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Nov 29, 2011 21:58

« prima parte


*
La partita passa rapida come l’intervallo di un film, Lorenzo non ha nemmeno il tempo di andare a comprare un bidone di popcorn che si ritrova, in un battito di ciglia, contro la porta della camera d’albergo di Claudio, con le mani addosso a lui, dappertutto sotto la tuta, e il respiro corto, cortissimo.
«Cazzo,» bisbiglia, direttamente sulla sua pelle che profuma di buono, di sapone e solo vagamente di prato, di calcio, di qualcosa che è così completamente nuovo da mettergli quasi paura, a lui, a Lorenzo, che va in giro in motorino, di notte, in piedi sulla sella.
Claudio sbuffa contro di lui, e s’inarca in una curva perfetta, spingendoglisi addosso. Lorenzo quasi si morde la lingua perché è incredibile il modo in cui il suo corpo è sottile, estraneo e spigoloso sotto le dita, contro la stoffa pesante dei jeans. Non è che non ci ha mai pensato, a toccare un altro ragazzo così, non è che non si è mai buttato a tradimento su qualcuno dei suoi amici, non è che non si è mai strusciato contro chiunque fosse ubriaco abbastanza da stargli dietro, da stargli addosso, però è tutto diverso, adesso: è diverso l’angolo ossuto dei fianchi di Claudio, il calore quasi insopportabile del suo respiro sulle guance, l’azzurro troppo intenso dei suoi occhi di cui Lorenzo riesce ad intravedere appena una scheggia oltre le ciglia sottili e chiare. È diverso accarezzarlo per sentirlo davvero, per saggiare la consistenza dei suoi muscoli affusolati e sentirlo tendersi e mugolare in risposta; è diverso persino baciarlo, rispetto a quella mattina a Vinovo, rispetto a questa mattina, nascosti dentro un bagno alla stazione di Mergellina.
Lorenzo morde il lobo arrossato di un orecchio di Claudio, gli accarezza, da sopra il pantalone della tuta, l’erezione già tesa. Claudio seppellisce il viso contro il suo collo, gemendo pianissimo, e un attimo dopo gli ha sbottonato la cintura, gli sta sfilando la maglietta, le strisce bianconere che si arricciano contro le sue dita e Del Piero, legge sulla schiena, quando si allontana di un passo per sistemarla con cura su una sedia. Del Piero, e sente qualcosa incrinarglisi dentro il costato, dentro la testa, ma Lorenzo è vicino e testardo e gli ruba tutti i pensieri con un bacio aperto e quasi arrabbiato, prepotente, come un ragazzo bello e smaliziato che ti compare davanti di prima mattina e pretende di risolverti tutti i problemi che hai.
Claudio cade di schiena sul letto, ansima sorpreso e gli piace il vuoto che per un istante gli azzanna lo stomaco, mentre non c’è niente che lo regga, né i suoi piedi né le braccia di Lorenzo né niente, solo l’aria sotto di lui e la gravità ad impedirgli di schizzare via e all’insù, come un palloncino, e scoppiare in mezzo alle nuvole. Lorenzo gli precipita addosso un attimo dopo, schiacciandolo dov’è, gli occhi scuri e invadenti da cui Claudio ha improvvisamente voglia di scappare. Lo bacia, allora, prendendogli il viso tra le mani, costringendo la sua lingua a cercarlo e gli pare di sentirsi meglio, dopo, più tranquillo, calmo davvero, e poi Lorenzo s’inventa una cascata di baci lungo il suo collo e il suo petto, mentre gli sfila la tuta, e giù tra le sue gambe, esitando appena perché è un ragazzo, Cristo, è un ragazzo e Claudio è così solo che non ce la fa a non abbandonarglisi con tutta la forza che gli rimane.
Si aggrappa a tutto quello che trova, allora - le lenzuola, i capelli fitti, ingarbugliati di Lorenzo, le sue spalle larghe da morire, larghe da mordere, i suoi fianchi, persino, quando Lorenzo risale assaggiandolo ovunque e poi pretendendo le sue labbra e premendoglisi addosso, eccitato e senza fiato, coi jeans addosso e un velo di sudore su tutta la pelle e il sorriso più gentile che Claudio abbia mai visto.
«Che vuoi che faccia?» mormora Lorenzo, piano, sulle sue labbra. Claudio soppesa la domanda per un momento, lo guarda, impara a memoria i suoi lineamenti marcati così bene dalla penombra della stanza, - il naso sottile, grande, ammaccato a un dito dalla radice e poi rotto di nuovo più giù; la bocca larga per contenere un miliardo di parole alla volta e quella risata vitale, le labbra sottili, arricciate in un sorriso sincero; gli occhi enormi, neri e castani, nascosti e rivelati, un respiro alla volta, da una ciocca gonfia e piena di capelli che gli si arriccia davanti, e oscilla a tempo con chissà quale pensiero, - e alla fine gli sfugge una risata senza peso, senza fiato. Lorenzo sorride con lui, gli preme il naso contro una guancia, premuroso, attento.
«Cristo, sei un ragazzino,» dice Claudio, le dita di una mano intrecciate ai capelli sulla sua nuca e l’altra persa a disegnargli ghirigori senza senso tra le scapole - un ovale per lo stadio, un rettangolo per il campo da calcio; una carezza a tratti sulla pelle per il suo cuore spezzato, il palmo premuto bene aperto contro le vertebre dove la maglietta strillava il suo dieci dorato, perché io di te non mi stanco, sono sempre al tuo fianco, sei la cosa più bella che c’è.
«Che vuoi che faccia?» chiede ancora Lorenzo, senza perdere un battito. Claudio solleva la testa quel tanto che basta a baciarlo, appena appena. Sono due settimane che non vede Davide, perché Roberta l’ha portato dai nonni. Ha segnato, sei mesi fa, alla prima giornata di campionato, al suo vecchio Delle Alpi, a casa, e ricorda come fotografie le facce dei tifosi che ha visto da sotto la curva. Ha segnato, tre ore fa, e non saprebbe dire neppure se di destro o di sinistro. Non ha un compagno di stanza, e l’appartamento nuovo è sempre gelido perché l’impianto di riscaldamento è un po’ vecchio, ha detto l’agente immobiliare che gliel’ha venduto, ma è quasi estate, Cristo, è quasi estate, cazzo, non è possibile che sia tutto così freddo e Claudio non la regge più, la solitudine, e non lo regge più, il silenzio. Non li ha retti mai, neppure il primo maledetto giorno.
Lorenzo glielo legge in faccia, gli preme un bacio asciutto sulle labbra e poi si lascia cadere, pesandogli addosso con tutto il corpo, e goffamente sta lì e lo stringe per tutta la notte.

