[RPF] Lui si guarda intorno e non ha...

Nov 29, 2011 21:56

Titolo: Lui si guarda intorno e non ha già più terra dove andare (Lui se guarda il cielo, il cielo gli fa segno di andare)
Fandom: RPF Calcio
Personaggi/Pairing: Claudio Marchisio/OMC, Claudio Marchisio/Alex Del Piero, Buffon
Rating: R
Conteggio Parole: 10272 (fidipu)
Avvertimenti: future!fic, angst, lime, OC
Note: *ride*
- Ai posteri che sventuratamente dovessero passare da queste parti voglio solo dire: siete fortunati. Perché degli svariati milioni di cose folli che vengono fuori a tarda notte su Skype, questa qui, nata da un delirio di nickname-giving con perlinha, è probabilmente la cosa meno folle e meno wtflol di tutte. Ed è molto folle, e molto wtflol, se considerate - e, vi prego, consideratelo - che l'OMC di cui si parla è potentemente ispirato ad un ragazzo esistente. Che, mentre scrivo, si sta guardando Napoli-Juve al San Paolo *ride* *ma in realtà piange dentro* *si accascia*
- lisachanoando mi ha fatto un fanmiiiiiix *O* che mi ha resa indecentemente felice perché, a parte quella degli 883, non conoscevo nessuna delle canzoni che ha scelto <3 Per cui gioia doppia \o\ fanmix per una mia storia e nuovo ear!candy ;w; E poi c'è il fatto che ha dato a Lorenzo una faccia che, #unf, incredibile unf, è perfetta.
- Il titolo - che penso debba vincere un qualche record di lunghezza, dai! XD - è stato sapientemente rubato a Ivano Fossati (~ Terra dove andare).
- Mi fate dare un altro bacino alla splendidaperfettanghhhplplplpl perlinha? Inutile aggiungere che la dedico e la dono a lei, che non solo mi ha dato la scintilla per il plot, ma ha anche avuto la santa pazienza di starmi dietro e convincermi a continuare quando tutto sembrava perduto nel p0rn che non voleva venir fuori \o/ *cuorpisella* ♥
Disclaimer: Non mi appartiene nulla; è tutta fantasia; nessuno mi paga un centesimo.

~ Lui si guarda intorno e non ha già più terra dove andare.
(Lui se guarda il cielo, il cielo gli fa segno di andare)

Lorenzo si attorciglia attorno ad un dito le frange della sciarpa, allenta un po’ il nodo sotto la gola e poi lo stringe di nuovo e poi decide che stava meglio prima e alla fine, con un sospiro frustrato, scioglie tutto e la sciarpa la lascia così, appesa al collo come il cappio slegato di una forca, aperta sulla felpa come fosse due braccia in più, di cotone pesante, bianche e nere. Si morde le labbra, si gratta il naso, si stropiccia la nuca e vorrebbe avere tra le mani una chitarra, una canzone con cui riempirsi lo stomaco, vorrebbe avere i capelli lunghi e poterci giocare. Sono passati anni, - anni, cazzo, - dall’ultima volta in cui è stato così a disagio, così incerto e silenzioso, ma sono passati anni pure dell’ultima volta in cui è rimasto un pochino da solo.
Gli si avvicina un ragazzo grosso, col cranio lucido e il collo di un toro, il petto che è un carrarmato ingigantito ancora dal piumino gonfio e verde acido che indossa, e gli domanda se per caso non abbia da accendere, ma lo chiede con un accento che per Lorenzo è insolito, sbagliato, talmente poco familiare da sembrare straniero, inglese o francese o albanese o qualcosa che comunque non è Italia, che comunque non è casa. Lorenzo non fuma, non ha mai neanche provato, ma s’infila una mano nella tasca del jeans e ne tira fuori due accendini di plastica, uno rosso e l’altro viola, e uno Zippo.
«Serviti pure,» dice, e il tizio fa una smorfia contenta, si ficca una sigaretta lunga e sottile tra le labbra, prende l’accendino viola dalla mano di Lorenzo e lo fa scattare, senza fretta. Glielo ripreme sul palmo, un attimo dopo, e annuisce, in segno di ringraziamento. Lorenzo arriccia all’insù un angolo della bocca e lo guarda allontanarsi verso i cancelli.
Fa freddo, tutto a un tratto.
Lorenzo fa per rimettersi in tasca gli accendini, e si accorge che la mano gli trema come un terremoto. Stringe il pugno, allora, con forza, e lo Zippo gli gela il palmo. Sorride, e un sapore molto, troppo simile all’amarezza gli esplode contro la lingua. Non gli piace stare da solo, non gli piace per niente, e questa scemenza è in grado di avvelenarlo persino adesso che dovrebbe essere fuori di sé dalla gioia e invece si sente soltanto spento, fuori posto.
Resta fermo ancora per un attimo, all’ombra tonda, grande e quasi sensuale dello stadio, con il biglietto per la partita infilato nell’elastico dei boxer e che gli solletica, con gli angoli, la pelle sensibile della pancia, e poi si ficca le mani nelle tasche della felpa e corre dietro al tizio col piumino verde, il tizio con l’accento tutto sbagliato, perché vuole chiacchierare, vuole chiedergli come si chiama e dov’è che è seduto e magari cosa ne pensa di Quagliarella.
La maglietta di Del Piero gli pizzica addosso, come il primo giorno che l’ha indossata.

