Fic: Per tutta la vita (2/4)

May 15, 2010 01:02

Titolo: Per tutta la vita
Autore: el_defe
Beta: lisachanoando
Fandom: Inter FC/AC Fiorentina
Personaggi: Alberto Gilardino, Davide Santon, Dejan Stankovic, Diego Milito, José Mourinho, Mario Balotelli, Stevan Jovetić, Thiago Motta, Wesley Sneijder, Zlatan Ibrahimović.
Rating: VM18
Warning: slash, angst, h/c, foursome, p0rn, salti avanti e indietro nel tempo come neanche Hiro dei tempi d'oro, altra roba che non ricordo
Word count: 16.692 (FDP)
Note: F3.U.C.K.S. Fest @ fanfic_italia, tesi di dottorato per la sfida di fiumidiparole (10mila parole o più).
Disclaimer: Ma non scherziamo, è tutto assolutamente fintissimo (a parte il loro essere oggettivamente belli a prescindere dalle preferenze sessuali di ognuno), e comunque lo faccio gratis, di mio c'è solo la disposizione artistica delle parole. Un grazie speciale a Veronica Scopelliti in arte Noemi per la sua bellissima canzone e il suo testo - che uso, ancora, senza fini di lucro.

Riassunto: 2017, primo anno di Siniša Mihajlović sulla panchina dell'Inter dopo otto anni di impero mourinhiano. 2017, primo anno di Stevan Jovetić con una maglia diversa da quella viola. 2017, primo anno di Alberto Gilardino dopo l'addio al calcio giocato per un gravissimo infortunio che gli ha letteralmente distrutto l'articolazione della caviglia. 2017, primo anno di Dejan Stankovic come allenatore in seconda. 2017, primo anno di Diego Milito come dirigente della società nerazzurra. 2017, ultimo anno di un problema con cui Davide Santon è costretto ad avere a che fare da troppo tempo.