*

«Mi piace un sacco, questo taglio di capelli che ha.»
Claudio calcia il borsone in un angolo del soggiorno e comincia a sorridere ancora prima di alzare gli occhi, ancora prima di vedere Lorenzo - che è venuto a stare da lui per un paio di giorni, giusto per salutarlo prima di andare in vacanza, per carità, - buttato di traverso sul divano stretto, con una ciotola di popcorn incastrata tra le ginocchia e Sky Sport in televisione. Stanno intervistando Alex, si rende conto con un momento di ritardo, e, sì, in effetti piace anche a lui, questo taglio di capelli che ha - la mezza cresta indefinita, la schiena di dinosauro, come la chiama Gigi.
«Ce l’ha avuto per tutta la stagione,» dice, facendo il giro largo del soggiorno e poi spostando di malagrazia le gambe di Lorenzo per potersi sedere. La ciotola di popcorn quasi finisce per rovesciarsi sul tappeto, e Lorenzo, dopo essersela riassestata addosso, gli scocca un’occhiata offesa. Claudio ridacchia, e per tutta risposta lui gli piazza i piedi in grembo.
«Lo so che ce l’ha avuto per tutta la stagione,» brontola, ficcandogli un tallone nudo un po’ troppo in su contro una coscia. «Non sono cieco, grazie tante. Dicevo solo che mi piace.»
«Sì,» annuisce Claudio, un po’ distratto da Alex in televisione che parla, da Lorenzo, accanto a lui, che si riempie la bocca di popcorn fino a gonfiarsi le guance. «Piace anche a me.»
Ci saranno quaranta gradi all’ombra, di fuori, e Claudio ha l’impressione che anche casa stia cominciando ad intiepidirsi un po’.