*

I tornelli gli si chiudono alle spalle come una tenaglia, con uno sferragliare assordante e comunque troppo flebile contro l’ululato del vento, che forse è solo quello dello stadio. Lorenzo sorride, sorride e sorride: ha le guance in fiamme, calde di birra e di gioia, e si guarda attorno con gli occhi spalancati, come un bambino, come se fosse, di punto in bianco, sbarcato sulla Luna. Matteo, che è entrato subito prima di lui, ride e si passa una mano sulla pelata, si sfila gli occhiali e tira giù la cerniera del giubbotto. Sotto il verde acido, gonfio di piume, indossa la maglia di una divisa di perlomeno vent’anni fa, e Lorenzo sgrana gli occhi così tanto che gli diventano tondi come palloni da calcio.
«Cazzo, ma dove l’hai presa?» domanda, e Matteo ride di nuovo, si pianta i pugni nei fianchi, tutto impettito per mostrare meglio la rarità che ha addosso. «Cazzo, è bellissima.»
«È un pezzo unico,» dice, orgoglioso, e Lorenzo sorride così tanto che gli fa male la faccia.
«Perché non ne fanno mica, di così grandi,» commenta Giuseppe, quando la trappola di ferro dei tornelli lascia passare anche lui. Matteo gli tira una manata sulla nuca che Giuseppe tenta di schivare e non ci riesce, naturalmente, e Lorenzo ride. Un addetto alla sicurezza in giacca gialla fosforescente si avvicina e intima loro di levarsi dai piedi, perché intralciano il passaggio; Matteo sbuffa, sta per replicare qualcosa ma Lorenzo ha appena visto una mappa dello stadio, incassata in una colonna più giù lungo il corridoio, e ha dato uno strillo estasiato e sta già correndo in quella direzione.
Giuseppe scoppia a ridere.
«Dai, andiamo, prima che il ragazzino si perda,» dice, e Matteo sarà pure un capo ultrà con palesi problemi a riconoscere l’autorità, ma Lorenzo gli sta simpatico, davvero, con quel suo sorriso spontaneo e allegro e il modo assurdo e totalmente meridionale con cui pronuncia qualsiasi lettera, se l’è preso a cuore, ecco, perciò sospira e gli va dietro, pigliandolo per un orecchio quando lo raggiunge.
«Non è mica di qua che devi andare,» lo rimprovera, ma Lorenzo sta fissando la targa dello stadio in cima alle confuse stilizzazioni dei settori come se fosse un’apparizione della Madonna, tutto felice ed entusiasta e, cazzo, gli ricorda la prima volta che c’è andato lui, a vedere la Juve. «Ti vuoi fare una foto?»
«Oddio, sì,» soffia Lorenzo, con quell’aria di incredulità assoluta che lo fa sembrare un dodicenne appena. Matteo annuisce, tira fuori la macchina fotografica, fa cenno a Giuseppe di unirsi al ragazzino. Prima che riesca anche solo a prendere le misure per l’inquadratura, però, arriva pure il resto della truppa, e Lorenzo insiste che nella foto ci si infilino tutti, e a quel punto Matteo non può davvero mancare, perciò domandano il piacere ad un padre di famiglia che sospira, sorride, si carica il figlioletto sulle spalle e scatta tre volte, tanto per stare sicuri. Lorenzo non la finisce più di ringraziarlo e Matteo deve trascinarlo via di peso, praticamente.
«Cazzo, ma se una mappa ti emoziona così, aspetta di vedere il campo,» ride Emanuele, un po’ senza fiato perché lo stuzzicadenti spezzato l’ha estratto lui e quindi gli tocca portare le bandiere e gli striscioni e il megafono e tutto quanto. Lorenzo trattiene il respiro, sbianca come un cadavere. Il campo. Non ci ha minimamente pensato, lui, al fatto che vedrà il campo.
Settantuno ultrà col cuore di legno, di fronte a quell’espressione smarrita, scoppiano in un’identica risata che Matteo non saprebbe come definire, se non adorante.

*

Lorenzo suppone di essere morto al suo terzo minuto in curva con Matteo e gli altri, ma forse era il quarto, non ne è proprio sicuro. Comunque, sta di fatto che ad un certo punto stava aiutando Emanuele ad appendere uno striscione e il campo era vuoto, sul serio, avrebbe potuto giurarci, e poi ha alzato lo sguardo e, Dio, ma quello è Chiellini che si sta scaldando e, Dio, cazzo, quello è Del Piero e gli sta correndo incontro, non proprio incontro, naturalmente, perché Lorenzo è in cima alla curva e Del Piero è giù in campo, giù giù giù giù in campo, ma, insomma, sta venendo di qua, sta proprio venendo di qua, e Lorenzo è morto, è morto, è morto.
«Non me ne voglio più andare,» dice, con un filo di voce. Emanuele, accanto a lui, tira su la testa dal nodo che stava facendo, scruta in giù e si accorge di quello che Lorenzo sta fissando con una faccia quasi spiritata. Ridacchia, gli dà una pacca in mezzo alle scapole.
«Sta’ bono, che hai il posto in tribuna, principino.»

*

È un sogno, e basta. Lorenzo vorrebbe aver bevuto di più, al pub con Matteo e i ragazzi. Vorrebbe aver bevuto di più perché gli piacerebbe poter dare la colpa delle vertigini che gli tirano la testa su e giù alla birra, all’alcol, e invece no, no, è ridotto ad uno straccio ed è solo perché c’è la Juve, laggiù, e hanno a malapena iniziato il riscaldamento.
Lorenzo non la smette di sorridere, di ridere, e quando un paio di ragazzi lo accompagnano al suo posto vero, quello indicato dal suo biglietto bellissimo che conserverà per sempre, in men che non si dica fa amicizia con tutti quelli che ha attorno, soprattutto con il bambino seduto davanti a lui, e insieme contano il numero di palleggi consecutivi che Matri fa senza mai sbagliare, ginocchio poi piede destro poi spalla poi ginocchio poi testa poi piede sinistro poi ginocchio poi petto poi ginocchio poi testa, lì a bordo campo, e perdono il conto dopo la quinta decina. Lorenzo è felice come un cretino.
La curva canta e grida e la partita deve ancora cominciare e lui, se morisse adesso, non avrebbe neppure un rimpianto.
«Cazzo come sono patetico!» strilla, un attimo prima che Lucia, seduta due file dietro di lui, tre posti a sinistra, gli scatti una foto. Lei ride, scuote la testa, insiste per fargliene un’altra e Lorenzo caccia la lingua, sgrana gli occhi e ride, la sciarpa strettissima attorno al collo che gli fermerebbe il respiro, se solo ancora ne avesse un po’. Sullo sfondo, Lucia cattura Del Piero e Marchisio che confabulano, due macchie sottili contro il verde acceso del campo, e Lorenzo ha una nuova fotografia preferita in assoluto, per sempre, più di quella con Jumaine Jones, e per cinque minuti filati prega Lucia di mandargliela appena ha un momento.