Parte 1 | Parte 2 | Parte 3 | Parte 4

«Pronto?»
«Santiddio, finalmente qualcuno risponde» esclama sollevato Dejan, la voce appena metallizzata dalla naturale trasmissione del cellulare ma altrimenti vivida e intensa come sempre. «Sento musica ovattata.»
«Sono nel privé, Deki» risponde Davide con un sorriso appena accennato sulle labbra, posando il bicchiere ancora mezzo pieno su un tavolino dalla forma indefinibile. «Dieci minuti più tardi e sarei tornato a ballare.»
«Per caso hai sentito Jovetić?»
«Qui con noi al Galaxy» ribatte pronto, «è in pista adesso. Stava ballando con un’amica di Mario, l’ultima volta che ho dato un’occhiata. Problemi?» aggiunge poi, sinceramente preoccupato per una chiamata a un orario quantomeno insolito.
«No, no, Davide, tranquillo. Anzi, magari il fatto che sia riuscito a trovare te tra tutti quelli che ho provato a telefonare… mmm, è un po’ delicata, la cosa.»
Davide si guarda intorno nel salottino deserto, a disagio. «Sentirti fare giri di parole è una prospettiva ancora più preoccupante di una disgrazia. Che caspita succede, Deki?»
«Ti ricordi di Gilardino?»
«Ovvio. Al confronto di quello che sta passando lui, il mio ginocchio non è stato altro che un graffietto. Gli è successo qualcosa?»
«Più o meno.» Il sospiro di Dejan è sonoro e chiarissimo. «Un’oretta dopo la partita, l’ho beccato nella hall della sede. Cercava Stevan.»
Davide inarca nettamente un sopracciglio, perplesso sull’importanza da dare a una notizia del genere. «Non capisco. Sono stati compagni di squadra per… quanto? Sette-otto anni? Mi sembra anche normale che si interessi di lui, dopotutto.»
«Aha, certo. Ma quando io e Diego l’abbiamo salutato, è fuggito di corsa - almeno metaforicamente. E negando spudoratamente che stesse cercando Stevan.»
Dejan è quasi sicuro che Davide si sia seduto lentamente su un divanetto o affini e che stia armeggiando per accendere di nascosto una sigaretta, per meglio riflettere sulla questione; lo scatto dell’accendino, pur flebile, glielo conferma. «Quando smetti di fumare?»
«Quando il Barcellona retrocederà in B» ribatte senza pensarci su, tirando un’ampia boccata e soffiandola verso le griglie di aerazione. «Credo di aver capito perché eri contento di aver beccato me e non Mario, chessò, Rene o Wesley.»
«Non ho idea di dove sia Rene, visto che ha il cellulare staccato, ma ho chiamato Wes mezz’ora fa e quindi anche volendo non potrebbe sapere nulla di Stevan. È troppo impegnato.»
«Eh?» fa per chiedere Davide, che però appena sente dall’altra parte un mugolio soffocato trattiene il respiro, tossendo clamorosamente per l’aria impregnata di fumo che gli riempie la bocca e la gola. «Diosanto, non toccherò più neanche una nocciolina per tutta la serata! Ma perché devi raccontarmi queste cose, dico io!» sbraita, un po’ ridendo e un po’ reagendo davvero da arrabbiato, mentre Dejan ride senza freni. «Tu sospetti che Stevan e Gilardino…»
«Aha.»
«E devo capire perché Stevan abbia tagliato i rapporti con lui al punto da costringere Gilardino a zoppicare in sede e tentare di incontrarlo senza che ne sapessimo niente… non capisco perché debba pensarci giusto io se chiunque di voi può agire con più discrezione di me, che ne sono fastidiosamente privo e che non so mettere insieme tre parole senza sputtanare ulteriormente la mia già florida reputazione.»
Dejan sospira ancora una volta. «Hai intenzione di sedurre Stevan?»
«No, ma-»
«Provi una benché minima attrazione per lui?»
«No, ma-»
«Hai avuto qualche accenno del fatto che lui possa provare qualcosa per te?»
«Non credo proprio, ma-»
«Allora entra nell’argomento con un po’ di giri di parole, vai con la corrente e offrigli qualcosa di più pesante di un Bacardi Breezer.»
Davide scuote la testa, pensieroso. «Un ragionamento che non fa una grinza. Indosso il camice da psicologo e comincio.»
«Gli psicologi non hanno camice» puntualizza Dejan, soffocando una risata.
«Fa lo stesso. Ci sentiamo domani mattina.»
«Buonanotte, bambolotto» sghignazza, chiudendo la telefonata prima che Davide possa vomitargli addosso un cumulo di ingiurie; il ragazzo è ancora a bocca aperta quando Stevan e Mario entrano nel privé, i visi un po’ svagati e imperlati di sudore ma con una certa allegria ancora aleggiante.
«Chi era?» chiede Stevan, la cui consueta diffidenza è allentata abbastanza dall’alcol che gli riscalda piacevolmente il corpo e abbandonando la sua normale discrezione - o timidezza. E Davide, nella fretta di mentire, riesce a farsi del male da solo.
«Mourinho» gli scappa infatti detto, e lo stomaco si contrae spiacevolmente. «Vado un attimo in bagno» annuncia, con un sorriso appena forzato.

*

Un anno che passa, un anno in salita
che senso di vuoto, che brutta ferita.

