perché, ah, giusto, tutta quella sangria ieri sera. Non appena riesce a disincastrarsi dall’abbarbicamento di Marco - roba che manco un koala, - ciabatta, dolorante e assonnato, fino al portatile buttato su una poltrona.
Locomotive Breath, scopre, è davvero una bella canzone.

Everyone's nightmare, aka A/N.

- Allora, per la serie #cosechecheveledicoaffà: la foto di Sborri che Claudio vede nel catalogo di Daniele è questa qui (ATTENZIONE! Nuoce gravemente all’equilibrio ormonale. Tenere lontano dalla portata dei deboli di cuore. #holymotherofsborri)
- Non lo so se a Del Piero piacciono i Jethro Tull! È un headcanon mio e li shippo perché (a) i Jethro mi piacciono; (b) hanno un album che si intitola Too Old to Rock’n’Roll, Too Young to Die che nella mia testa è Addy; (c) DELPISIOH. Comunque, lo specifico perché a quanto pare ogni cosa che scrivo di Addy poi si scopre che è vera (si vedano le voci Delpisio risotto e thriller; per il risotto sono stata suggestionata da varie cose, non per ultima Brappu, ma la cosa che gli piacciono i thriller l’ho scoperta solo googlando dopo un commento di Perly XD) (capite che ha una foto con Faletti) (E FALETTI È PIU’ BASSO DI LUI), e quindi boh, volevo discolparmi XD #kyappelpiero #KYAPPESULPERO #idk #idkyappe
- Peraltro, Locomotive Breath potete ascoltarla qui, se volete.
- L’AAAAAAAAAANGST, L’UUUUUUUUUUUUUST, MAROOOOOOOO’ MA CHE R’EEEEEEEEEEEÈ. SboWWi, meno male che ci sei tu.
- Altra #cosachecheveladicoaffà: se nella relazione di malmenamenti reciproci di Claudio con l’Amico Misterioso volete vederci un parallelo con Claudio/Juve-dei-due-settimi-posti- che-gli-stava-seriamente-compromettendo-la-carriera-la-vita-tutto, io non vi dico di no, ma non vi dico neanche di sì perché sennò mi lincio da sola *ride*
- ...si è capita la cosa del ‘ciao’ che ha le vocali in comune con ‘ti amo’, vero? SI CAPIVA, VERO? #paranoidkyappe #esserecripticieppoipentirsene #ESISTEREepoipentirsene

rpf calcio: claudio marchisio, » challenge: bingo_italia, rpf calcio ~ trapped!verse, } 2012, rpf calcio: alex del piero, rpf calcio: marco borriello, rpf calcio: gigi buffon, › ita, rpf calcio

Previous post Next post
Up