*

È tardi, quando la partita finisce, e Lorenzo ha fatto in tempo a conoscere più o meno l’intero stadio. Torna a Torino in macchina con Matteo, si fermano ad una paninoteca dove nessuno sa cosa siano i friarielli e Lorenzo ride così tanto che gli fa male tutto il petto. Mangiano, bevono, cantano ancora, qualcuno gli passa un cellulare connesso ad Internet e lui accetta richieste di amicizia da perlomeno cinquanta persone, poi si rende meravigliosamente ridicolo in tremila modi diversi e quando finalmente rimette piede in ostello è talmente felice, esausto e ubriaco che fa quasi fatica a trascinarsi fino al letto prima di crollare addormentato come un sasso, come ogni sera della sua esistenza.
La mattina dopo si sveglia prestissimo, tipo mezz’ora dopo l’alba, perché l’unico altro tizio della camerata, alzandosi per andarsene al bagno, rovescia un comodino e fa un fracasso pazzesco, ma a Lorenzo non dispiace, davvero. Chiama sua madre, che comunque sarà già in piedi, perché avrebbe dovuto farlo ieri ma non ci ha pensato, e chiama Francesco, che lo manda a farsi fottere perché, Cristo, stava dormendo, ma dopo un minuto lo richiama da casa, dal telefono fisso, e gli tiene compagnia per due, tre ore, e a un certo punto dà un suono strozzato, una specie di risata smorzata in un gemito pesantemente inzuppato di stupore, e quando Lorenzo gli domanda che cos’è che l’ha sconvolto tanto Francesco boccheggia per un attimo, si sente lo schiocco umido delle sue labbra, e poi si arrende ad una risata genuina ed incredula.
«Non andare su Facebook, fratè,» dice, e anche Lorenzo ride, e si domanda come diavolo abbiano fatto i ragazzi ad avere la forza di metter su video e foto imbarazzanti tanto in fretta. «Cioè, oddio, tu vacci pure, ma non lasciarlo aperto con tua madre in giro. Cristo, Lorè... perché ti stai inculando un albero?»
«Non è che non l’ho mai fatto prima, Frà,» osserva Lorenzo, e ha ragione, Dio santo, ma Francesco è comunque sconvolto.
«Sì ma, cazzo, Lorè, questa gente da quanto la conoscevi, due, tre ore?» Scoppia a ridere, comunque, perché Lorenzo è fatto così e Francesco non è che non lo sappia. «Sei incredibile. Lo sai che sei incredibile, sì?»
«Non ti dimenticare bellissimo,» lo prende in giro Lorenzo, facendosi saltellare in mano una pallina antistress. Francesco ride, lo manda affanculo, amichevolmente, e poi è ora che Lorenzo si avvii di sotto a cercare un modo per arrivare a Vinovo.

*

Lorenzo ha in mano una cassettina di plastica che pesa un quintale e che deve custodire a costo della propria vita, o perlomeno così gli ha detto di fare il fotografo in cui s’è imbattuto duecento metri fa lungo il desolato viale che porta al centro sportivo dove si allena la Juve. Ci sono dentro obiettivi e accessori per svariate centinaia di migliaia di euro, probabilmente, e il solo pensiero basta a far venire a Lorenzo una fifa blu, e la voglia di scappare a gambe levate dalla paurosa responsabilità che tiene in braccio, ma in questo preciso istante il fotografo sta chiacchierando amabilmente con uno dei custodi della struttura, e al di là di quei due c’è una specie di soggiorno che dà su una parete vetrata spalancata su un prato verde e perfetto e Lorenzo, se strizza gli occhi, riesce a vedere, in fondo in fondo, un paio di figure in maglia bianca e pantaloni neri che si passano quasi svogliatamente un pallone e, cazzo, cazzo, cazzo.
Sua madre gli dice sempre che la sua linguaccia, il modo che ha di essere espansivo fino alla nausea, il fatto che abbia proprio bisogno di conoscere gente, che la sua personalità, insomma, finirà per metterlo nei guai, più prima che poi, e guai seri, spiacevoli. Lorenzo non è che non abbia avuto la sua brava dose di batoste, eh, dalla vita e dai fidanzati gelosi delle sue conoscenze casuali, ma in questo momento gli pare che tutti i lividi e i cuori spezzati di questo mondo siano stati un prezzo più che equo per la vaga, flebile speranza di riuscire, magari, ad avvicinarsi alla sua Juve in allenamento. Cristo santo.
Il custode del centro se ne va, di punto in bianco, e il fotografo - Luigi, si chiama, ha trentasette anni e non è neanche un tifoso, neanche gli piace, fare il fotografo sportivo, voleva diventare sarto, lui, e cucire un vestito per Angelina Jolie, Lorenzo l’ha scoperto in tre minuti di passeggiata al suo fianco, - fa cenno a Lorenzo di venirgli incontro.
«Adesso andiamo,» gli dice. Gli piazza una mano su una spalla, il suo sguardo è serissimo e Lorenzo raddrizza la schiena, rafforza la stretta attorno alla cassettina. «Senti, io ti sto facendo un favore e rischio il lavoro, va bene? Che mi fa schifo, d’accordo, ma è comunque un lavoro.» Sospira. «Vedi di non fare cazzate. Non mettermi in imbarazzo, non cominciare a urlare, non dare fastidio, non ti dico di non fiatare perché ho capito che non ci riesci, però-- non dare fastidio. Comportati bene, sì? Ce la puoi fare?»
«Ce la posso fare,» annuisce Lorenzo, e poi sorride, assolutamente raggiante. «Grazie, Luigi, veramente.»
«Sì, sì,» lo blandisce lui, e si volta, sfilandosi gli occhiali da sole dal taschino della camicia e ficcandoseli tra i capelli, come un cerchietto. «Non so nemmeno come hai fatto a convincermi,» brontola, sollevando da terra un borsello e mettendoselo a tracolla, poi precede Lorenzo verso la grande, pulitissima vetrata, e il cuore di Lorenzo, tu-thump, tu-thump, tu-tu-tu-thump, mentre lo segue, sembra un tuono, un fulmine incerto, e sembra che voglia ammazzarlo.

