Fic: We're right at the end

Jun 25, 2011 00:13

Titolo: We're right at the end
Autore: el_defe
Betareader: waferkya
Fandom: RPF Calcio
Personaggi: Giampaolo Pazzini/Riccardo Montolivo, Alberto Gilardino, Dario Dainelli, Lorenzo De Silvestri, Federico Carraro, Adrian Mutu, Mirko Vučinić, Alice Bregoli in Gilardino, Adem Ljajić, Stevan Jovetić, una OFC sempre illustre ma non più sconosciuta,con la partecipazione straordinaria di Siniša Mihajlović nei panni di un barista. *ANF*
Rating: 16+
Warning: AU della peggior specie, slash leggero, accenni di violenza e travestitismi. Ah, e Gila. *uhm* E PURE HET.
Conteggio Parole: 4,285 (FDP) (OMG)
Prompt: Strada deserta @ bingo_italia.
Note: Buon diciottesimo, Rouge. ♥
Disclaimer: Nulla è accaduto e comunque sia non ci guadagnerei niente e non avrei pretese di realismo neppure se fosse tutto vero.
Intro: Una settimana dopo gli eventi di It was all meant to be, poco o nulla è cambiato al IV Oltrarno: l'ispettore Gilardino è sempre ossessionato dall'oggetto della sua ricerca, mentre la squadra che ha messo su - tutti, tranne uno, che brillano molto per empatia e pochissimo per geniali capacità poliziesche - cercano di far sì che non vada completamente fuori di testa; due ombre sconosciute cercano di arrivare prima dell'ispettore all'obiettivo comune, mentre altre due, molto più familiari, cercano di scrivere la parola fine a quello che comincia a sembrare un libraccio della peggior specie.




WE'RE RIGHT AT THE END
- and mad about it, just figured it in my head -
«Gilardino.»

«Ti ricordi di me?» Alberto riconobbe immediatamente la voce; la sua mano ebbe un tremito. Facendo un suono indistinto di gola in segno di assenso, allungò la mano verso la tastiera per far partire il programma di riconoscimento vocale e tracciamento dell’identificativo.

«Non provarci, abbiamo preso le nostre precauzioni. E non fare segnali ai tuoi amici lì, o stacco la chiamata e non saprai mai quello che abbiamo da dirti su Stevan.»

Si trattenne, guardandosi intorno per cercare di intravedere l’obiettivo di una qualche telecamera nascosta; gli altri due poliziotti nella sua stanza alzarono lo sguardo dai rispettivi cumuli di incartamenti, guardandolo interrogativamente, ma fu pronto a rivolgere loro un cenno di diniego. «Mi dica, prendo nota» disse, cercando di dissimulare, almeno alle orecchie e agli occhi di Dario e di Lorenzo, la violenta emozione che gli serrava la gola.

«Bene.» Giampaolo sembrava compiaciuto. «L’abbiamo cercato per te. Fino al nostro... incontro, la settimana scorsa, tutte le nostre informazioni convergevano sul suo paese natale, il Montenegro.»

«Io non vi ho chiesto niente» ringhiò a bassa voce, guadagnandosi una nuova occhiata sospettosa da parte di Dario. «Non avete il diritto di-»

«Taci.» Alberto obbedì. Giampaolo attese qualche istante in assoluto silenzio, prima di continuare. «Gli slavi erano venuti a cercare te. Jovetić è scomparso il primo giugno e nessuno sa che fine abbia fatto.»

Alberto tacque, non fidandosi della propria voce per poter rispondere.

«Il che significa che continui ad essere in pericolo, perché tu sapevi che era nelle loro mani, mentre adesso loro sono convinti che sia nelle tue. E ti assicuro, una cosa è avere contro due sgherri di poco conto come quelli che ti abbiamo fatto beccare noi, un’altra è avere a che fare direttamente con Mutu e Vučinić.»

«Starò attento.»

«Dico sul serio. Quelli ti ammazzano.»

«E a te cosa te ne viene se lo fanno o non lo fanno?» lo rimbeccò, irritato. «In fondo un poliziotto di meno ti farebbe comodo... specie uno che conosce la tua faccia, no?» insistette, facendo un gesto stizzito con la mano e prevenendo la reazione dei due colleghi.

