Fic: As crazy as it may seem

Feb 02, 2011 22:56

Titolo: As crazy as it may seem
Fandom: RPF Romanzo Criminale
Autrice: Tabata
Pre-lettrice e Beta colpevole: lisachanoando (No, davvero, mi minaccia se non scrivo queste cose. AIUTO!).
Rating: PG 13
Personaggi:  Marco Bocci, Freddo (sì, è giusto)
Pairing: Freddo/Libanese
Genere: comico, surreale.
Avvisi: slash, spoiler di tutta la S1
Disclaimer: Quello che si racconta in questa storia non è la verità e non ha la pretesa di esserlo (anche perché, seriamente, se ciò fosse accaduto sarebbe preoccupante). Non ho nulla a che vedere con Marco Bocci, nè ricavo denaro da queste pagine. E' tutto finto, non è davvero lui, l'ominimia regna sovrana. Bugie come se piovesse e fangirling sfrenato.
Note: Io ero convinta di aver già postato questa storia e invece pare che io non lo abbia fatto. Non è da nessuna parte, quindi devo essermelo inventato o, come dice Liz, devo averla postata nel LJ che esiste solo nella mia testa. C'è stato un tempo - più o meno quando ho finito di vedere la serie televisiva e ho scoperto di amarla - in cui avevo giurato che avrei tenuto questo fandom lontano dalla follia in cui di solito trascino tutte le cose che mi piacciono; tanti saluti al giuramento, come potrete vedere.
L'idea per questa storia nasce da una discussione su Skype in cui io e Liz ci chiedevamo se il Freddo si facesse delle domande riguardo al Libanese, visti gli sguardi totalmente languidi che i due si lanciano in maniera vergognosa per tutta la prima serie. E, siccome in un'intervista Bocci ha detto che per calarsi nel personaggio ha seguito passo passo le indagini di Scialoja come fossero le sue (o un'altra pazzia del genere), è venuto naturale immaginare il Freddo che chiede a Bocci di fare uno schema dei suoi, con le frecce, i pezzi di scotch e tutto quanto il resto. *colpo di tosse imbarazzato* Sì, mi rendo conto che questa cosa è folle e sì mi rendo conto che sono OMG 6 pagine WTF?
Riassunto: “Marco Bocci tratta i personaggi come se fossero persone reali. Il Freddo tratta lui come se fosse uno dei personaggi. E, per quanto folle, la cosa funziona."

AS CRAZY AS IT MAY SEEM

Marco Bocci è uno a cui piace informarsi prima di decidere come interpretare un ruolo. Chi lo conosce e ha lavorato con lui pensa che sia pazzo, ma lui è soltanto un attore che ha bisogno di conoscere il proprio personaggio come fosse una persona realmente esistente, un suo amico quasi, prima di potersi sentire in grado di interpretarlo. Se prendesse le cose alla leggera, dando uno sguardo al copione e facendosi un'idea approssimativa della persona descritta, magari tratteggiandola secondo le caratteristiche più superficiali, non si sentirebbe in pace con se stesso. Sarebbe come giudicare qualcuno alla prima occhiata, e non va bene. Cerca sempre di spiegarlo agli altri ma nessuno capisce; forse perché tutti al giorno d'oggi sono pronti a liquidarti alla prima occhiata. Lui no, però. A lui non piace.
Quando incontra una persona e le stringe la mano, evita sempre di definirla secondo le prime etichette che gli vengono in mente. Non ha mai dato della ficcanaso alla signora che vive nell'appartamento accanto al suo solo perché cerca sempre di vedere come è sistemato il suo salotto. E non ha mai pensato che la ragazza del terzo piano fosse una zoccola solo perché si veste in una maniera tale che quando devono prendere insieme l'ascensore gli viene da arrossire come un ragazzino.
Lo sa che la gente non è mai come appare; né è fin troppo consapevole. Quando guardano lui, pensano sempre tutti di avere davanti un sempliciotto, forse anche leggermente fuori fase, di quelli che non sanno mai bene dove si trovano, ma non è assolutamente così. Lui ha solo un suo modo personale di vedere le cose. E' vero che si ritrova spesso a fissare il vuoto perso nel suo mondo, e a volte apre bocca per dare fiato ad un discorso che nella sua testa va avanti da ore ma di cui nessuno ha la minima idea, ma questo non vuol dire che sia pazzo. Solo che bisogna scavare a fondo, conoscerlo bene, prima di capirlo.