*

Finiscono in Argentina, per qualche ragione che molto probabilmente ha a che fare con la straordinaria capacità di Lorenzo di convincere la gente a fare quello che dice lui senza neppure dovercisi impegnare più di tanto. Finiscono in Argentina e Claudio non ci doveva neppure andare, in vacanza: doveva rimanere in Italia, farsi al massimo una settimana di mare con Davide, e poi andare ad allenarsi con la Nazionale, per gli Europei e tutto quanto, e invece Lorenzo lo ha preso e l’ha portato in Argentina. Dio, beh, non proprio.
«Vado in Argentina,» ha detto, il primo giorno di giugno che è arrivato a Torino giustificandosi col fatto che doveva prendere il monopolio del divano di Claudio. Vado in Argentina, ha detto, con la tranquillità con cui uno direbbe vado a comprare le sigarette, vado a buttare l’immondizia, vado un po’ sul balcone. La gente va a pesca sul lago dietro casa e lui va in Argentina.
«In Argentina?» ha chiesto Claudio, sgranando gli occhi così tanto che pareva gli avessero piazzato due finestre spalancate sul cielo in mezzo alla faccia. Lorenzo ha riso, ha fatto cenno di sì con la testa. «E a fare che?»
«A vederla, no?» ha riso, di nuovo, come avesse detto, porto giù il cane a fare una passeggiata. La gente va a Firenze a vedere gli Uffizi e lui va in Argentina. A vedere l’Argentina. In Argentina.
D’altra parte, però, la gente va allo stadio a vedere la partita e poi torna a casa, contenta o insoddisfatta ma comunque, insomma, torna a casa e poi va avanti con la vita di sempre, e Lorenzo, quando va allo stadio a vedere la partita, si ritrova la mattina dopo a Vinovo a ficcare il naso nelle ferite dei suoi giocatori preferiti, e tre mesi dopo a sgattaiolare all’alba per i corridoi di un albergo a cinque stelle con le labbra arrossate e una smorfia cretinissima che gli taglia la faccia da parte a parte. C’è una specie di logica, da qualche parte, in tutto questo, però Claudio ha comunque dei seri problemi a farsene una ragione.
«Vai in Argentina,» ha detto, aggrottando le sopracciglia. Lorenzo ha fatto quel suo sorriso smagliante, da pubblicità del dentifricio incrociata col manifesto della nuova mostra sugli squali dell’acquario di Genova, e ha annuito di nuovo.
«Vuoi venire con me?» ha chiesto, e Claudio adesso è in Argentina. Claudio. In Argentina. Mentre dovrebbe essere in Italia a pianificare il suo ritiro con la Nazionale, a prepararsi per la preparazione agli Europei, a star dietro a sua madre e tutto il resto. È in Argentina, con Lorenzo, e Lorenzo è in Argentina con lui per un motivo assurdo, surreale, completamente da Lorenzo.
«Non guardarmi così,» ha brontolato, arrossendo come un pazzo - è stata la prima volta che Claudio l’abbia mai visto in imbarazzo da che lo conosce, forse la prima volta che chiunque nell’universo l’abbia mai visto in imbarazzo da che è al mondo, - quando Claudio l’ha sgamato, sull’aereo, a leggere di nascosto una copia stropicciatissima di Latinoamericana. «È il mio idolo, il Che, d’accordo? Voglio vedere ’sti posti di cui parla, prima di diventare vecchio.»
E Claudio si è sentito pieno di una tenerezza impensabile, a guardarlo così perso dietro le pagine consumate di un libro, perché lui la conosce fin troppo bene, quella sensazione, così tanto che ormai la considera una sorella. Ha cominciato a correre dietro ad un pallone prima ancora di imparare perbene come camminare, per quella medesima adorazione che illumina gli occhi di Lorenzo non appena legge bienvenidos a Buenos Aires. Potrebbe aver pianto, lui, quasi un anno fa, quando il presidente gli ha detto - a milioni di tifosi nel mondo e a lui, a Claudio, - benvenuti a casa.
A Lorenzo questo non lo dice, non ci pensa neppure per un momento, ma probabilmente ce l’ha scritto addosso, a lettere cubitali sulla pelle, o soltanto a strisce, forse, bianche e nere.