«Diciamo che a Ricky sei simpatico e gli dispiacerebbe vederti morire. A lui piacciono le storie a lieto fine, quindi attivati perché sia così. Tu vuoi rivedere Stevan, no?»

Alberto deglutì. «Ovviamente.»

«Anche al punto di dover avere a che fare con Pazzolivo?»

«Sì.»

«Ci faremo vivi noi. Ah, Gilardino... Riccardo mi prega di dirti che quel look da zebra chic non ti dona. La cravatta nera ti sbatte.» Una risata, poi il clic che metteva fine alla telefonata. Alberto sbatté il cellulare sulla scrivania e arrotolò la punta della sua cravatta intorno al dito, con aria palesemente infastidita.

«Non sono riuscito a tracciarla» disse Dario, ignorando l’occhiata irritata di Alberto. «Mi sembravi troppo impegnato a fare duelli verbali machisti per controllare l’ID della chiamata. In ogni caso era schermata, continuava a segnalare il commissariato come punto di partenza della chiamata. Impossibile individuare il telefono.»

«Una fonte?» lo interruppe Lorenzo, e Alberto annuì. «Splendido. Su cosa?»

«Stevan.» Sia Dainelli che De Silvestri alzarono gli occhi al cielo: quella storia cominciava ad essere un’ossessione anche per loro, visto quanto lo era per l’ispettore e quanti rischi era disposto a correre per sbrogliare quel caso rimasto insoluto e, in ogni caso, non più di loro competenza. «E Pazzolivo.»

«Ci mancava giusto un collegamento tra i due, visto che è l’unica pista che non abbiamo seguito.» Il sarcasmo nella voce di Lorenzo era palpabile. «Amico, non credi che potresti chiedere finalmente quelle dannate ferie? Ne hai un gran bisogno.»

«Cazzate.»

«Figurarsi. Almeno puoi andare a pranzo, prima che chiudano tutti?»

«Trovatemi Carraro e la Rossetti. Si fa il punto delle indagini.» Dario e Lorenzo si guardarono, esasperati, e il loro superiore batté i pugni sulla scrivania, alzandosi di scatto. «Cosa avete da sfottere?»

«... gliel’hai dato tu il permesso, capo. Fino alle tre. Sono in Fiera per presentare il nuovo libro della Rossetti, no?» disse lentamente Dario, cercando di essere conciliante.

«Ormai si comportano come marito e moglie» puntualizzò Lorenzo. Alberto lo guardò con espressione vacua, poi uscì dalla stanza sbattendo la porta e, percorrendo i corridoi a passo di marcia, quasi travolse un inserviente delle pulizie per uscire dal commissariato.

Poggiando il mento sullo spazzolone che spandeva acqua tutto intorno a sé, Riccardo lo seguì con sguardo assorto e un lieve sorrisetto; poi, rimboccandosi le maniche e togliendosi dalla faccia le ciocche della parrucca che aveva indossato, riprese a lavare il pavimento con energia. Aveva un appuntamento improrogabile.

*

Chiunque avesse conosciuto Alberto Gilardino, ispettore capo del IV Distretto “Oltrarno”, e l’avesse incontrato negli ultimi dieci giorni, avrebbe certamente concluso che aveva necessario e disperato bisogno di una vacanza o quantomeno di un medico. La sua totale dedizione al lavoro e l’altrettanto completa mancanza di humour rendeva possibile l’approccio umano soltanto a chi era in grado di tollerare una tale combinazione di fattori: l’ex-moglie, piuttosto nota per il suo passato da modella di un certo talento, proprietaria di un negozio di abbigliamento della sua firma personale e a detta di tutti una cara e santa donna, aveva resistito per anni, ed era la campionessa in carica e indiscussa della specialità, con il bonus importante di essere ancora in buoni rapporti con suo marito.