*

È ancora presto per i grandi, sebbene siano già le dieci e mezza, e Lorenzo rimane un po’ in disparte, a bordocampo, a guardare la Primavera cazzeggiare e pensa che, se solo il basket non gli piacesse molto di più, e non gli riuscisse molto meglio che il calcio, magari avrebbe potuto esserci lui, infagottato in quelle divise bellissime, a sudare nell’aria moderatamente fredda di fine febbraio. Luigi fuma in ginocchio davanti alla rete, e scatta più foto di quante probabilmente sia mai riuscito a venderne in tutta la sua carriera. Non sta badando più a Lorenzo da un pezzo, da quando ha constatato con piacere che i suoi preziosi obiettivi non sono andati in frantumi e che è tutto in ordine, perciò Lorenzo si sente libero di andarsene per i cazzi suoi, ecco, perché è rimasto fin troppo a lungo con le mani in mano, senza poter parlare con nessuno, e non gli pare che i ragazzini della Primavera o il loro allenatore siano particolarmente in vena di chiacchierare con lui.
Si aggira per il campo senza una meta precisa, fischiettando sottovoce, e finisce per rientrare nell’edificio principale, perché, già che è qui, tanto vale curiosare più che può, e poi vuole sapere se le docce dei calciatori sono più o meno grosse di quelle dei cestisti, e se, tipo, i lavandini hanno uno sgabello apposta per farci arrivare Del Piero, o Giovinco, quando ancora gironzolava da queste parti. No, davvero, Lorenzo è un tifoso quanto il peggiore dei Bravi Ragazzi, però è pure alto un metro e ottantasette a poco più di diciott’anni, e ha un senso dell’umorismo del cazzo, proprio non ce la fa a starsene buono su certe cose.
E insomma, è lì che ficca il naso tra tapis roulant e cose che sembrano oggettivamente nient’altro che strumenti di tortura, quando finalmente raggiunge i bagni. Sta praticamente gongolando, congratulandosi mentalmente con se stesso, e spinge la porta e s’infila dentro più agile di Diabolik e Lupin III messi insieme. Lo accoglie un ambiente semplice, piastrellato di azzurro, è un cesso, cazzo, niente di più, ma in fondo a destra c’è una porta e Lorenzo è veloce ad aprire anche quella e accendere la luce nella nuova stanza e, a-ha! Pensavano di fregarlo, ma lui è troppo intelligente e furbo e splendido, e infatti ecco che ha sgamato l’idromassaggio e, cosa ben più importante, le dannate docce. Ne sceglie una e ci si infila dentro, e un po’ ci rimane male quando si rende conto che sono identiche a quelle che ha visto nei palazzetti, perciò i giocatori di basket sono costretti a lavarsi solo dal petto in giù, a meno di non volersi annodare su se stessi, e gli architetti che progettano i centri sportivi e gli stadi sono, palesemente, dei sadici di merda.
Lorenzo s’imbroncia, tira un calcio alla parete piastrellata e incrocia le braccia sul petto, candidamente oltraggiato per l’intera categoria dei cestisti del mondo. E poi sente il rumore di una porta che si chiude, e lo scroscio soffocato di un getto d’acqua: qualcuno deve essere entrato nel bagno, merda. Lorenzo sa che dovrebbe starsene lì buono buono e aspettare che l’ospite misterioso tolga le tende, perché non è esattamente in un posto dove dovrebbe trovarsi, però è un tipo curioso, lui, mortalmente curioso, come un gatto col lardo e c’entra qualcosa uno zampino, Lorenzo ne è certo ma non ha mai avuto grande memoria per i proverbi, e comunque prima ancora che il pensiero gli si formuli bello e deciso lui si ritrova sulla porta, con un piede già al di là.
Sorride, la spinge, entra nel bagno e la riconoscerebbe tra un milione di altre, la sagoma mezza china sul lavandino più distante da lui, perché è un bravo tifoso, è un bravo tifoso davvero. Il respiro gli si mozza tra il naso e la gola, si perde, proprio, neanche i polmoni di Lorenzo fossero nascosti da qualche parte lungo la tangenziale, e lui si ritrova a non sapere più che farsene del proprio intero corpo, o del fatto che è al mondo.
Claudio Marchisio si sciacqua la faccia, una, due, tre, quattro volte, poi alza gli occhi e vede Lorenzo, riflesso nello specchio, che lo guarda con gli occhi enormi e la bocca socchiusa in una rotondissima ‘o’ di stupore. Arrossisce, Claudio, come se fosse lui quello che qualcuno ha sgamato a sgattaiolare in bagni dove non dovrebbe essere, e fa un cenno appena col capo.
«Non pensavo ci fosse qualcuno a quest’ora,» mormora, praticamente imbarazzato. Lorenzo fa un paio di passi in avanti, abbozza un sorriso.