*

L’Argentina serve ad entrambi. Lorenzo impazzisce dopo un momento, non riuscirebbe neppure volendo a tenere il conto delle persone che incontra, che conosce, con cui parla per ore pur non capendo neanche in che lingua stiano blaterando. Claudio lo osserva mezzo passo indietro, divertito suo malgrado, stregato, magari, dalla facilità con cui questo ragazzino cresciuto in mezzo all’asfalto si scioglie perfettamente nelle pampas, indistinguibile da un argentino vero.
E Claudio, dal canto suo, da qualche parte lungo la strada infinita che divide Torino da Buenos Aires - Cristo santo, - si è lasciato scappare un sacco di ombre, un sacco di preoccupazioni; una notte all’addiaccio dietro l’altra, a perdere il conto delle stelle nel cielo, con la testa di Lorenzo incastrata contro il collo, lo riempie di un mondo completamente nuovo, estraneo, naturale e bello e piacevole, una specie di bacio che lo libera dal pensiero di Roberta che l’ha lasciato, di Davide che non vede più quanto vorrebbe, della casa vuota, di Alex che se n’è andato e di che cosa farà, lui, da adesso in poi?
E torna tutto quanto mentre sta tornando anche lui, due settimane più tardi. Ha lasciato Lorenzo al sicuro con una comitiva di inglesi cui s’erano accodati già da un paio di giorni, e si sono salutati fuori dall’aeroporto di Córdoba, con un abbraccio lunghissimo e niente lacrime, giusto un pochino di tristezza agli angoli del sorriso che si sono scambiati, e mentre gli stringeva i fianchi tra le mani Claudio si è sentito bruciare per la voglia terrificante e assoluta, bellissima, di non andarsene davvero. Lorenzo l’ha capito subito, e il suo sorriso morbido s’è smorzato in un ghigno furbo.
«Non puoi rimanere,» ha detto, ed era disperatamente vero, come il fatto che ha diciott’anni - «e otto mesi,» ha specificato, quando dei rumeni su un treno gli hanno chiesto chissà che, e quelli hanno riso, capendo, Cristo, Dio solo sa cosa, - e ha fatto sentire Claudio altrettanto male.
Lo ha lasciato lì, perché neppure per un momento ha pensato che Lorenzo sarebbe tornato con lui, e comunque gli sarebbe sembrato sbagliato, portarselo via così presto, prima del tempo, prima di vederlo dimenticarsi che non è casa sua, l’Argentina, che non è nato lì per davvero. Lo ha lasciato lì, facendosi promettere che sarebbe stato contento. Lo ha lasciato lì, promettendo che pure lui sarebbe stato contento - che tutti e due sarebbero stati contenti, la prossima volta che ci vediamo. Lo ha lasciato lì e poi durante il decollo c’è un vuoto d’aria, Claudio sobbalza sul sedile e torna tutto, come una valanga, e lui si ritrova ad annaspare.
Alex che non gioca più con loro, la casa vuota, Davide che non c’è, Roberta che l’ha lasciato. Responsabilità, delusioni e cuore spezzato, un letto enorme e freddo per mesi interi, e Claudio non vuole tornare a Torino. Vuole il caldo appiccicoso dell’Argentina, il sapore intossicante della pelle sudata di Lorenzo contro la lingua - Lorenzo con la risata facile, i suoi diciott’anni, Che Guevara e il basket e la Juve e Claudio lo rivuole, perché l’ha lasciato lì? Torino gli sembra un incubo, il fondo del pozzo in cui il divorzio l’ha fatto sprofondare, e Claudio non vuole, non vuole, non vuole tornarci.
Le venti ore di volo si dilatano in un baratro scandito dai singhiozzi dei vuoti d’aria, dal rombo ovattato dei motori. Claudio si addormenta, sogna, si sveglia di soprassalto e non se ne rende neppure conto; legge le riviste dell’aereo, spilucca per educazione il pranzo che gli piazzano sotto il naso e butta giù il caffè insapore che gli ficcano in mano quasi pregando che sia veleno.
Arriva in Europa, a casa sua, che ha le lacrime agli occhi.
Secondo il suo stomaco è più o meno ora di cena, ma per l’Italia sono le quattro del mattino e l’aeroporto è deserto. Claudio aveva chiamato Gigi, prima di partire da Córdoba, per dare notizie di sé e dirgli che sarebbe tornato. Non si aspettava di trovarlo al ritiro bagagli, appoggiato al bancone della dogana con due dita di barba sulla faccia e un tremendo cappello di paglia a tesa larga ad adombrargli gli occhi. Gigi neppure gli permette di dire niente, ma lo abbraccia appena lo vede, ridendo piano.
«Mi sei mancato, bimbo,» dice, stringendolo forte, e Claudio, per un minuto intero, piange contro la sua spalla. «Cristo, ma che ti è successo?»
Claudio si allontana di mezzo passo, tira su col naso con tanta forza che quasi si fa male e sente una vertigine affilata sferzargli il cervello. Ride, impacciato, asciugandosi le guance con i palmi delle mani.
«Mi sei mancato,» dice, la voce arrochita dal silenzio del volo che non finiva più. Gigi lo guarda per un momento, sembra che riesca a contare tutti i chili che Claudio ha perso nell’ultimo anno, e alla fine fa una smorfia, gli sfila dal collo il borsone pesante che è l’unico bagaglio che Claudio si sia portato dietro e gli butta un braccio attorno alle spalle, trascinandolo via quasi di peso.