Era stato Alberto a lasciarla: la sua confessione della motivazione per cui erano costretti a terminare il loro matrimonio era stata secca e onesta, la reazione di lei inevitabilmente ferita ma tutto sommato migliore del preventivabile, e se erano stati d’accordo sull’affidare la piccola Ginevra alla madre era altrettanto vero che suo padre non faceva mancare né il suo supporto economico né la sua presenza alla figlia. Alice aveva accettato Alberto per quello che era e non dubitava che avrebbe saputo fare altrettanto anche adesso che conosceva un lato di lui prima ignoto: ma Alberto si era opposto all’idea categoricamente.

La motivazione, per chiamarla in questi termini, era scomparsa nel nulla una decina di settimane dopo la firma sull’atto della loro separazione, e nei cinque mesi successivi l’ispettore aveva reagito come i pochi messi a parte di quel segreto avevano preventivato: Alberto lavorava sempre di più, dormiva sempre di meno, e aveva sempre maggiore bisogno di una vacanza o di un medico. Specialmente in quel momento.

«Fammi capire bene» disse Alice con allarmata lentezza, un crepitio diffuso dall’altra parte del telefono ad indicare il respiro affannoso dell’ex-marito, «vuoi che prenda tutto, faccia le valige, chiuda il negozio per chissà quanto e vada da mia madre con Ginevra perché, secondo te, “siamo in pericolo di vita”?»

«Sì.» Alberto ringraziò mentalmente di aver sposato una donna forte che si lasciava prendere dal panico solo quando la situazione era incontrollabile. «Tra cinque minuti sono in negozio.»

Alice annuì. Non era un dramma se Alberto staccava dal lavoro durante la pausa pranzo, ma certamente lo diventava se lo faceva soltanto per assicurarsi che lei lo stesse a sentire. Significava che ci credeva davvero. Chiuse la conversazione e tornò dall’unico cliente che attendeva pazientemente da quando era squillato il telefono, apparentemente molto interessato allo scaffale delle camicie accanto alla porta che dava sul retro, dove aveva preso la chiamata. Comprò una camicia più piccola della sua taglia, di un lavanda pallido che non gli sarebbe stato bene in nessun caso, ma Alice vi prestò meno attenzione del consueto e fu sollevata di vederlo andare via. Sentiva che la situazione stava diventando incontrollabile.

*

Dribblata elegantemente l’ultima giornalista che le aveva chiesto, come altri undici autentici geni prima di lei, quante e quali parti dei suoi racconti fossero prese da esperienze e vicende reali delle sue fonti su cui aveva messo le mani, Viola scoccò uno sguardo eloquente al rappresentante mandato dal suo editore, che ringraziò i convenuti e fece distribuire una ventina di saggi omaggio alle altrettante testate convenute per la presentazione dell’ultimo libro di V. M. Roberts, Try To Fix You. La sala, non piena ma neanche deserta come sarebbe capitato a qualsiasi altro scrittore non coinvolto in una situazione come la sua, si svuotò rapidamente, ad eccezione di un ragazzo mollemente sdraiato in quarta fila e che aveva attirato sguardi di disapprovazione da molti invitati; addormentandosi nel bel mezzo della conferenza stampa, aveva costretto una quantità di persone a fare il giro della sala per poter occupare i posti della sua fila. Per giunta, il suo completo elegante, esagerato per il tenore dell’evento, cozzava terribilmente con l’impermeabile scuro che aveva tenuto addosso e che era a dir poco ridicolo, se si considerava la temperatura tropicale cui era soggetta Firenze da almeno tre giorni.

«Siamo in ritardo» gli disse Viola, chinandosi e mordicchiandogli il lobo di un orecchio. «L’ispettore ci ucciderà, se non ti svegli.»

«Non sto mica dormendo» ribatté Federico, il collega che in teoria avrebbe dovuto completare il suo orario part-time in polizia, ma che, a causa della creazione della task-force chiamata a indagare sul caso Pazzolivo di cui entrambi facevano parte, condivideva con lui gli stessi turni; avevano scoperto di possedere una certa affinità da quando Federico, da perfetto gentleman, si era occupato di lei per un piccolo problema al primo incarico di Viola sul campo per un omicidio, così erano usciti a cena insieme alcune volte e avevano condiviso il letto in due occasioni. «Riposavo gli occhi.»