«Cercavo le macchinette,» inventa, e si accarezza la nuca con una mano. Guarda Marchisio, Claudio Marchisio, sottilissimo in un paio di pantaloni scuri e una maglietta azzurro pallido a maniche lunghe, lo guarda e, un attimo dopo, sente la propria voce e distrattamente si domanda quand’è che le abbia dato il permesso di venir fuori. «Mi dispiace per il divorzio,» dice, senza neanche mordersi le labbra quando Claudio s’irrigidisce, a disagio. «Davvero, mi dispiace.»
«Uh,» replica lui, sorpreso, perché, davvero, che altro c’è da dire? Dovrebbe forse arrabbiarsi, ma, insomma, il ragazzino è inopportuno e ficcanaso ma tutto sommato gentile, e forse Claudio, Dio, Claudio non sta tanto bene quanto gli piacerebbe credere.
«Mio padre dice sempre che non bisogna fidarsi delle donne che si chiamano Roberta,» continua Lorenzo, avanzando ancora, con una faccia da schiaffi che potrebbe valergli qualche premio, e, d’accordo, adesso magari sta esagerando persino per Claudio. «Hanno il diavolo in corpo, dice sempre,» ridacchia, divertito, e poi solleva su Claudio due occhi densissimi e dell’esatto colore delle nocciole. «Mia madre si chiama Roberta,» rivela, e riesce quasi - quasi - a strappare a Claudio un sorriso, il primo, vero, da settimane.
«Non ti ho mai visto,» dice lui, comunque, perché avrà pure quasi sorriso ma l’argomento non è ancora esattamente uno dei suoi preferiti. «Sei nuovo nella Primavera?» Ma non gli pare che ci siano stati acquisti o incorporazioni, e comunque il ragazzino non ha il fisico di un calciatore. Difatti, scuote la testa.
«Sono, uh, l’assistente di Luigi, gli do una mano a portare in giro quella caterva di roba che ha,» dice, e quando Claudio si acciglia, perplesso, specifica: «Il fotografo.» E, oh, ecco, giusto, il fotografo, naturalmente, Claudio lo sapeva. Lo sapeva, davvero.
«Ti tratta bene?» domanda, tanto per non lasciar arenare la conversazione perché sarebbe un pochino imbarazzante. Il ragazzo si stringe nelle spalle, indifferente, e si avvicina ancora, esita un attimo e poi gli porge una mano, sfoderando un sorriso tanto enorme, candido e contagioso che Claudio ha quasi voglia di fare un passo indietro.
«Mi chiamo Lorenzo,» dice, gli occhi luminosi e Claudio si ritrova a stringergli la mano prima di poterci pensare su due volte, o magari anche tre, perché il ragazzo - Lorenzo - è davvero raggiante come una benedizione e c’è già qualcosa che si stiracchia, nel petto di Claudio e sul suo viso, una specie di allegria di riflesso, e Claudio non è pronto, non è pronto per niente.
«Claudio Marchisio,» si presenta, e si sente irrimediabilmente tonto quando Lorenzo ridacchia tra sé, chinando un po’ il capo e ritirando la mano. Claudio, assurdamente, si trova ad avere freddo, quando perde il contatto con la sua pelle bollente.
«Mi sa che già lo sapevo,» dice Lorenzo, sogghignando compiaciuto, come se avesse appena vinto qualcosa. Claudio arrossisce, vorrebbe potersi schiacciare le orecchie contro i lati del cranio, e poi Lorenzo gli parla di una sciocchezza dietro l’altra, e anche di cose più serie, e Claudio lo ascolta, gli occhi un po’ sgranati, perché ha una bella voce, e comunque è spiritoso, e dopo un po’ comincia pure a rispondergli, e si parlano, allora, chiacchierano, e Alex, quando viene a cercarlo, li trova seduti sul pavimento del bagno, Lorenzo con la schiena appoggiata al muro e Claudio a gambe incrociate sulle piastrelle, e sgrana gli occhi, sorpreso, confuso, ma qualcosa di morbido si fa subito spazio sul suo viso non appena si accorge che Claudio è rilassato, praticamente contento.
«Stiamo cominciando,» dice, gentilmente. Lorenzo sta avendo un infarto, ma d’altra parte è crepato ieri sera durante la partita, ed è crepato di nuovo un’ora fa, quando ha visto Claudio Marchisio a mezzo metro da lui, perciò non è che una morte in più gli faccia granché differenza, a questo punto. Claudio, invece, arrossisce appena, e si tira in piedi, e poi lo guarda.
«Vieni anche tu, no?» dice. «Luigi avrà bisogno di una mano.»
Lorenzo annuisce meccanicamente e in qualche modo riesce ad alzarsi, e persino a seguire Claudio Marchisio ed Alex Del Piero - respira, Lorenzo, respira, o magari anche no, ché sei già morto, - lungo i corridoi della polisportiva, fino al campo di allenamenti. Per una volta rimane zitto, e non gliene frega niente del silenzio.