*

Claudio si gira attorno ad un dito l’anello del portachiavi a forma di zebra che Davide gli ha regalato per la festa del papà. Le chiavi tintinnano, cozzando l’una con l’altra, quelle di casa nuova contro quelle di casa vecchia contro quelle dello stanzino dei palloni a Vinovo, contro quelle dello stadio, contro quelle di casa di Alex.
Si alza, di punto in bianco, come scattava seduto in Argentina quando una zanzara grande quanto il suo pollice lo pizzicava. Esce, senza pensare, e va da Alex, senza pensare. Ha le chiavi, ha un universo di cose da dirgli, prima che se ne vada, e solo una che importi davvero, e non ha bisogno di altro, se non di un po’ di coraggio, che non ha, che non avrà mai, e allora va, senza pensare, che va altrettanto bene.

*

Lorenzo si attorciglia attorno ad un braccio la sciarpa intera, la annoda, la snoda, decide che fa troppo caldo e allora se la butta su una spalla, distrattamente, come lo straccio da cucina più prezioso del mondo. Si morde le labbra, si gratta il naso, si arrotola attorno ad un dito una ciocca di capelli e la tira, la tira, la tira, stirando il ricciolo finché può, e poi la lascia andare. Scioglie la coda bassa che si era acconciato sulla nuca, la rifà identica, la riscioglie, pesca un altro elastico tra quelli che porta stretti al polso, rosso invece che celeste, si risistema. È passato un sacco di tempo dall’ultima volta in cui è stato così a disagio, così incerto e silenzioso - forse un anno, un po’ di meno, - perché è passato un sacco di tempo dall’ultima volta in cui è rimasto un pochino da solo, o ad aspettare qualcuno che avesse importanza.
Gli si avvicina un ragazzo sottile, con le orecchie grandi e arrossate, gli occhi azzurri. Lorenzo sorride. Claudio non è uno spergiuro depresso, e lui neppure.
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