Viola emise un breve verso di incredulità e si avviò verso l’uscita, calcando bene i suoi passi perché facessero quanto più rumore possibile nel salone deserto. Federico si affrettò a raggiungerla, trafelato, soltanto per imbattersi nel loro capo: se si era preso il disturbo di venire fin lì, era chiaro che bolliva qualcosa di grosso in pentola.

«Ispettore, mancano ancora venti minuti alla fine del permes-»

«Revocato. Abbiamo una pista.»

Viola e Federico si guardarono in volto e annuirono meccanicamente nello stesso istante. «Possiamo almeno prendere un tramezzino, prima che-»

«Mangerete in centrale.» Infilò la mano nella giacca per rispondere al cellulare, ma lo ripose quasi subito, visto che chiunque l’avesse chiamato aveva chiuso la telefonata subito dopo. «Stronzi di merda.»

«Ispettore... le è caduto un kleenex» disse Federico timidamente. Gilardino guardò ai suoi piedi, perplesso: c’era un foglietto di carta, non un fazzolettino. Solo un indirizzo scarabocchiato con una grafia tremula, come se il messaggio fosse stato scritto con la mano sbagliata - probabilmente era così, si disse Alberto. Nessuna firma, nessun altro segno rilevatore, solo un civico nella parte vecchia di Fiesole, nello stesso quartiere in cui aveva conosciuto Stevan. Rabbrividì.

«... Alberto» disse Viola, appoggiando una mano sul suo braccio e violando una mezza dozzina di formalità (Federico aveva assunto un’espressione a metà tra il divertito e lo scandalizzato e in pratica era contemporaneamente bianco, rosso e verde in viso). «Lei non sta bene. Ha bisogno di un medico.»

«Non ho bisogno di un cazzo di niente. Ho bisogno di Stevan» disse con voce quasi sepolcrale, prima che potesse trattenersi. Irritato, si avviò verso la macchina e mise in moto prima ancora che Viola e Federico potessero entrare nella loro.

*

«È da Ljajic.»

Giampaolo gli lanciò il pacchettino elegante della Bregoli con un’occhiata interrogativa, assimilando l’informazione con una fitta di nervosismo. «Ne sei sicuro?» chiese, notando come Riccardo non alzasse lo sguardo verso di lui e continuasse a leggere le prime pagine di un altro dei libri di Vanessa Melody Roberts, lo pseudonimo sotto cui si celava il nome di Viola Rossetti.

«Aha. Gli ho consegnato una finta raccomandata prima di filare al commissariato, sono riuscito a intravederlo per un istante. È più smagrito che nelle foto e ha una fasciatura molto voluminosa al ginocchio, ma è lui.»

«Imprudente, tu e loro... la vecchia casa in cui puttaneggiavano, ma io dico. Sarà il secondo posto dove Mutu e Vučinić lo cercheranno. Sarà spacciato anche se può mettersi a correre, se resta lì.»

«Ljajic non vive più nello stesso appartamento dell’anno scorso. È tre traverse più in là.»

«Questo ci fa guadagnare un po’ di tempo. Il ragazzetto ha un minimo di intelligenza, dopotutto.» Inspirò, gettandosi a peso morto sul letto accanto a lui. «Dobbiamo-»

«Noi non dobbiamo fare niente, Giampi.» Finalmente, Riccardo alzò gli occhi: vi si intravedeva una determinazione glaciale che lasciò interdetto Giampaolo, almeno per un momento. «Possiamo finirla qua. Gilardino sa abbastanza e gli ho fatto sapere dov’è Stevan. Ce ne tiriamo fuori.»

«Non lo stai dicendo sul serio.»

«C’è Vučinić. Finora c’è sempre andata bene, Giampi, ma quello è un demonio. Non arrivi a controllare il mercato della prostituzione in sette paesi se sei uno sprovveduto. E Adi... non va bene. Adi non sa che giochiamo anche noi a questo gioco, ma se solo sospetta della nostra presenza è finita. Lui sa cosa e in che modo pensiamo, in ogni momento. Gioca al nostro livello.»