Ed è esattamente quello che lui fa con i personaggi che gli affidano. Prima legge il copione, e poi lo rilegge di nuovo e quando alla terza volta ha già imparato quasi per intero tutte le battute, cerca di capire perché sono proprio quelle frasi lì e non altre, e che cosa direbbe o non direbbe quel personaggio in una determinata situazione.
Per lui è sempre stata la procedura più sensata da seguire e gli è sempre sembrato normale percepire i personaggi con cui lavorava come reali.
In questo preciso momento, però, non ne è più tanto sicuro. La situazione è relativamente preoccupante già da qualche settimana ma precipita la mattina che si sveglia e trova il Freddo in salotto. Uscire dalla propria camera da letto in calzoni del pigiama e trovarsi in casa Vinicio Marchioni con gli abiti di scena sarebbe stato già abbastanza strano, ma tutto sommato accettabile. In fondo lui e Vinicio sono amici, quindi non è così fuori dal mondo che venga a trovarlo, anche se magari potrebbe bussare, invece che infilarsi in casa sua entrando dalle finestre; ma qui si sta parlando del Freddo, al secolo Fabrizio Soleri, che solo per caso ha il viso del Marchioni, e questo sì che è folle.
Ma forse è ancora più folle che Marco si accorga immediatamente della differenza e che non pensi nemmeno per un attimo di avere di fronte l'amico; d'altronde ai suoi occhi è piuttosto chiaro, Vinicio non ha mai sul viso quell'espressione strafottente e disinteressata e poi, se non sta recitando, balbetta, cosa che quest'uomo - qualunque cosa lui sia - non fa. E quando lo guarda ha la strana sensazione di leggere cose terrificanti nei suoi occhi, esattamente quello che c'è scritto sul copione.
E' convinto che questa sua certezza sia da imputare al fatto che ha una certa dimestichezza con i personaggi ed è abituato a visualizzarli, sa distinguere cosa rende diversa la loro immagine da quella dell'attore che li interpreta, ha fatto pratica con se stesso.
Quando ha conosciuto Scialoja tra le pagine del copione e ha capito che tipo era - non poi tanto diverso da lui, forse solo più testardo e più coraggioso ma come lui sognatore e sempre ostinato dietro alle cause perse - ci sono volute solo due settimane perché capisse quando era lui a guardarsi allo specchio e quando invece era Nicola. Vivono insieme da così tanto tempo ormai che potrebbe rispondere per lui a qualunque domanda e sapere con assoluta certezza di dire proprio la cosa giusta.
Il Freddo alza la testa non appena lo sente arrivare e smette di giocare con i suoi soprammobili di legno. Ne posa uno al suo posto sulla libreria con aria poco convinta, prima di dedicargli la sua più completa attenzione. “Te sei svegliato finalmente,” esclama facendo qualche passo avanti e fermandosi sui due scalini che dividono a metà il suo salotto. “Ve trattate bene in polizia. Il problema nun è il crimine che è organizzato, siete voi che nun lo siete, si ve svegliate a le undici.”
Marco è ancora così sconvolto che nemmeno risponde. Lo fissa ad occhi sgranati e si sente enormemente stupido a starsene lì in pigiama senza spiccicare una parola.
Il Freddo solleva un sopracciglio e lo guarda forse chiedendosi se sia il caso o meno di sentirsi preso per i fondelli. “Commissa' me riconosce?” Dice. “Sembra che ha visto n'fantasma. Si vole po' bere er caffè. Preferisco. Me serve lucido pe' e prossime ore.”
Bocci non sa come affrontare questa situazione per il semplice fatto che se ne prende davvero coscienza e accetta la presenza di questo personaggio nel suo salotto, poi dovrà trovarvi una giustificazione e nessuna di quelle plausibili è lusinghiera nei suoi confronti. Non è come tutte le altre volte, non sente la propria fantasia che mette in moto tutti i personaggi che vede. Sa per certo che non è lui ad immaginarsi il Freddo che prende posto sulla sua poltrona bianca e viene attirato dai fiori finti che sua madre gli ha regalato la settimana scorsa e che lui, nella foga di metterli da qualche parte, ha infilato in un vasetto che nemmeno li contiene tutti per bene. Il Freddo sembra sconcertato dal modo in cui pendono flosci fin quasi a sfiorare il tavolino; e lo fa da solo, Bocci non ha nulla a che vedere con quell'espressione basita e totalmente disinteressata insieme. “Sì, certo che ti riconosco Soleri,” risponde, cercando di infilare le mani in tasche che i pantaloni del suo pigiama non hanno. Finisce che incrocia le braccia al petto e cerca di darsi un tono. Pensa che se non può ignorare l'allucinazione, allora è meglio assecondarla.