*

Alberto legge il nome di Ginevra sul display dello smartphone, prima di riporlo nuovamente sul comodino - così spoglio da sembrare un prodotto IKEA di ultima fascia - e scalciare via la scarpa destra per estrarne il sottilissimo rialzo che gli permette di pareggiare l’altezza con la gamba sana. Non ha voglia di ascoltare la voce di sua figlia, il suo tono condiscendente e preoccupato che, per quanto amore possa contenere, resta pur sempre quello di una persona che lo guarda per quello che è. O almeno, per quello che pare al mondo.
Dopo trenta secondi esatti, però, lo chiama Alice, e a lei deve rispondere.
«Pronto.»
«Ehi. Tutto bene?»
«Sì.» Resta in silenzio, senza sapere che dire, e attende che sia lei a continuare il discorso.
«Ginevra voleva dirti soltanto che era andata bene a scuola. In fondo sei lontano da casa da tre giorni.»
«Lo so. Sono un pessimo padre.»
«Oh, sì che lo sei.» La voce di Alice è appena tagliente, e gli risuona fastidiosa nelle orecchie come mai negli ultimi anni: per quanto Alberto possa sforzarsi di ricordare, lei è forse l’unica persona al mondo che non sia mai caduta nella trappola in cui tutti sono caduti, un giorno o l’altro - compatirlo. «Passi tutto il giorno fuori a fare poco più che niente, ti impegni in viaggi solitari per stare lontano da tutto rifiutando l’idea di fare gli stessi viaggi con la tua famiglia, o con un amico, rispondi male a chiunque provi ad avvicinarsi a te abbastanza da poterti cedere un po’ di calore umano, hai tagliato i rapporti con i tuoi vecchi compagni, con i colleghi, e il giorno che Ginevra vuole sentire la voce del suo papà perché ha preso otto in matematica e vuole condividere un po’ di gioia con suo padre, si rifiuta di risponderle. Sei un pessimo padre da parecchi mesi, anche se sei stato così perfetto in tutto il resto della tua vita che non può essere motivo per farti da giudice, giuria e boia.»
Alberto resta a boccheggiare per alcuni secondi, stupefatto. «Da quand’è che ti stavi preparando questa manfrina?»
«Parecchi mesi» ammette, ridacchiando un po’; quasi percepisce il mezzo sorriso che si è aperto senza preavviso sul volto di Alberto, perché continua dicendo: «Non devi essere gentile, se non ti senti di esserlo. Basta essere se stessi.»
«Lo sono sempre stato.» Il sorriso di Alberto si affievolisce e si spegne: si passa la mano tra i capelli corti, studiando con ostilità nello specchio di fronte a sé le prime tracce grigie, poco sopra l’orecchio. «Ho dato solo sfogo a una parte di me che non conoscevo neppure io. E voglio continuare a farlo, perché è la parte che mi rappresenta, in questo momento.» Alice sospira dall’altra parte del telefono e Alberto si affretta ad aggiungere, «Puoi passarmi Ginevra?»
Alberto parla con sua figlia per quasi un’ora, addormentandosi ancora vestito mentre la sua voce lo culla dolcemente verso un sonno dai contorni confusi.