Giampaolo si lasciò sfuggire un sospiro. «Non hai aperto il mio regalo.»

«Sarà qualche camicia sottilissima di un colore pastello improbabile.» Riccardo strappò meccanicamente la spessa carta da regalo, sorridendo nel tirare fuori l’indumento. «Dai, poteva andar peggio. È un bel colore, questo.» Lasciò che Giampaolo gli sfilasse la maglietta e giocasse con lui come una bambina con la sua bambola, senza però permettergli di allacciare i bottoni della camicia. «Non l’hai rubata, ed è anche della taglia giusta. Stiamo facendo progressi.»

«Stronzo.» Giampaolo gli passò un braccio intorno ai fianchi, al di sotto del tessuto leggerissimo, e lo baciò con trasporto. Ripeté, tentando di riprendere fiato, «Non lo stai dicendo sul serio.»

«No. Gilardino non potrebbe comunque farcela da solo, però si porterà sicuramente la squadra... Ma ho paura» bisbigliò, tremando un poco, «perché non stiamo più mettendo a rischio solo noi. Ci sono anche altri. E poi stavolta non c’è neppure un tornaconto.»

«C’è sempre un tornaconto» lo corresse Giampaolo, sbottonandogli i pantaloni senza che Riccardo opponesse resistenza. «Adi l’abbiamo sbattuto in galera una volta, quando ci ha tradito, e possiamo farlo di nuovo.»

«E possiamo battere Vučinić se restiamo uniti. Questo lo so, Giampi. Ma ho paura lo stesso.»

«Lo so. Va bene così» lo rassicurò, baciandolo nuovamente e continuando ad accarezzarlo; si distrasse solo quando il cellulare vibrò lievemente tra le loro gambe intrecciate e dovette armeggiare per recuperarlo dai pantaloni abbassati per metà. «Merda.»

«Cosa?» Riccardo spalancò all’istante gli occhi tenuti semichiusi fino a quel momento, già riscosso dalla trance dell’attrazione.

«Miha. Adi è già a Firenze, ha preso un grappino al suo bar.» Scattò in piedi, tirandosi su i pantaloni e sistemandosi la maglietta. «Dobbiamo solo ringraziare tutti i santi se è andato giusto nell’unico bar dove abbiamo il basista. Quella è mia, comunque... non tieni la camicia?» disse ironicamente, vedendo Riccardo prendere una maglia scura dal cumulo della biancheria pulita.

«Risponditi da solo» lo rimbeccò, mettendo un caricatore nuovo nella pistola e controllando che la sicura fosse inserita. Non c’era più traccia di paura, ma Giampaolo sapeva che era solo stata seppellita in profondità almeno fino a sera.

*

Alberto sentiva di dovere un chiarimento almeno alla sua squadra, se non altro per motivare uno spiegamento di forze sproporzionato rispetto a un caso mortalmente semplice per il Quarto Oltrarno, senza disturbare il commissario Prandelli dai suoi tre giorni di ferie in riva all’Arno. S. Jovetić. Immigrato regolare, balcanico, capelli lunghi, occhi scuri, corporatura media; titolare di annunci su alcuni siti per escort e accompagnatori, presumibilmente nel giro della prostituzione organizzata, scomparso. L’ultima volta che è stato visto indossava un dolcevita nero, pantaloni bianchi in poliestere di una tuta sportiva, scarpe da ginnastica. Denuncia proveniente dal suo coinquilino, anche lui in regola, non implicato in reati; è a conoscenza dell’attività dello scomparso ma nega di aver visto protettori o simili in sua compagnia. Richiesta di archiviazione in assenza di indizi di reato: lo scomparso può essere tornato in Montenegro, o comunque partito, oppure pretende di non essere trovato. Mancanza di risorse per l’estensione della ricerca intensiva al di fuori della Toscana. Fax con dettagli e fotografie spedito alle altre Questure. Caso archiviato.

La storia che conosceva Alberto era diversa: “S. Jovetić” era semplicemente Stevan, era un concentrato di paura, affetto ed emozione che gli stringeva la gola ogni volta che lo nominava o anche soltanto pensava a lui, era una maledizione entrata sottopelle e al contempo una benedizione sussurrata direttamente alla sua anima.