Nel sentire il proprio nome Freddo lo guarda con sufficienza, con l'espressione che Marchioni ha deciso di usare ogni volta che il suo personaggio finisce in galera. Marco immagina che se davvero sta osservando una qualche proiezione che c'è nella sua testa, quella non potrebbe che avere la faccia dell'unico uomo di sua conoscenza che gliene abbia data una. Nella sceneggiatura, il cognome è il modo in cui Freddo misura la distanza che lo separa dagli altri. Lo chiamano così gli agenti di polizia e tutti quelli che non ne sanno abbastanza di lui per conoscerlo o per avere paura; è un nome senza forza, che lo spoglia di tutti i suoi meriti e lo rispedisce dritto al suo passato dove non vuole stare, per questo non gli piace e invece Scialoja lo ama tanto. Soleri. Proietti. De Angelis. A volte i nomi sono le uniche armi che ha, Bocci lo ha capito quando si è accorto di quante volte deve ripeterli scena dopo scena, mentre la frustrazione di Nicola - ma anche la sua - si fa sempre più insopportabile.
“E nun me chiede perché so' venuto fino a qui?” Domanda il Freddo.
Bocci si mette a fare il caffé perché non può stare tutto il tempo con le braccia incrociate senza sentirsi molto stupido, e poi perché ne ha bisogno. Una piccola parte di lui spera anche che, bevendo, l'allucinazione sparisca lasciandolo libero di continuare con la propria vita senza consultare uno psicologo. “Non lo so, magari ti sei finalmente pentito e sei venuto a confessare,” ipotizza, aprendo la moka che ieri deve aver chiuso con la colla a caldo perché non si apre nemmeno quando la batte contro il lavandino. Fortunatamente, quando si gira a vedere se il suo sgradito ospite sta osservando quello spettacolo pietoso, scopre che si è di nuovo alzato e ora controlla le costole delle sue collezioni di gialli sullo scaffale come se ne fosse sinceramente interessato.
“No, so' venuto perché me serve un favore,” dice alla fine, voltandosi con in mano un'Agatha Christie così usato che gli si apre in mano quasi a metà. Lui però non se ne accorge perché sta guardando Marco e con una sola occhiata riesce a promettergli la sedia a rotelle.
Bocci riempie la caffettiera d'acqua e ci rovescia dentro il caffé mentre si chiede se un'allucinazione può uccidere. In realtà, magari si trova di fronte allo specchio e l'espressione truce del Freddo è in realtà la propria espressione truce. Se il Freddo dovesse ucciderlo, forse in realtà si ucciderebbe da solo. “E perché lo vieni a chiedere a me? Fatti aiutare dai tuoi amici,” dice, quando le domande diventano troppe per trovare loro una risposta senza aver prima ingerito della caffeina, tanta da giustificare il proprio omicidio-suicidio, per altro.
“E' 'na cosa delicata,” risponde il Freddo, posando il libro e tornando ad aggirarsi per il salotto senza meta. Marco lo trova molto snervante, ma immagina che sia un po' quello il punto. Quando ti muovi senza sosta come uno squalo nel salotto di un uomo da cui pretendi qualcosa, gli metti ansia e lui è più propenso a darti quello che vuoi purché tu la smetta di agitarlo in quel modo. “Me serviva quarcuno con un minimo de tatto, che ce capisse quarcosa e che fosse capace a ragiona'.”
“Quale onore,” commenta ironico Bocci, controllando la caffettiera che evidentemente se l'è presa comoda e non sta nemmeno facendo quel gorgoglio sinistro che in genere annuncia la salita del caffé.
“Nun è che te c'azzecchi granché con l'argomento però ho visto gli schemi nel tuo ufficio e quelli me fanno comodo.”