*

2011
Credere che uno stipendio piuttosto elevato, un carico di lavoro ben lontano da quello di un minatore cinese, un ambiente ragionevolmente protettivo e sereno, un “capo” che è padre per molti, nonno per tutti gli altri, lontanissimo dalla severità che il suo ruolo gli imporrebbe, e uno staff che è una famiglia premurosa, severa il giusto, generosa fino alla stupidità (secondo chi non ci vive, naturalmente), possano garantire di tenere lontane per sempre le preoccupazioni e le sofferenze è un pensiero che solo chi guarda ai calciatori come strapagati viziati può concepire. Davide, per esempio, non l’ha mai fatto, neppure quando a sei anni sognava di fare il pompiere, o quando - poco dopo aver mollato l’ipotesi di elmetto e tuta extra-large ignifuga, e poco prima di arrivare nelle giovanili di una squadra per cui molti, al suo paese e non solo, avrebbero fatto carte false - guardava con irritazione malcelata i suoi coetanei che ridevano del suo fisico gracilino e lo relegavano a fare il difensore nelle partite di calcio sui campetti sterrati. Finendo per ritrovarsi puntualmente privati del pallone e a dover contrastare un difensore che tanto da difensore non agiva, tanto avanzava verso la porta delimitata dal gesso.
Nella sala stampa di Appiano, la stessa in cui pochi giorni prima Javier ha annunciato di smettere alla fine della prossima stagione, Moratti e Mourinho scattano le fotografie di rito, mentre Jeffrén Suárez sventola la sua nuova maglia nerazzurra; Davide non esprime la benché minima curiosità per l’evento, non si unisce alla maggioranza dei ragazzi che assiste alla presentazione, mescolati a giornalisti e fotografi. Stringe labbra e occhi più che può nel tentativo di trattenere le lacrime, ma non ci riesce, e lascia colare lungo le guance delusione e rabbia, dolore e soffocante disperazione.
«Sapevi che non sarebbe tornato, quest’anno» borbotta una voce al suo fianco; Davide sente il pollice di Dejan strofinare forte sulla sua pelle, prima su una guancia, poi sull’altra, asciugando le lacrime più evidenti. «Ha bisogno di stare tranquillo come tutto quest’anno.»
«Lo so» singhiozza, inclinandosi fino a toccare la spalla di Dejan, «ma speravo almeno che venisse a Milano anche solo per il suo compleanno. È una sensazione tremenda, ho il terrore di perderlo per sempre, di sapere che la sua promessa di tornare resterà soltanto una promessa, e non so cosa fare per impedirlo.» Parlare così a ruota libera con una persona che non è Mario, lasciarsi andare a un contatto fisico che sia oltre la pacca sulla spalla, l’abbraccio, la stretta di mano, è strano, per quanta confidenza possa avere con Dejan.
«Gioca che ti rigioca, ci siamo persi che sei tanto più grande di quello che fai vedere.» Strofina un altro po’ il pollice sui suoi zigomi, prima di passargli un braccio intorno alle spalle. «Ma è da prima che Mario andasse a giocare a Genova che stai in disparte e ridi meno di tutti, ti fai il culo senza un giorno di assenza, accetti ogni decisione e ogni esclusione senza neanche pensare di discuterla… neanche l’approvi, resti in silenzio e al massimo fai un cenno con la testa.» Gli volta il capo con una pressione leggerissima da qualche parte dietro l’orecchio, più in segno di invito che in un tentativo di prevaricazione. «Non credo di poterti fare da Mario, ma posso almeno farti da confidente.»
«Deki… L’unico problema è che non riesco a ricordare di avere avuto un’estate piacevole, negli ultimi anni. C’è sempre qualcosa che rovina tutto quello che succede di bello.»
«Non lo so, se riesco a capirti» gli dice Dejan, passandogli una mano tra i capelli, «però forse so come posso tentare di metterci una pezza, almeno un po’.» Bisbiglia qualche parola al suo orecchio, quanto basta perché Davide salti su in piedi come se avesse preso la scossa, cominciando a guardarlo con terrore.
«N-non… cosa ti fa pensare questa sciocchezza?»
«Sbaglio, forse?»
Davide non risponde: trema come una foglia anche quando Dejan gli prende dolcemente la mano e torna a farlo sedere, e quando lo fa si porta le mani al viso e scuote la testa, disperato. «Sono fottuto.»
«Infinitamente meno di quanto tu creda» ribatte Dejan, brusco, e Davide si volta a guardarlo. «Se mi sono offerto come padre confessore due minuti fa, non è che ora mi metto a strillare alla Pinetina che-»
«Sì, ok, ok. Scusa» lo interrompe gesticolando e Deki ridacchia pianissimo, nel tentativo di non urtare ulteriormente la sua già abbastanza provata sensibilità.
«Ecco, appunto. E comunque dicevo che non sei così socialmente rovinato.» Dejan si avvicina di nuovo al suo orecchio e sussurra altre parole scelte con cura, e la sorpresa si diffonde sul volto di Davide fino a sconvolgerlo completamente. «Rieccoli. Dovremmo proprio partecipare allo show di Jeffrén, almeno come spettatori» mugugna, alzandosi e avviandosi verso la tribunetta quando vede il gruppo misto di addetti stampa e staff scortare il nuovo giocatore dell’Inter verso il campo di allenamento.
«Deki!» grida Davide, quando Dejan è ancora a metà strada. Il serbo si volta, e tutto ciò che riesce a dirgli il ragazzo è: «Perché?», ma non ottiene risposta. Ci arriva da solo soltanto a tarda sera, senza neanche rimuginarci su troppo: Rene gli chiede perché se ne sta da un minuto buono a bocca aperta e con un’espressione stralunata sul viso, ma non ci bada; afferra il cellulare dalla mensola e comincia a digitare freneticamente il suo messaggio.
“Grazie per la fiducia.”
Stavolta la risposta è quasi istantanea. “Non c’è di che, bambolotto.” E Davide, quantomeno, non può che essere perplesso dalla scelta di termini.