Stevan era stato l’unico - se si escludeva sua moglie, in determinati momenti, e sua figlia, sempre - che era stato capace di farlo sorridere.

«Tutto tranquillo, ispettore.» Lorenzo e Dario tenevano le pistole in pugno e sorvegliavano i due accessi della strada che avevano presidiato, pronti a reagire ad eventuali movimenti sospetti di persone di cui avevano ottenuto un vago identikit e foto risalenti ad almeno dieci anni prima. Federico guardava le spalle ad Alberto, mentre Viola aveva il compito di stazionare in fondo alla strada.

Alberto tenne il dito premuto sul campanello fino a quando non si aprì uno spiraglio piccolissimo nella porta: un ragazzo biondo, con gli occhi chiari e spalancati per la paura.

«Adem, sono io. Sono Alberto» disse, bisbigliando senza sapere il perché. Adem esitò. «Forse so che sta succedendo. Posso aiutarvi. Ti prego, ho bisogno di vederlo.»

La porta si richiuse di colpo. Alberto appoggiò la mano sul bordo, in silenzio, e attese, trattenendo anche il respiro. Poi, uno sferragliare sordo preannunciò la sua riapertura.

Stevan non stava bene: aveva strappato una gamba dei suoi jeans per fasciare il ginocchio e imbottire la medicazione con qualcosa, e in generale appariva meno curato e più sofferente di quanto non lo fosse mai stato. Ma era di fronte a lui, distante quei tre passi che colmò rapidamente, strascicando la gamba ferita sul pavimento, e stringendolo in un abbraccio che dimostrava ancora parte della sua forza. Lasciò andare un singhiozzo.

«Non sapevo come fare per contattarti. Mi hanno inseguito ovunque, avevo paura che...» Stevan scoppiò a piangere. Alberto lo strinse a sua volta.

*

Mirko Vučinić infilò il passamontagna, pronto all’azione: era irritato dal fatto che Stevan sembrava infinitamente meglio curato di quanto un ragazzino cui aveva preso a calci il ginocchio fino a romperglielo avrebbe dovuto essere, era ben vestito e non sembrava avesse sofferto chissà quali privazioni viaggiando da clandestino per quattro paesi. Imprecò nella sua lingua, maledicendosi per la sua stupidità e soprattutto per la sua avidità: avrebbe dovuto ucciderlo, come aveva fatto per tutte le puttane traditrici che si erano ribellate prima di lui, e invece aveva preferito una vendetta meno cruenta e più appagante. O almeno così gli aveva lasciato credere.

Già fantasticava sulla sua morte. Gli avrebbe tirato quella cascata di capelli fino a strapparglieli dalla testa, l’avrebbe seviziato con tutta la crudeltà di cui era capace, e poi l’avrebbe ammazzato nel modo più lento e doloroso possibile per essersi preso gioco di lui e aver osato prenderlo a ginocchiate nei coglioni.

«Non dovresti avergli spezzato il ginocchio? Quello cammina meglio di me e te.» L’uomo massiccio alle sue spalle aveva già indossato il passamontagna a sua volta e stava controllando il caricatore. Nove colpi. Li avrebbe sparati tutti prima di dileguarsi.

«Forse è riuscito a farsi medicare da qualcuno.» Tolse la sicura alla mitraglietta. «Andiamo.»

Nessuno dei due si avvide degli occhi verdi che lampeggiavano al di là della finestra nella casupola in cui era appena rientrato il loro obiettivo.

*

Che fossero maschi, femmine o gradazioni intermedie, in chi si prostituiva Alberto vedeva sempre qualcosa di sbagliato: per come vedeva lui il mondo, non riteneva concepibile che si potesse arrivare a vendere se stessi, concedersi a persone sconosciute, esporsi ai rischi correlati a un’attività simile. Aveva provato a ripulire le strade una, due, dieci volte, arrestando centinaia di ragazze, decine di transessuali, qualche ragazzo che ancora si faceva passare per tale, e tentando con tutti perché lasciassero perdere, cambiassero qualcosa nella loro vita... e una, due, dieci volte, quelle strade tornavano a riempirsi, e i soldi a passare dalle mani dei clienti a quelle dei dipendenti e, inevitabilmente, a quelle di coloro che li controllavano e li dominavano.