*

Un’altra cosa alla quale Lorenzo non reagisce poi tanto bene, oltre alla solitudine, è la tristezza - quella altrui, soprattutto. Lo butta fuori equilibrio, lo scombussola, perché lo intristisce e lui non è abituato a sentirsi triste, davvero. Perciò, guardare Claudio correre su e giù per l’allenamento con quella faccia mesta, come se l’unica donna che abbia mai amato avesse deciso, di punto in bianco, di non poterne più di lui, della sua vita, dei suoi occhi azzurri, della sua ossessione per una maglia, per un capitano, e di voler divorziare, - ops, - tenerlo d’occhio per tutta la mattina e non vedere altro che la curva depressissima all’ingiù delle sue spalle, ecco, Lorenzo non la prende nel migliore dei modi.
Per la verità, la prende così male che quasi non riesce a godersi lo spettacolo della sua Juve in bella mostra, praticamente solo per lui, a tre passi di distanza.
Quando gli allenamenti finiscono, Luigi lo degna appena di un saluto, un cenno del capo, prima di andare via. Lorenzo allora si ritiene esonerato dall’obbligo di comportarsi bene e non fare casini, per cui corre nella direzione in cui è sparita la squadra, e ritrova la strada per i bagni di questa mattina presto, pensando che, magari, con un po’ di fortuna -
E poi, magari, con un po’ di fortuna, davvero ci trova Claudio, e nessun altro, di nuovo chino su un lavandino, il secondo entrando, però, stavolta, non sempre lo stesso, e gli sorride, prima di precipitarglisi addosso, prendergli il viso tra le mani e baciarlo.
Lorenzo non pensa mai più di tanto, prima di agire, soprattutto non quando la gente attorno a lui è triste e lui non ha la minima idea di come cambiare le cose, ed è un’abitudinaccia che i suoi genitori prima e i professori poi e ancora i compagni al partito hanno sempre tentato di estirpargli, un angolo della sua persona che tutti vogliono smussare perlomeno un po’, ma non è mai servito a niente, e probabilmente non servirà mai, perché Claudio rimane immobile contro di lui per un attimo, e poi si scioglie, e basta, contro la pressione della sua lingua, e Lorenzo, cazzo, Lorenzo accenderà un cero ma pure un milione di ceri alla sua nuova dea l’Impulsività, se questi sono i risultati.
Claudio geme appena nel bacio, stringendo le mani ai fianchi di Lorenzo e tirandoselo brevemente addosso. Lui risponde contento, contentissimo, tutto labbra e lingua e denti ed è invadente, è irresistibile, magari, è dolce e preoccupato sinceramente ed è per quello, poi, che Claudio cede, perché sente sotto la pelle che Lorenzo vuole soltanto aggiustare le cose, perché è un impiccione che tende ad annullarsi negli altri e quindi lo vuole aiutare, lo vuole aiutare quasi disperatamente.
Claudio si separa da lui, indietreggiando di un soffio, e non apre gli occhi, ma respira pianissimo, e Lorenzo lo guarda e pensa che suo padre ha ragione, tutte le Roberta sono delle matte, perché solo una matta potrebbe lasciare uno che è bello così. Poi magari si sbaglia, e magari anche suo padre si sbaglia, e la Roberta di Claudio aveva tutte le ragioni del mondo per volerlo piantare, perché magari Claudio è un pessimo padre e un marito peggiore e una persona da prendere e gettare nell’immondizia così com’è, ma Lorenzo non riesce a crederci, è troppo bello, e non erano i Greci a dire che uno che è bello necessariamente è pure buono? La sapevano lunga, i Greci.
«Mi dispiace,» bisbiglia, e Claudio sbuffa piano e il suo respiro è caldo e piacevole contro le labbra di Lorenzo, quasi più di un bacio.
«Non è che sei uno che va in giro a baciare quanti più calciatori possibile, ve’?» chiede, imbronciandosi un poco, e prima che Lorenzo possa rispondergli lo bacia ancora, come se temesse di sentirgli dire di sì, che è precisamente quello il motivo per cui sta al mondo. Lorenzo ride piano, scuote la testa.
«No,» dice. «Veramente sei il primo. Ma ora che mi ci fai pensare, non sarebbe tanto male, come hobby.»
Claudio sorride un po’, si fa indietro ancora di un passo, si strofina una mano sugli occhi.
«Ho bisogno di una doccia,» dice, e poi tentenna un attimo. «Tu... torni domani? Con Luigi?»
Lorenzo non vuole mentirgli, e comunque non ha la presunzione di credere che potrebbe intristirlo con la sua piccola, sciocca verità, per cui scuote la testa, si guarda i piedi, tenta un sorriso spensierato che gli riesce solo a metà, e comunque è tremendamente pieno d’imbarazzo.
«Faccio il cameriere, in realtà,» confessa. Claudio sbatte le palpebre, sorpreso. «Non sono nemmeno di qua, io... sono di Napoli, sono venuto per la partita di ieri.»
«Ah,» replica Claudio, atono, un po’ in crisi. Lorenzo si morde le labbra.
«Non mettere nei guai Luigi, per piacere,» dice, e Claudio scuote la testa, solleva le mani.
«No, no, figurati, no,» lo rassicura. Sembra che stia pensando a qualcosa, e alla fine abbozza una smorfia sinceramente divertita che gl’illumina persino un po’ gli occhi. «Napoli, eh? È un bel viaggio.»
Lorenzo si stringe nelle spalle.
«Era per lei,» dice, e accenna col mento allo stemma zebrato cucito sul cuore della maglietta di Claudio. Lui abbassa la testa, lo guarda. Chiude gli occhi, sorride davvero, giusto un briciolo.
«Capisco,» dice, ed è ovvio che capisca, andiamo, proprio lui. Lorenzo fa un ghigno sghembo.
«Senti,» comincia, avvicinandoglisi per stringergli i polsi tra le mani. «Promettimi che non sarai triste, e io me ne vado contento.»
Claudio lo guarda, comicamente perplesso, e Lorenzo stringe un po’ la presa attorno ai suoi polsi, come ad incitarlo. Claudio sbuffa una risatina sorpresa, scuote la testa e si arrende.
«Lo prometto,» dice, chiaramente divertito, magari un pochino sconvolto. A Lorenzo va bene, davvero. Ha la sua parola e gli basta, anche se Claudio probabilmente lo crede pazzo, e ha tutto il diritto di farlo, eh.
«Ti lascio il mio numero di cellulare,» dice, e quasi senza che Claudio se ne accorga gli sfila il cellulare dalla tasca e lo sblocca, digita il proprio numero e glielo salva in rubrica. Non è che creda che Claudio lo chiamerà per davvero, ma gli sembra un gesto carino e invadentissimo, che non manca di farlo sorridere un po’ più di prima, adesso quasi visibilmente, perciò Lorenzo è soddisfatto. «Se hai bisogno, se... se scendi a Napoli, chiamami.»
«Va bene,» dice Claudio, e si riprende il cellulare e poi scuote la testa, guardandolo da sotto in su. «Sei un pazzo, lo sai?»
«Lo so,» sogghigna Lorenzo, e gli ruba un altro bacio. «Però non sono pericoloso, almeno finché non mi arrabbio, per cui vedi di mantenere la promessa.»
Claudio lo lascia andare, allora, il mento premuto contro il petto. Con una mano si sfiora la punta del naso, nasconde un sorriso.
«Va bene,» dice, promette. «Va bene.»