*

«Mettiamola così» dice Davide, bevendo le ultime gocce di cocktail e al contempo allungando una mano per sollevare il pannello di legno intarsiato che nasconde con discrezione la tastiera per le ordinazioni, «ho deciso di fare il grande passo soltanto perché non mi andava di tenere su un teatrino come fa tanta altra gente senza coglioni.» Agita il bicchiere vuoto con disappunto, facendo tintinnare per un minuto buono i bicchieri, prima di trovare il modo giusto per continuare. «Però intendiamoci, io non ho nulla contro chi è sposato, magari ha una famiglia felice e dei figli e sa che fare un’ammissione pubblica porterebbe più male che bene… ne ho conosciuti molti e li rispetto, anche se non condivido.»
Stevan lo ascolta con tutta l’attenzione rimastagli dopo una serata che, per le sue abitudini, potrebbe tranquillamente definire come “senza freni”. Ha l’impressione che il suo collo, lì dove una tizia dai capelli rossi ha indugiato a lungo con le sue labbra, stia andando a fuoco, e il timore che ne restino i segni; ma nonostante sia praticamente certo (e non possa sapere di essere in errore) del fatto che nella sua testa ci sia più alcol che sangue e che siano probabilmente passate le due di notte, è piacevolmente ancorato alla realtà grazie al racconto di Davide: c’è quasi una sorta di intimità, grazie alle sue parole e all’ambiente raccolto del privé, turbato a malapena solo dalle frequenti entrate e uscite di Mario, Luca e altre persone che non conosce. «C’è anche l’opinione pubblica di cui tenere conto, però» obietta, dopo un briciolo di riflessione più lenta che mai. «Scommetto che non fanno altro che pettegolare su quanto sia straniante avere un omosessuale in uno spogliatoio pieno di uomini.»
«Credimi, ci sono cose ben peggiori» ribatte con un sorrisetto compiaciuto, appoggiando la testa sullo schienale del divano e i piedi sul pouf morbido che si sgonfia con un suono identico a una pernacchia. «Vai a prendere le birre, per favore?» aggiunge poco dopo, quasi implorante, quando le bottiglie portate dal cameriere fino al tavolino più esterno tintinnano un paio di volte.
«Ci arrivo fin lì?»
«Secondo me sì» ride Davide, «ma, se crolli prima, ci provo io.» Segue con lo sguardo Stevan che riesce a prendere due bottiglie dal cestello ghiacciato e a lasciarsi cadere nuovamente sul divano, per niente preoccupato. «Senti...»
«Eh?»
«Oh, io non sono capace, ‘fanculo.» Davide gli poggia una mano sul braccio, proprio all’altezza del tatuaggio che tiene continuamente nascosto, e Stevan fa per ritrarlo come se si fosse scottato al contatto. «Stevan… non lo so che cosa è successo e se non vuoi parlarne è okay, davvero, ma devi sapere una cosa. Un po’ dopo la partita, Deki e Diego… Diego Milito, dico, hanno incontrato una persona che conosci bene.»
Stevan trattiene il respiro e sillaba lentamente, senza pronunciarlo, il nome di Alberto; abbassa lo sguardo, stringendo la bottiglia di birra ancora piena per tre quarti con una presa ferrea, e Davide può vedere le dita sbiancarsi all’improvviso.
«Ti lascio un po’ da solo.»
«Grazie» mormora Stevan, con tono insolitamente freddo. Prima che Mario si trascini dentro il privé un’altra ragazza, Davide fa in tempo a fermarlo con uno sguardo ammonitorio che, per fortuna, comprende al volo.

*

Trovarsi per caso in un bar del centro
e sentirsi speciale.

*

«Ssst» continua a sibilare Diego, rimproverando ancora una volta una scatenata Agustina e Dieguito che continuano a strillare a mezza voce, tirandosi popcorn e facendo pentire sia lui che Thiago (ma anche buona parte del pubblico nei posti più vicini) di non aver atteso l’uscita del film in home video. Neanche l’abbassarsi delle luci e lo schermo che proietta i canonici spot di introduzione prima della rappresentazione riesce a calmarli, e devono piovere su entrambi promesse di dolci post-serata e minacce di reclusione forzata per parecchie settimane prima che si sistemino buoni buoni a guardare la réclame dei nuovi giocattoli “che camminano, parlano e compiono otto azioni diverse”.
«Che angoscia» sussurra pianissimo Thiago, permettendo a Diego di appoggiare la testa sulla sua spalla, quando l’intervallo - mai troppo presto - arriva. «Perché abbiamo ceduto? E perché non abbiamo lasciato a Sofia e Francisca questo onore?»
«Hai già dimenticato il casino che hanno tirato su i nostri figli quando abbiamo provato a proporre di attendere la possibilità di noleggiarlo?» Diego scruta i sedili svuotati e sorveglia i quattro bambini - Leandro e Sophia tranquillissimi, Agustina mezza addormentata nella sua poltroncina, Dieguito ancora troppo pimpante - prima di cercare la mano di Thiago abbandonata sul bracciolo. «E lasciare le nostre mogli a casa è stata una tua idea.»
Thiago geme, rifiutandosi di essere messo di fronte alle sue responsabilità, e accoglie la chiamata che arriva sul cellulare impostato su “silenzioso” con plateale liberazione. «Deki? Sento male, non prende tanto… Porca miseria, non era ripartito? Aha. Meno male, che sollievo. Ho capito, dacci un po’ di tempo per organizzarci, se non è grave non c’è fretta.» Anche se l’espressione e il tono di voce di Thiago restassero neutri anziché diventare sempre più allarmati, Diego comprenderebbe comunque che, qualsiasi cosa sia successa, non è né delle più serene né delle meno gravi. «D’accordo, in qualche modo facciamo. Tienici aggiornati, ci vediamo lì»
Thiago guarda Diego scuro in volto, mettendolo rapidamente a parte della situazione.
«Che si fa?» domanda infine l’argentino, chiaramente spaventato.
«Vai. Io resto coi bambini, riporto a casa i tuoi dopo il film e spiego a Sofia la situazione. Poi vi raggiungo al Niguarda.»
Diego riflette rapidamente, poi annuisce e scavalca le gambe di Thiago per uscire dalla sua parte e fare più in fretta. «Ti amo» sussurra fugacemente al suo orecchio, ricevendo in cambio una carezza altrettanto rapido, e lascia da solo Thiago a tenere a bada quattro ragazzini pestiferi.
«Bene, ragazzi» annuncia, provando a nascondere l’apprensione in un guscio di risolutezza. «Ora buonini a guardare il secondo tempo, o gli zii non vi comprano il gelato.»