Bocci a quel punto s'incuriosisce, più che altro perché, non essendo lui schizofrenico, le uniche allucinazioni di cui ha avuto esperienza erano fatte di unicorni rosa su nuvole di marzapane ed elefanti che ballavano la samba reggendo nelle zampe minuscoli ombrellini da cocktail; non gli era mai capitato che si presentassero a casa sua per chiedergli un favore. “E di che cosa si tratterebbe, esattamente?”
“De sesso, credo,” il Freddo non sembra convinto, glielo dice come quando chiedi l'ora ad un passante e quello ti risponde ad occhio prima di guardare effettivamente l'ora.
“Di sesso?”
Il Freddo annuisce. “Ce lo so che nun sei pratico, nun te preoccupa',” lo tranquillizza il Freddo. “A teoria ce la metto io. Te devi fa' le frecce.”
“A parte che non so cosa ti faccia pensare che io non sia pratico...”
“E cosa m'o fa pensare? Patriza, la mignotta der Dandi,” commenta impietoso il Freddo, senza dargli modo di finire la frase e fornendogli subito una spiegazione. “Je ronzi intorno da 'na vita e nun sai manco da che parte se pija. Guarda che se po' tocca'. E' der Dandi solo quanno la paga.”
Bocci ha una questione in sospeso con il personaggio di Patrizia. Non è difficile capire perché Scialoja sia attratto da lei quando ha le fattezze di Daniela, lo è un po' di più accettare di dover interpretare un uomo che continua a rendersi ridicolo per una donna che lo tiene letteralmente per le palle fin dalla prima scena. Per questo l'argomento lo indispone. “Questi non sono affari tuoi, Soleri.”
Il Freddo fa un mezzo sorriso strafottente. “Nun te scalda' era solo pe' rompe er ghiaccio,” dice con calma.
Bocci si versa prima il caffé - una tazzina sola, perché non vuole vederlo bere, ma quello viene e si serve da solo, mandando all'aria gli ultimi venti minuti di supposizioni sulle allucinazioni. Quello è reale ed è lì per davvero. Oppure sta bevendo da solo tanto di quel che caffé che sarà un'ulcera perforante a riportarlo alla dura realtà della sua esistenza - poi sospira e si rassegna a starlo a sentire. “Che frecce vuoi da me?”
“Sono un po' de ggiorni che me chiedo cose sur Libbanese,” comincia il Freddo, allentando un po' i toni e facendosi pensieroso. “Me serve 'no schema che riassuma, capisci? Prendi un po' quel quadro e giralo, famo 'na cosa fatta bene.”
Marco obbedisce e volta al contrario il quadro ad olio che tiene sopra il caminetto. “E ora? Cos'è che ti chiedi su Proietti?”
Il Freddo esita solo un istante. “Tra me e er Libano c'è 'na tensione d'un certo tipo, nun so se me sto a spiega'.”
Bocci si gratta il mento e annuisce. “Divergenze d'opinione. Non siete d'accordo sul modo in cui gestire la banda e questo vi porta frequentemente a scontrarvi.”
L'altro sospira e lo guarda con disappunto. “Allora ce lo vedi che nun me stai a segui'? Che cazzo annuisci se poi n'hai capito? Sto a parla' de n'arta tensione, de quella che se passamo certi momenti che manca tanto così che se baciamo. Me segui, mo'?”
Marco non lo segue e nemmeno vuole seguirlo in un futuro lontano in cui qualunque cosa stia avvenendo in questo momento gli verrà spiegata di nuovo e lui la capirà. Lui ha letto i copioni moltissime volte ed è a conoscenza del legame profondo che unisce i due capi della banda, ma si rifiuta di pensare che fra le pagine della sceneggiatura ci sia dell'omosessualità latente che ora si manifesta in casa sua nella persona del Freddo che vuole delucidazioni sull'oggetto dei suoi desideri. Si chiede che cosa voglia dire questo sugli sceneggiatori, ma soprattutto su di lui.
“E cosa vuoi che ti dica?” Esclama ad alta voce. “Se ti va, fallo. Magari mi torna comodo perché gli altri vi ammazzeranno a sprangate.”
“Nun è questo er punto, Scialoja,” replica lui. “Nun è che vojo o non o vojo fare. Vojo solo capi' come sarebbe, me so' fatto de le idee e tu mò me le metti in ordine. Poi io vedo. E comunque nun so' cazzi tuoi. Te pensa a Patrizia.”