*

Passano due, tre mesi, e non è che Lorenzo si sia dimenticato di aver - Dio l’aiuti - incontrato, toccato e baciato Claudio Marchisio, ma ci pensa poco perché non è una cosa che possa andare a raccontare in giro a cuor leggero, in fin dei conti. Perciò, si lascia travolgere ancora dalla sua routine di tremila cose da fare ogni giorno per evitare di rimanere solo con i propri pensieri, e poi una mattina, durante una spiegazione particolarmente noiosa di matematica, sente il cellulare vibrargli sommesso contro una coscia, e sobbalza, sorpreso, nascondendosi dietro la schiena di Francesco, seduto davanti a lui, per tirare fuori il congegno e spiare chi è che ha avuto la brillante idea di chiamarlo a quest’ora.
Nessuno di sua conoscenza, si rende conto, osservando la fila di numeretti che lampeggiano sullo schermo, ma si alza comunque, domandando il permesso di andare in bagno, perché Lorenzo è Lorenzo e non gli piace lasciar squillare a vuoto i telefoni. Appena è in corridoio risponde, infilandosi una mano tra i capelli.
«Pronto? Chi è?» domanda, avviandosi in bagno. Dall’altro capo della chiamata, qualcuno trattiene il respiro per un momento, poi tossisce, per schiarirsi la voce.
«Lorenzo?» sente, e c’è una punta di incertezza nel modo in cui lo sconosciuto pronuncia il suo nome che lo fa sorridere. Chissà chi diamine è, forse quel ragazzino coi capelli rossi con cui ha parlato all’ultima manifestazione? «Ciao. Sono Claudio.»
«Claudio chi?» ridacchia Lorenzo, infilandosi in bagno, perché gli vengono in mente perlomeno tre Claudii diversi, in questo momento. Claudio sospira.
«Claudio Marchisio,» dice, e, oh, ecco, proprio a lui Lorenzo non aveva pensato. Claudio Marchisio. Inciampa maldestramente nei suoi stessi piedi, Lorenzo, e sbatte una mano contro il muro per reggersi. Va alla finestra, la spalanca e ficca la testa di fuori, respirando con la bocca più aperta che può.
«Claudio Marchisio?» gracchia, e si sente tremare tutto anche se in realtà è più fermo di una statua di sale.
«Già,» dice lui, sembra quasi divertito. «Ti ricordi che mi hai dato il tuo numero, no?»
«Sì, mi ricordo,» boccheggia Lorenzo, e si piazza la mano libera sulla radice del naso stringendo forte, giusto per essere sicuro di non stare sognando. Fa male, e non appena si rende conto che è tutto vero - o comunque verosimilmente tale, - c’è questo sorriso enorme e scemo che gli preme agli angoli delle labbra e lui non fa niente per trattenerlo, davvero. «Come stai?»
«Bene, grazie,» risponde Claudio, ed è una grossa bugia ma Lorenzo non ha intenzione di smascherarlo. «A te come va? Ti disturbo?»
«No, no, mi hai salvato da una roba pallosissima, qualcosa sulle funzioni dei logaritmi,» dice. Claudio rimane in silenzio per un attimo.
«Vai a scuola?» chiede, come se facesse fatica a crederci, e Lorenzo scoppia a ridere.
«Sì che vado a scuola,» dice.
«Ma ti hanno bocciato tre o quattro volte?»
«Veramente no,» Lorenzo ride di nuovo. «Sono perfettamente in pari.»
«Gesù santo. Ma quanti anni hai?»
«Diciotto, li ho fatti a novembre scorso.»
«...Gesù santo,» ripete Claudio, e Lorenzo è sicuro che abbia sgranato gli occhi e stia scuotendo la testa. «Gesù santo, te ne avrei dati perlomeno ventitrè.»
«Grazie,» ride. «Mi capita spesso, in realtà, non ti sentire in colpa.»
«Ha un senso, comunque,» continua Claudio, distratto. «Cioè, ti comporti chiaramente come un adolescente. Gesù santo, diciott’anni.»
«Oi!» esclama Lorenzo, divertito e fintamente oltraggiato e si siede sul davanzale ampio della finestra, dondolando le gambe. «Senti, nonno, non sei poi tanto più grande di me.»
«Temo di sì, invece,» dice Claudio, e c’è una specie di risata nella sua voce che dà a Lorenzo un pochino di pelle d’oca, magari, ma è solo perché, diamine, è Claudio Marchisio e a lui sembra di sentire ancora contro la bocca le sue labbra asciutte e screpolate, tristi, sole da morire. «Comunque dai, torna in classe, non ti voglio... mettere nei casini, né niente.»
«No, non c’è problema,» dice Lorenzo, perché davvero non ce n’è, e comunque non ha intenzione di concludere questa conversazione, tipo mai. «Veramente. Mi hai chiamato per qualcosa, no? Dimmi.»
Claudio tentenna, a disagio, non che Lorenzo possa vederlo ma lo suppone, perché diciott’anni a buttarsi nello spazio personale delle persone gli hanno insegnato a leggere gli umori degli altri con una facilità impressionante, pure per telefono.
«Io non...» tenta Claudio, incerto. Lorenzo ridacchia, non riesce a farne a meno, e questo sembra dargli coraggio. «Siamo a Napoli, no? La prossima settimana. E mi è venuto in mente che magari potevi... non lo so.» Sospira, Lorenzo immagina che si stia prendendo mentalmente a calci, che si sia appena reso conto di quanto sia stato cretino a chiamarlo, di quanto sia assurdo il mondo, e non riesce a dargli torto, non davvero, però è così incredibilmente felice che quasi si mette a saltellare su e giù per il cesso di scuola. Claudio sospira di nuovo, cambia strada. «Ci vieni alla partita?»
«Pensavo di sì,» dice Lorenzo. È vero che ci ha pensato, così come ci pensa sempre, da che ha vita, di andare a vedere tutte le partite del mondo, della Juve e della Pepsi e dell’Armani Jeans e pure quelle dei Lakers, dall’altra parte dell’oceano, per cui non è che stia strettamente mentendo. «Dici che dovrei venire?»
Claudio ride un po’, meno nervoso di prima.
«Se ti va,» risponde, neutro. «Ti posso far avere i biglietti in tribuna. Se vuoi portarti qualche amico, o se...» Prende fiato. «Senti, sono un coglione, chiaramente, e non so neanche che sto facendo, non... mi dispiace.»
«Non ti scusare,» gli dice Lorenzo, con dolcezza. «Vermente, non c’è bisogno. Va bene, veramente, sono sicuro che lo sai.»
«Sì, sì,» mormora Claudio, quasi tra sé. «Cristo, lo sapevo che Borriello mi avrebbe rovinato. Hai diciott’anni, bontà di Dio, diciotto, e io sono un coglione integrale.»
«Claudio,» Lorenzo ride, quasi cade giù dalla finestra, si salva aggrappandosi fortissimo all’intelaiatura e poi si sistema meglio, senza fiato. «Claudio, non ho capito un cazzo di quello che hai detto, però va bene, senti. Non c’è neanche bisogno che mi procuri i biglietti, io-- però ti voglio vedere, ok? Devo controllare se sei uno spergiuro depresso,» sogghigna, e sente Claudio sbuffare e brontolare qualcos’altro, ma non gli dà retta. «Perciò senti, mandami un messaggio o richiamami, come vuoi, e fammi sapere dov’è che posso venire a gonfiarti di botte se sei ancora triste. Va bene?»
E va bene, d’accordo. Claudio ha ancora dei seri problemi a scendere a patti col fatto di aver baciato un diciottenne - e che il suo cervello continui a suggerirgli di farlo ancora, ancora e ancora, e che il suo stomaco maledetto insista ad annodarsi entusiasta all’idea, - però va bene, e promette di chiamarlo appena sarà sceso dall’aereo, e lui è uno che le promesse le mantiene, o perlomeno, - perlomeno, - ci prova con tutto quello che ha.