In Stevan, tanto per cominciare, era sbagliata l’età: qualcosa più di vent’anni e molto meno di trenta sono pochi per qualsiasi cosa non sia studiare sui libri o fare qualche lavoro semplice, non certo lasciarsi palpare dal primo che passa. Ed era sbagliato il suo abbigliamento, perché tra tanti che si esponevano il più possibile agli sguardi dei passanti lui rimaneva troppo vestito perché qualcuno buttasse l’occhio su di lui. Ed era sbagliato che fosse lui ad avvicinare Alberto, fermo nella sua automobile dall’altra parte della strada.

«Non so se volevi me, eri troppo lontano, non vedevo bene» disse, parlando nell’italiano stentato che conosceva e in cui si sentiva forte l’accento slavo; gli scoccò un sorrisetto. «Sei carino. Se mi dici chi è che volevi, ti faccio avere lo sconto.»

«Sono un poliziotto» ribatté con durezza Alberto, sperando di chiudere la questione con questo.

«Uuuh.» Stevan fischiò, poi sorrise di nuovo. «Sei venuto a cercare un brivido o ad arrestarmi?»

«Ce li hai diciott’anni, almeno?»

«Non me lo ricordo neanche più, quando li ho fatti.»

«Non è una risposta.»

Stevan sospirò, fece il giro della macchina ed entrò dal lato del passeggero senza permesso, sporgendosi un po’ dalla sua parte. «Ce li ho, diciott’anni. Ma se ti faccio vedere un documento tu dirai che non è buono, mi arresterai e mi porterai per farmi cacciare.»

«Nessuno ti ha detto di salire in macchina.» Alberto sgranò gli occhi, ritrovandosi le labbra di Stevan a contatto con le proprie e, prima che riuscisse anche solo a rendersene conto, una delle sue mani sottili al di sotto della giacca, saggiando la pelle coperta dalla camicia. Quando Stevan si staccò da lui, realizzò - a giudicare dal sapore sulla sua lingua - che a quel bacio aveva perfino risposto.

«Ora dirai che non mi avevi dato il permesso di baciarti?»

Alberto sorrise. I muscoli della faccia tiravano mentre lo faceva, ricordandogli da quanto non lo faceva neppure con sua figlia, e che non l’aveva mai fatto negli ultimi mesi del suo matrimonio. «Tutta la notte.»

Stevan gli scoccò un’occhiata scettica, risistemandosi con calma sul sediolino. «E ce li hai i soldi?»

«Sì che ce li ho, ma se te li faccio vedere dirai che non sono buoni, te ne andrai e non mi bacerai mai più.»

Stevan scoppiò a ridere e prese a stiracchiarsi come un gatto, godendosi il riscaldamento dell’automobile; tirò fuori il cellulare e compose in fretta un messaggio.

«Avvisi il tuo capo che vai via?»

«Avviso il mio migliore amico che sto via.» C’era una punta di gelo nella sua voce. «Non sono come le altre puttane.»

«No?»

«Le puttane non baciano sulla bocca.» Si girò verso di lui, senza più sorridere. «E le puttane non scelgono.» Smise di battere i tasti, esitando su quello di Invio. «Se vuoi davvero stare tutta la notte con me, mi devi lasciare un acconto.»

Alberto rifletté a lungo sulle sue parole, tamburellando le dita sul volante, poi si sporse verso di lui e lo baciò: Stevan gli prese il volto tra le mani mentre lo faceva, mettendoci qualcosa che poteva essere arte, ma che sembrava terribilmente passione.

«Questo è l’acconto per una settimana» esalò Alberto, improvvisamente senza fiato.

«A una sola condizione.» Sorrise a una distanza piccolissima da lui, aspettando che rispondesse con un identico ghigno. «Devi tirar fuori le manette.»