Bocci sbuffa perché vuole già strangolarlo ma dubita di poterlo fare, e comunque aveva altri programmi che non comprendevano il passare la mattina in pigiama a discutere di omosessualità con un pazzo forse presente solo nella sua testa. “D'accordo, allora, da dove vuoi cominciare?” Chiede, stappando un pennarello nero e avvicinandosi alla lavagna improvvisata.
“Da la foto,” annuisce il Freddo, frugandosi nella tasca interna della giacca di pelle e tirandone fuori una del Libanese in bianco e nero. “Questa va proprio al centro.”
Bocci la fissa con una puntina e la guarda. “Sembra quella che c'è in commissariato.”
“E' quella,” annuisce il Freddo. “Ce so' passato prima. Ah, approposito, nun ce sta più gnente. Te stavi ad allarga', meglio che mantenemo i rapporti a la vecchia maniera: noi continuiamo a fa' le cose nostre e tu continui a non capicce un cazzo. Se scombini gli equilibri è 'n casino. Ce so delle regole, commissario.”
Bocci scuote la testa ad occhi chiusi, quindi li riapre e riprende in mano il pennarello. “Allora, immagino che vorrai stilare una serie di caratteristiche che descrivano il Libanese, magari possiamo dividere quelle positive da quelle negative.”
“Metti che vo' fa' come je pare,” ordina subito il Freddo, indicando un punto a destra della foto. “Segna qua. E' un rompicojoni.”
Bocci scrive prevaricatore in bella grafia. “Positivo o negativo?”
“Na via de mezzo. Lui nun po' decide pe' tutti, pero' me gira quanno ce penso e me immagino che prenna decisioni che m'ariguardano. Me segui stavolta? Parlo de sesso.”
“Ok andiamo avanti, i dettagli non voglio saperli,” replica subito Bocci, sbrigativo, guardando lo schema come se contenesse molte più informazioni invece che una foto e un aggettivo.
“Mettice ambizioso, questo è positivo,” ragiona il Freddo, accendendosi l'immancabile sigaretta. Il fumo acre invade la stanza e si attacca subito alla gola di Marco che tossisce e sventola la mano di fronte alla faccia mentre aggiunge aggettivi nella colonna di sinistra. “E testardo, è positivo anche questo.”
“Altro?”
“E' 'na testa calda, ma è bono. So' due, metti,” indica il freddo con l'indice, ma non guarda la lavagna, bensì un punto indefinito vicino alla porta, come se potesse vedersi il Libanese davanti. Bocci si chiede se un'allucinazione possa avere a sua volta un'allucinazione e si perde a pensare alla catena infinita di vaneggiamenti che questo potrebbe scatenare. “A quanto stamo?”
“Tre a uno per i lati positivi, più uno a metà,” riassume Bocci.
“O vedi? E' una brava persona, come noattri.”
Bocci solleva un sopracciglio per quella che dev'essere la prima volta in vita sua. La sua espressione naturalmente sofferente si colora di una sfumatura impietosita. “Cocainomane e omicida. Questi vogliamo metterceli, che dici?” Commenta sarcastico. “E in quale colonna?”
L'altro si volta molto lentamente verso di lui e allontana la sigaretta dalla bocca in modo che possa ben vedere la linea sottile delle sue labbra che si tende seriosa. Il Freddo non è contento. “Quelle so' cose che nun centrano gnente,” commenta con un tono che non ammette repliche. “Tu non poi capi'.”
“Certo, io non capisco mai,” borbotta Marco. “Ne riparliamo quando la storia sarà finita.”
Il Freddo aggrotta le sopracciglia, ma non commenta oltre. “Passamo ad altro.”
Marco guarda la lavagna che ha di fronte e non sa bene come altro procedere. “Che cosa vuoi elencare adesso?”
“Me stavo a chiede, no, secondo te che sapore c'ha er Libano?”
Marco è colto così di sorpresa che la saliva gli va di traverso e comincia a tossire così forte che il Freddo deve farsi avanti e battergli gentilmente sulla schiena, gesto che però peggiora soltanto la situazione. Finché si tratta di una tazzina, Bocci può sempre credere alle visioni, ma quello lo sta toccando e, per quanto sia snodato, dubita che riuscirebbe a farlo da solo. Questo significa che è davvero, indiscutibilmente lì. Una specie di poltergeist. “Te sei ripreso?”