*

«Non ci credo,» ride Lorenzo, non appena vede Claudio venirgli incontro, camuffato alla meno peggio con un paio di occhiali da sole a specchio e un cappellino con la visiera calcato sul viso e comunque, ai suoi occhi, riconoscibile come un leprotto castano in mezzo alla neve. «Sei felice davvero.»
E Claudio non ci ha fatto caso, per tutta la strada dall’albergo fino al bar dove si sono dati appuntamento, ma ha un sorriso sulla faccia, un sorrisino piccolo e contento, spensierato, più che altro, che gli arriccia le labbra e gli toglie dieci anni d’età dalle spalle. Non appena Lorenzo glielo fa notare, con quella sua smorfia felicissima che andrebbe immortalata e imbottigliata in pillole e venduta come antidepressivo, Claudio si sente avvampare come un braciere, e fa del proprio meglio per smettere di sorridere, riuscendo solo a far scoppiare a ridere il ragazzino.
«Vieni qui,» gli dice Lorenzo, ed è per questo, Dio, per quella decisione così gentile nei suoi occhi che Claudio fa fatica a credere che non abbia trent’anni, l’età di Alex, magari, e tutta la sua esperienza. Gli si arrende in fretta, comunque, perché a quanto pare è incapace di fare diversamente, e Lorenzo lo abbraccia, premendosi il suo viso contro il collo. Ha un odore buono, di ragazzo e di scuola, e un po’ acre di sudore, e Claudio pensa che Marco l’avrebbe già morso da un pezzo, bello e dorato com’è. Perché stia pensando a quello che farebbe Marco Borriello se fosse nei suoi panni, Dio solo lo sa.
«Come stai, bimbo?» domanda, dopo un attimo, quando Lorenzo lo lascia andare, e il nomignolo, bimbo, suona malissimo sulla sua lingua, innanzitutto perché chiunque nel mondo continua a chiamare lui in quel modo, nonostante un trilione di cose, nonostante suo figlio e il divorzio e la sua serietà incrollabile, e poi perché Lorenzo, con quello sguardo adulto e il mento ispido di barba e le mani grandi e sicure sui suoi fianchi gli pare tutto, meno che un bambino.
Lorenzo ride, comunque, intenerito, e lo bacia sulla fronte, tanto per prenderlo un po’ per il culo.
«Sto bene,» dice, e lo stringe di più. «Ti va un caffè?»
Claudio non dovrebbe bere niente di più destabilizzante dell’acqua frizzante, a ventiquattr’ore da una partita, ma non ha voglia di rifiutare, per cui si stringe appena nelle spalle e si lascia trascinare tra una sfilza di tavolini strizzati sul marciapiede fino ad uno un po’ in disparte. Al cameriere che subito si materializza lì accanto Lorenzo ordina due caffè e due sfogliatelle, - «Ricce o frolle?», domanda quello, e Lorenzo non esita un attimo prima di dire, «Fai una e una,» e il cameriere annuisce, prendendo nota, - e Claudio, di nuovo, non vede il bisogno di opporre resistenza, per cui sprofonda un po’ di più nella comoda sedia di vimini e si guarda attorno.
Fa caldo, a Napoli, più che a Torino, perché la città è più umida e appiccicosa, ma il loro tavolo è ben riparato da un ombrellone di cotone spesso e un refolo di aria condizionata striscia fuori dall’ingresso del locale, perciò non si sta tanto male, tutto sommato. Lorenzo picchietta un piede contro lo stinco di Claudio, sotto il tavolo, e ridacchia, gigione e felice, giocherellando con il posacenere.
«Fumi?» domanda Claudio, non perché sia curioso davvero, anche se magari un briciolo gli interessa. Lorenzo scuote la testa.
«Sono tipo l’unico tra i miei conoscenti, però,» ridacchia, e Claudio sorride tra sé. Il cameriere torna portando quello che hanno ordinato - quello che Lorenzo ha ordinato, cioè: due tazzine di ceramica spessa, piene a metà di caffè color nocciola e denso come Claudio non ne ha mai annusato prima in vita sua, e un piattino con su due affari profumati, una che sembra una specie di coda di aragosta fuori misura e l’altra che ha l’aria di essere un tortino estremamente zuccheroso. Claudio non è un gran cultore di culinaria - Borriello avrebbe tirato fuori una battuta di merda su questo fatto, - e Lorenzo glielo legge in faccia in un istante che non aveva mai visto una sfogliatella.
«Io preferisco la riccia,» dice. «Però tu assaggiale tutte e due, e decidi.»
Claudio si acciglia, perplesso, e decide di attaccare il caffè, per prima cosa, perché perlomeno di quello è sicuro. Si guarda attorno, cercando lo zucchero, e si acciglia ancora un po’ quando s’accorge che sul tavolino non ve n’è traccia.
«S’è dimenticato lo zucchero,» dice, e Lorenzo scuote la testa.
«È già zuccherato,» sorride, tutto compiaciuto, e Claudio sgrana gli occhi, perché che diamine di posto è mai questo? Lorenzo ride del suo stupore. «È pure già girato, se proprio lo vuoi sapere.»
«E se non lo volevo zuccherato?» domanda Claudio.
«Glielo dicevi,» sorride Lorenzo, semplicemente.
«Uh, ha un senso, credo,» mormora Claudio, ma poi si acciglia. «Barbari,» aggiunge, sottovoce. Prende tra due dita il manico della tazzina, ma lo lascia dopo un istante perché si è scottato, cazzo. Lorenzo ride, e lui lo guarda, scandalizzato. «Ma me lo sono inventato, che brucia?» chiede, e Lorenzo scuote la testa.
«Lo beviamo così, il caffè, in tazza bollente,» spiega, e con una naturalezza preoccupante si porta la tazzina alle labbra e butta giù tutto. Claudio ha il sospetto che magari la sua, di ceramica, non scottava come un forno, e quando Lorenzo la riappoggia sul piattino allunga un dito a verificare: no, Cristo, è un carbone ardente pure quella, il cretino si sarà ustionato le labbra e la lingua, ma magari ormai è abituato ed è tipo tutto foderato di cuoio, dalla gola in giù.
«Barbari,» ripete, stupito, e Lorenzo ride, lo osserva mentre tenta di strappare un pezzetto di sfogliatella riccia, impicciandosi con le volute di pasta che resistono orgogliosamente all’invadenza delle sue dita.
«Ti conviene morderla,» dice, con un sorriso furbo. Claudio tenta ancora un po’ di essere una persona educata, ma la dannata pasta continua ad opporsi strenuamente e alla fine è lui ad arrendersi, e il boccone che voleva lo prende con un morso. Gli piace, comunque, gli piace così tanto che non ha voglia di assaggiare l’altra. Lorenzo lo capisce subito, ridacchia, si prende la frolla e si mette a sbocconcellarla, tutto contento.

seconda parte »

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