*

2012
«Santiddio, hai intenzione di continuare a fermarmi ogni volta che ci incrociamo e abbracciarmi ancora per molto tempo?» mugugna, assestando pacche sulle spalle a Davide come per tenerlo buono.
«Mourinho ci tiene molto a queste cose» ride, stringendolo fortissimo e incurante del sudore che infradicia entrambi. «E sei tornato solo da due giorni, dammi il tempo di riabituarmi ad averti tra le palle per più di tre ore.»
«Ma sentitelo» ribatte Mario, ma ride anche lui. «Fino a domenica scorsa piagnucolava perché c’era il rischio che il Genoa si impuntasse e mi portasse alle buste. Che hai ora?» domanda preoccupato quando Davide trattiene il respiro in maniera quasi comica.
«Voltati.»
«Che cazz-»
«Voltati!» insiste, tappandogli la bocca per non farlo gridare, e lo stupore negli occhi di Mario è perfetto riflesso del suo. «Che-ci-fa-lui-qui?» sussurra, calcando l’attenzione su ogni singola parola.
Zlatan è a Los Angeles e anzi, il che è molto peggio per la sua sanità mentale, è a venti-venticinque metri di distanza, quando dovrebbe essere mille, no, diecimila chilometri lontano, nella sua fottuta Catalogna che con la California ha in comune giusto la prima sillaba. È la prima volta che Davide si concede il lusso di studiarlo attentamente da quando è andato via: per quanto siano stati intensi, i sei incontri fin qui disputati con l’Inter non sono stati grandi occasioni per incontri e pacche sulle spalle; dopotutto, probabilmente Davide gli avrebbe staccato le dita a morsi, se solo ci avesse provato - oppure, ed è altrettanto probabile, l’avrebbe spinto contro gli armadietti e usato violenza su di lui, incurante della presenza di trenta-trentacinque persone tra staff e compagni e senza dar troppo peso al fatto che la forza di Zlatan è infinitamente più devastante della sua.
Zlatan è a Los Angeles e parla con Mourinho, senza sorrisi sfrontati o allegri, anzi c’è un’ombra di preoccupazione fin troppo evidente sul suo viso un po’ più scavato di quanto ricordasse; è significativamente più magro, ma i muscoli scoperti dalla canotta e dai pantaloncini restano esplosivi, definiti anche a quella distanza. Non c’è traccia di abbronzatura, c’è un nuovo tatuaggio poco sotto la nuca - ma è troppo lontano perché possa distinguerlo - e un altro al lato del polpaccio.
Zlatan è a Los Angeles, tre anni dopo averla abbandonata con il primo aereo per inseguire il suo sogno: troppo lontano perché Davide possa tornare ad avvicinarlo, e troppo vicino perché possa allontanarsene senza soffrire ancora una volta.
«Vedi anche tu quello che vedo io?» esala, inorridito.
Mario indugia un istante di troppo sulle mani dei due uomini distanti, che si sfiorano in maniera troppo evidente per essere un tocco casuale, una, due volte, ma non riesce a rispondere. Quando le loro labbra si cercano, imprudenti e fameliche, Davide scappa via. E Mario non prova neppure a fermarlo.