“No che non mi sono ripreso, Soleri,” esclama piccato. “Cosa ne so del sapore del Libanese e cosa te ne frega a te? Ma soprattutto perché me lo chedi?”
“Nun t'agità. Non t'ho mica detto de prenne e andà a sentire de persona. Era 'na domanda. O vedi che nun se po' parla' co' te? Ce lo credo che al commissariato stai sur cazzo a tutti,” s'infila le mani in tasca e per qualche istante sembra ragionare. “O volevo chiede' alla squinzia, lì, Sara me pare se chiamasse, ma quella s'è fatta 'n buco 'n testa prima de damme tempo de fa quarcosa.”
“Accidenti, pensa se invece non lo faceva. Cos'avevi in mente di fare, invitarla fuori e chiederle se ti descriveva l'intera esperienza?”
Il Freddo non coglie l'ironia e si stringe nelle spalle. “E perché no? Lei ce lo sapeva in fondo. Per altro nun è che il Libbanese se circondi de donne a cui chiedere. Manco le mignotte gli aggradano.”
Marco si è risolto a mettere un puntino accanto ad ogni aggettivo che hanno segnato sulla lavagna per dare una parvenza d'ordine a quella follia. “E con questo cosa vorresti dire?” Chiede, vagamente divertito.
“Gnente. Solo che nun ce stanno troppe fonti pe' fasse n'idea. Me tocca anda' per ipotesi, si proprio nun vojo tasta' co' mano.”
“Che potrebbe essere una bella idea, così non dovresti venire qui a rompere le scatole al sottoscritto, che per altro dovrebbe essere impegnato a raccimolare prove per incastrare te, il tuo Romeo e tutta la vostra banda.”
Il Freddo fa schioccare le labbra. “Certo, er giorno che capita piovono mucche. Comunque segna qua,” indica un punto in alto a destra sulla lavagna. “Metti dolce e fai la freccia. Nun c'è motivo pe' pensallo amaro, no? Che sennò che me li faccio a fare i film ne la testa se devo pensa' che fa schifo?”
Marco vorrebbe replicare, ma quando sta per farlo si rende conto che il Freddo ha le sue ragioni. E poi non è compito suo fargli presente il rovescio della medaglia - che magari, che ne sa, il Libanese ha l'alito cattivo o non sa baciare o, per dire, lo ammazzerebbe a sprangate nelle gengive se solo provasse a mettergli le mani addosso - quindi si limita a scrivere quello che gli è stato detto e decide di lasciare che ogni cosa faccia il suo corso. Arriverà anche per il Freddo il tempo delle delusioni, e magari lui, o meglio il suo alterego Scialoja, sarà abbastanza fortunato da trovarsi nei paraggi e ricavarci qualcosa. Ad esempio che il Freddo, amareggiato, gli consegni il Libanese e la sua banda.
“Te sei perso di nuovo, commissario,” lo chiama Freddo, facendogli schioccare le dita di fronte alla faccia un paio di volte. “Me dai da pensa' certe volte, o sai? Già c'hai sti occhietti sempre tristi e poi ogni tanto se spengono, manco t'annasse via la luce ner cervello. Nun so che te passa pe' la testa ma dietro le pupille volano le falene.”
Bocci si risveglia dai suoi ragionamenti e, prima ancora di tornare a guardare il suo ospite, pensa che non aveva mai sentito il Freddo pronunciare frasi tanto lunghe. E' sicuro che nel copione non ce ne siano, quindi forse questo dipende dal fatto che il Freddo che ha davanti non deve parlare attraverso il difetto di pronuncia di Vinicio e può permettersi di straparlare per ore senza incepparsi.
Ad ogni modo, più ci ragiona sopra e più tempo perde, per cui è meglio se lascia perdere le proprie considerazioni personali sulla natura dell'apparizione. “Allora,” cerca di ritrovarsi, alzando la voce e gettandosi con entusiasmo nel progetto. Disegna una freccia tra la foto del Libanese e l'aggettivo dolce. “Se è dolce, quanto è dolce? Come? In che modo? Come una pesca, come la cioccolata?”
Il Freddo è perplesso da quel cambio di umore. “Pesca fa frocio, te che dici?” Chiede.