*

Giampaolo abbatté con forza il calcio della pistola sulla nuca dell’uomo mascherato, stendendolo all’istante prima che riuscisse a capire chi l’aveva colpito. Immediatamente, Adrian si voltò verso il compagno caduto, esplodendo due colpi nel buio, ma una ginocchiata nella schiena e un colpo secco alla mano lo costrinsero a cadere bocconi e a lasciar cadere la pistola, che rotolò pochi istanti dopo fuori portata.

Mentre Giampaolo conficcava una siringa nel braccio di Adrian e lo teneva fermo da dietro, i suoi muscoli già parzialmente rilasciati, Stevan faceva lo stesso con Mirko, svenuto, e lo immobilizzava con strisce di stoffa e solidi nodi. Poi si voltò verso il romeno, che riuscì a riscuotersi per un istante dalla semincoscienza che già lo stava reclamando: quello di fronte a lui non era Stevan. Occhi azzurri, lineamenti delicati e lontani da quelli balcanici, una determinazione impossibile.

E una parrucca di riccioli scuri che l’aveva tratto in inganno.

«Montolivo» gemette, chiudendo gli occhi. Giampaolo gli legò mani e piedi con il cavo del telefono.

*

«D’accordo. Grazie.» Alberto posò il cellulare sul tavolino e distese la schiena contro il divano. «È arrivata una denuncia anonima. Dario e Viola hanno arrestato Vučinić e Mutu nella tua vecchia casa, saranno trasferiti in Emilia già domani mattina.»

Stevan annuì, torcendosi le mani in grembo. Un urlo esultante e una bestemmia irripetibile li fece voltare entrambi - Lorenzo aveva battuto Federico alla console all’ultimo minuto, prendendo poi a gloriarsi della sua innata abilità.

«Siete due bambini» li rimproverò Alberto con freddezza, «è così che avete intenzione di fare da scorta?»

«E tu, capo?» rispose Lorenzo, sorridendogli sfrontatamente: non aveva capito tutto, ma abbastanza per mettere a posto una buona parte dei tasselli del puzzle. Semplicemente, riusciva a vedere cosa c’era nello sguardo di Alberto, più limpido e meno tormentato di qualche giorno prima: e vedeva la stanchezza sul suo volto, difficile da far scivolare via con qualche ora di sonno, accampati in sette in una casa da trenta metri quadrati e costretti a fare i turni di guardia in attesa del mattino e della possibilità di trasferire Adem e Stevan in due appartamenti contigui e sicuri in dotazione alla polizia; Alberto non era sicuro che Prandelli gli avrebbe concesso di mantenere la scorta, ma sperava che l’arresto di due criminali schedati in molti paesi e la risoluzione di un caso d’archivio giocassero a suo favore.

«Io, in quanto capo, so cosa fare.»

«Non ne dubito.» Lorenzo sorrise ancora, poi chinò il capo una sola volta, in un lungo cenno di assenso, e imboccò la porta che portava fuori dal soggiorno. «Farò la guardia in portineria. Fede, non vieni?»

Federico si imbronciò, guardando la console con un certo desiderio, ma lo seguì dopo che Alberto gli rivolse un’occhiata categorica di cui non seppe definire la natura. Quando la serratura della porta d’ingresso scattò, lasciandoli da soli, scivolò nel sonno senza neppure rendersene conto, percependo a malapena i gesti di Stevan che gli sfilavano le scarpe e gli allentavano la cravatta e sentendo il suono del cellulare che gli segnalava un nuovo messaggio come se fosse a grande distanza da lui.

*

“A presto” recitava semplicemente.

L’inchino d’omaggio prima di iniziare un nuovo duello.

FINE

A/N: La citazione del libro, stavolta, è per una storia che non posso indicare. La Rouge sa.

fic » fandom » sportivi » calcio, fic » people » alberto gilardino, fic » people » dario dainelli, fic » people » adem ljajic, fan » el_defe, fic » people » siniša mihajlović, fic » people » federico carraro, fic » people » riccardo montolivo, fic » people » mirko vučinić, fic » people » adrian mutu, fic, fic » people » lorenzo de silvestri, fic » people » stevan jovetić, fic » people » giampaolo pazzini

Previous post Next post
Up