*

È Luca che guida l’auto che li riporta a casa, poco dopo l’una; nell’abitacolo regna un silenzio un po’ alcolico, interrotto soltanto da respiri pesanti di stanchezza e di voglia di infilarsi sotto un lenzuolo fresco per scacciare l’umidità di Milano di fine agosto in un modo o nell’altro. Stevan è più o meno il più sveglio dei quattro, se non altro perché la testa di Davide, semiaddormentato al punto da impastare parole sconnesse nel suo russare leggero, pesa sulla sua spalla abbastanza da tenerlo desto e permettergli di guardare ovunque, pur di distrarsi.
“Alberto è a Milano.” Stevan prova a immaginarsi la scena avvenuta poco dopo il suo ritorno a casa: non vede Alberto da mesi, ormai, e anche se non fa fatica a ricordare il suo volto non riesce a soffermarsi su un ricordo in particolare. Così, nella sua testa, il sorriso che gli ha rivolto alla sua prima partita con la Fiorentina si sovrappone alla smorfia acida che ha scorto una delle ultime volte che si sono visti; i suoi occhi, pieni di gioia, preoccupazione, esaltazione, dolore, tristezza, tutto insieme senza ragione alcuna; i suoi gesti, il suo passo, tutto è cambiato in lui al punto da non potersi focalizzare su un particolare specifico. Stevan si gratta inconsciamente l’interno dell’avambraccio, socchiudendo gli occhi fino a ricordare altri momenti passati insieme: momenti in cui tutto ciò che importava era sentire il respiro di Alberto scaldare la sua pelle fino a incendiargli il sangue sotto di essa, le sue mani vagare ovunque sul proprio corpo, accarezzarlo ed eccitarlo fino al limite - ma mai oltre - e il sapore dei suoi baci inebriargli la bocca e la mente mentre godeva dentro di lui.
Ma nonostante il brivido così forte da riscuotere Davide dal suo sonno (si lamenta, ma non più di tanto, e comunque decide che il finestrino è più comodo e fresco della sua spalla), Stevan non riesce a fermare la sua attenzione su di lui.
“Alberto è a Milano e mi ha cercato” pensa ancora, aggiungendo un particolare tutto sommato importante a una riflessione che non può essere seria dopo chissà quante birre. Se dipendesse dal suo sangue al retrogusto di birra proverebbe a fare un giro di telefonate - Riccardo, forse, o Adrian, se ha ancora contatti con lui; per assurdo potrebbe contare anche sulla fitta rete di donne, fidanzate e mogli e rintracciarlo tramite Alice - e tenterebbe di chiamarlo, per chiedergli tante cose o soltanto per stare zitto e ascoltare soltanto la sua voce. “È venuto da solo, sta bene, e ha chiesto di me.” Stevan prova a rimuginare anche sulla situazione particolare cui gli ha accennato Davide e tutto, nel suo resoconto scarno di particolari, risuona un po’ strano, perché Alberto mente con facilità e una certa bravura, ma solo se lo ritiene necessario; e mentire in modo così poco brillante al punto da farsi scoprire ancor prima di un’indagine, per quanto possano essere intelligenti Diego Milito e Dejan, non è da lui.
“È un messaggio” si dice. «Ma cosa hai intenzione di dirmi?»
«Ti amo» biascica Davide al suo fianco, appena infastidito dai suoi borbottii, e si riaddormenta all’istante. Luca accompagna prima lui, poi Mario ai rispettivi appartamenti, prima di seguire le indicazioni di Stevan e riportarlo a casa sua.
Quando scende dall’auto e lo ringrazia, salutandolo, non fa caso alla signora col cane che esce dal condominio, né al signore di mezza età che guarda verso l’edificio con apparente disinteresse; tutto intento a cercare le chiavi in tasca, non si avvede che quest’ultimo gli si avvicina fin quando non gli parla.
«Una volta mi avresti almeno salutato.»
Stevan tira su col naso, il disagio affogato nei primi sintomi della sbronza.
«Sono troppo ubriaco per riconoscerti al buio, Alberto.»

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