Marco inclina la testa e arriccia le labbra, non è che qua si stia a parlare di altre cose, ma evidentemente al Freddo sfugge che se gli piace il Libanese questo fa di lui una persona quantomeno in odore di omosessualità. “Un po' sì,” risponde.
“Allora famo cioccolata.”
Dopodiché Bocci comincia a capire per quale verso stia girando la testa del Freddo e, per quanto sia preoccupante che fondamentalmente giri a vuoto intorno al concetto che il Libanese detiene un qualche tipo di interesse sessuale ai suoi occhi, è più facile seguirlo nei suoi ragionamenti e cercare di approfondire il più possibile l'idea che si è fatto del capo della banda, anche se nessuna delle nozioni ipotetiche che trascrivono sulla lavagna potrà mai essere di un qualche aiuto a lui per sviluppare più approfonditamente il personaggio di Nicola Scialoja.
Bocci comincia a fargli domande su domande anche sulle sfumature di sapore, odore, tatto che il Freddo si è immaginato e riempie la lavagna di frecce diritte, ritorte e poi sempre più aggrovigliate, finché intorno ai riccioli del libanese non s'è formata una foresta fittissima di linee che portano in ogni direzione possibile e immaginabile. Marco ha rinunciato a capire se la cioccolata fosse al latte o bianca quando il Freddo, estenuato dal suo insistere, ha minacciato di sparargli in testa, ma per tutto il resto hanno tirato fuori cose interessanti. Ad esempio è chiaro come il sole che a Fabrizio Soleri, detto il Freddo, gli occhi del Libanese piacciano in maniera quasi imbarazzante. E' riuscito a descriverne le sfumature dell'iride per dieci minuti buoni, ha fatto scrivere a Bocci la forma, la grandezza, perfino la lunghezza delle ciglia. In un angolo della lavagna c'è perfino un ingrandimento della parte anatomica, dal quale partono tre frecce collegate a dolce, carisma e faccia come il culo.
Nel parlare, mentre prepara altro caffé e qualche panino, Bocci si rende conto che, avendo letto i copioni, lui sa cose che ancora il Freddo non sa. Per esempio sa che i servizi segreti rovineranno la banda più di quanto il Freddo tema e, soprattutto, sa che il Libanese verrà ucciso dal Nero con tre colpi di pistola sotto la casa della madre. Ovviamente sta ben attento a non dirgli niente e perlopiù lascia che sia lui a parlare, in modo da capire fin da subito quali sono i particolari di cui è a conoscenza. “Io ce litigo, ma lui nun capisce che tutta sta gente che se sta a mette de mezzo nun ce fa bene,” sta dicendo il Freddo, girando lo zucchero nella sua seconda tazzina di caffé. Si è tolto la giacca e l'ha lasciata sulla sedia accanto a sé. Sono quasi tre ore che Bocci lo guarda e non gli sembra più così strano averlo in casa; ormai la pazzia ha preso il sopravvento e probabilmente lo aspetta un futuro per le strade a spingere carrelli strapieni di cianfrusaglie.
“Tu non ci devi litigare,” replica Bocci, mentre Nicola, dentro di lui, si agita e strepita perché gli sembra assurdo che si metta lì a dare consigli ad un criminale su come tenere in piedi una banda che lui tenta di sgominare da che è nata. E ha ragione, ma Marco lo zittisce comunque. “Lo devi prendere da una parte e spiegargli tutto per bene. Mi hai tramortito di chiacchiere per tutto il giorno, sarai ben capace di fare la stessa cosa con il tuo socio, o no?”
“Nun è facile.”
“Certo è più facile prendere una macchina e andare in Toscana,” si fa scappare Bocci e, quando il Freddo gli lancia un'occhiata interrogativa, corre ai ripari. “E' un modo di dire. Intendo che se hai un problema a farti capire, dovresti insistere, invece di salire in moto e lasciarlo perdere. Anche perché quello se tu non gli ronzi intorno che cosa credi che faccia?”
“E che voi che faccia? Quello che je pare, come quanno sto lì. Nun è che me consulti. Lui fa, disfa e rifà da capo, la gente se 'ncazza, io je devo rimette' le cose a posto e poi lui viene, me batte la mano su una spalla e me dice che funzioniamo alla grande. Mica se rende conto che se funzioniamo e solo perché nun ce lo mando.”
Marco sa che al Freddo sfugge il punto principale e che questo succede perché lui, a differenza sua, non sa qual è la strada che Libano ha già imboccato. Dovrebbe stare zitto, ma gli sembrerebbe di aver in qualche modo buttato questa giornata della sua vita. “Il Libanese perde il controllo di se stesso quando non ci sei,” gli fa notare con il tono di un padre che vuol far passare un concetto molto importante al figlio. “Quindi più stai lontano e meno capirà quello che gli serve. Tu sei il suo argine, puoi solo contenerlo, non puoi effettivamente impedirgli di scorrere.”
Il Freddo stavolta lo guarda come non ha mai fatto da che è entrato in casa sua. Il suo sguardo, di solito molto diffidente, si scalda di qualcosa che Marco si permette di leggere come ammirazione, forse anche incoraggiato dal fatto che un po' il Freddo sorride - quel poco che Marchioni ha deciso per lui - e si rilassa sulla sua sedia. “Te sei uno che sogna un sacco, commissa'” commenta un po' divertito. “Sarebbe bello, ma te pare che semo in un film che je basto io pe' decide di nun fa' cose? La verità e che se dovemo andare in merda, ce anniamo. Sta' sicuro.”
Bocci non vuole dargli ragione, perché sarebbe consapevole di farlo con cognizione di causa, ma non vuole nemmeno dargli torto, perché in qualche modo si è affezionato a lui come s'è affezionato a Scialoja, e non riesce a togliergli la speranza che le cose possano migliorare, anche se questo va contro ogni logica e lui davvero dovrebbe iniziare a pensare di farsi internare. Dà la colpa di tutto al fatto che il Freddo gli si presenta con il viso di Marchioni e che questo, per forza di cose, deve incidere su di lui emotivamente. Se fosse Vinicio a irrompere in casa sua con l'intenzione di capire meglio i suoi sentimenti per Montanari e poi finissero a bere caffé parlando di lui con tenerezza, non sarebbe perfettamente normale? Quindi sì, se sta dando corda ad un'allucinazione è solo perché ha la forma, la voce e l'atteggiamento di una persona a cui vuole bene e per la quale, tutto sommato, sarebbe disposta a fare tutto ciò che sta facendo.
“Allora,” esclama alla fine, dopo essersi schiarito la gola. “Di questo schema che ne facciamo?”
Il viso del Freddo si spegne di nuovo e tutta quella luce che era improvvisamente comparsa dietro ai suoi occhi svanisce ed è decisamente molto più triste quando poi si alza e s'infila la giacca. “Fallo sparire,” dice secco, lanciando un'ultima occhiata sulla bacheca improvvisata per indugiare sulla foto di Libano prima di allungare una mano e staccarla. “Questa la metto 'ndo stanno le altre.”
“Sei riuscito a fare chiarezza?”
Freddo guarda tutte le frecce che hanno disegnato nelle ultime ore, cerca di seguire il percorso ma in realtà non ne esiste uno perché quelle continuano ad incrociarsi e a tornare sulla loro strada per prenderne una totalmente diversa. Sono confuse com'è confuso lui. “Tutte ste parole nun bastano pe' er Libbanese,” dice alla fine. “Me sembra che più le guardo e meno ce sta lui là sopra. Ne manca sempre 'n pezzo e nun so che sia.”
Bocci, a questo punto, vorrebbe quasi dirgli che quel pezzo è lui, ma tace.
“Amo provato commissa',” continua il Freddo, piegando le labbra in un mezzo sorriso che però resta triste e sfiduciato. “Magari ce penso e quarcosa me viene 'n mente.”
Bocci annuisce e in due sanno che questo non accadrà mai. Lo accompagna alla porta come si fa con un amico e quando la richiude dopo che è uscito, si chiede se sulle scale di casa l'allucinazione del Freddo sia semplicemente sparita nell'aria o sia diretta da qualche altra parte. Magari le allucinazioni hanno una vita anche al di fuori della sua testa e allora, forse, esiste anche un'allucinazione di Libano che potrebbe salvarsi dalla rovina in cui si è infilato, semplicemente perché l'allucinazione di Freddo è appena stata a casa sua e ha capito che cosa deve fare per evitarlo. Un po' ci spera, ed è la cosa più triste che gli sia capitato di fare in tutta la sua vita.

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