Titolo: Puppet on a lonely string
Parte: 12/17
Autore:
el_defe &
lisachanoandoFandom: RPF - Sportivi
Rating: VM18
Warning: A capitoli, Alternate Universe (AU), Hurt/Comfort, Linguaggio pesante, MaleSlash, Sesso esplicito, Ucronia, Underage, Violenza
Disclaimer: Questa fanfiction non è a scopo di lucro. Non si vuole offendere o essere lesivi nei confronti delle persone reali descritte. Niente di quanto narrato nelle fanfiction qui contenute è realmente accaduto e non si pretende di dare tramite esse un ritratto veritiero di eventi o personalità. È una serie di pura fantasia e non vuole descrivere atteggiamenti reali. La presenza di contenuti espliciti o non adatti a tutte le età sarà debitamente segnalata, pertanto l'eventuale fruizione di tali contenuti ricade sotto la piena responsabilità degli utenti. *piange*
Introduzione: (Ucronia) "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."
Dedicata a Fae e Graffias, con semplicità.
Prologo -
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Epilogo La mattina scivola via in un grigiume più spento e denso del solito; per quanto Javi tenti di tenere alta l’attenzione della squadra, battendo le mani e ordinando di fare come se niente fosse (in fondo il capitano della squadra è lui, e senza qualche novità non si può fare altro, in questo momento) nessuno - neanche lui stesso, beninteso - ha davvero voglia di allenarsi, e restano a stirarsi fissando alternativamente il gabbiotto di De Faveri, che però resta vuoto per quasi tutto il tempo, l’ingresso del centro riservato allo staff e le passeggiate nervose di Lisciandra, ancora scossa e provata dalla serataccia, distrutta dalla mancanza di sonno e nonostante ciò in continuo contatto con José e con l’ospedale, o quel che è, dove stanno operando Mario.
Adriano e Davide non si stanno allenando per niente, comunque, e si limitano a agitare svogliatamente gambe e braccia per un paio di minuti ogni volta che Javi si sgola per mantenere l’ordine: se a Zlatan non sfuggono gli occhi gonfi del primo, che probabilmente si sta addossando tutta la colpa, o comunque una parte numericamente rilevante della stessa, è altrettanto vero che fatica a star dietro al secondo e ai suoi vuoti mentali. Ci si concede di viziarne uno per far sì che l’altro possa occuparsene, gli ha detto Adriano una vita fa, e soltanto adesso che vede Davide fantasma di se stesso Zlatan capisce ogni sottinteso di quella frase.
Il sole ha già dissipato praticamente tutta la nebbia quando Rosalia corre in mezzo al campo come un’ossessa, tenendo in mano il cellulare quasi fosse una bomba pronta ad esplodere. Tutti si affollano intorno a lei, mentre grida «La metto in vivavoce. Si regoli di conseguenza» per sovrastare un inesistente chiacchiericcio.
Anche nella versione metallica e sovracampionata, il tono di voce di José è sempre lo stesso. «Mario è appena uscito dalla sala operatoria. Non rischia la vita.»
Non fa neanche in tempo a finire la frase che il gruppo si ritrova a emettere qualcosa a metà tra un sospiro di sollievo e un boato di felicità, venato dalla tristezza per le condizioni di Mario che, comunque, non sembrano essere delle più rosee; Davide crolla in ginocchio, singhiozzando senza ritegno, e sul volto dei più ottimisti fa capolino anche un sorrisetto.
«Aprite bene le orecchie, voialtri. Continuate come se nulla fosse accaduto. Allenatevi finché non torno - potrebbe volerci parecchio. Capitano Lisciandra, spenga il vivavoce e mi faccia parlare con Zanetti e De Faveri, al più presto.»
Rosalia preme un paio di tasti e si allontana con Javier, cercando al contempo Filippo che, da qualche parte, starà sicuramente sgozzando con le sue mani i responsabili di questo casino; ma quando, venti minuti dopo, Javi torna da solo dai compagni, la sua faccia è quella delle peggiori giornate.
«Il mister torna prima di organizzare la formazione. E ha fatto una disposizione ben precisa.»
Zlatan trattiene il respiro, a disagio, mentre il capitano della squadra continua con le cattive notizie. «Adri, il mister mi ha chiesto di dirti davanti a tutti che ti ha sbattuto fuori squadra fino a nuovo ordine. Mi dispiace.»
Adriano chiude gli occhi solo un istante, l’ombra di un’imprecazione che tenta invano di farsi strada sulle sue labbra. Poi sorride di una finta comprensione, annuisce altrettanto falsamente, e si dirige sparato dall’altra parte del campo, nel silenzio generale.
* * *
«Si assicuri di essere da solo.»
«Certamente» commenta atono, rivolgendosi poi a Rosalia con un mezzo sorriso e coprendo il ricevitore con una mano. «Sarà una cosa lunga. Va’ a riposarti, sei a pezzi, io intanto me lo tolgo dalle palle» sussurra complice. Lei annuisce, troppo svuotata per fare qualcos’altro, e si avvia al gabbiotto.
«Dica pure.»
«Dieci minuti e poi mi avrà fuori dalle palle» è il commento limpido di José - che ci sente anche troppo bene, per essere stanchissimo. Filippo alza gli occhi al cielo, esasperato.
«Era impegnato a strigliare i suoi uomini?»
«I due responsabili non sono le persone più felici della terra.»
«Suppongo li abbia condannati alle miniere di sale.»
«Mangiare quattromila chilometri a tappe forzate pena la sospensione dello stipendio mi è sembrato adeguato.»
Il dubbio si fa strada nella voce di José. «Dove cazzo li ha- no, non mi interessa. E il capitano Lisciandra andrà con loro?»
«Non capisco dove vuole arrivare, mister Mourinho» è il turno di De Faveri di essere perplesso. «La mia collega si è comportata in maniera degna di encomio.»
«In maniera degna di encomio?» ribatte, soave. «Quattromila frustate non sarebbero abbastanza, se fossi io a contare qualcosa.»
Filippo attende in silenzio, sperando che José gli dia un motivo decente, uno qualsiasi, per mandarlo discretamente a ‘fanculo; peccato che il portoghese stesse aspettando da almeno otto ore la possibilità di sganciare una bomba così potente.
«A meno che sollazzarsi con le persone da proteggere sia un comportamento degno di encomio, ovvio.»
«Non faccia insinuazioni che non può provare» sibila a denti stretti Filippo, trattenendosi dallo scagliare il cellulare contro la parete opposta. «Sta offendendo la professionalità di una mia collega e della mia-»
La voce di José, anche attraverso il ricevitore, è quantomai implacabile e inutilmente crudele. In realtà sta cercando solo un capro espiatorio su cui scaricare la tensione accumulata, e Zlatan non è a portata di labbra, decisamente no. «Apra quelle cazzo di orecchie, capitano. Non mi interessa sapere se è andata a letto anche con lei. Si faccia consegnare le chiavi dell’appartamento di Adriano, le chieda perché cazzo ha le chiavi dell’appartamento di Adriano, e si faccia raccontare la bella storiellina di come è stato bello scopare con i miei giocatori nell’appartamento di Adriano. Lei si fida della sua professionalità, quindi non si lascerà infinocchiare.»
Il cellulare, stavolta, si schianta davvero contro il muro.
«Cazzo hai?» gli ripete per la quarta volta da quando si è svegliata da un sonno senza sogni - ha imparato a tener fuori gli incubi dal proprio riposo dopo il terzo morto ammazzato, e anche se fanno capolino ogni tanto è abbastanza abile da non lasciarsene turbare. Per la quarta volta Filippo le risponde soltanto con un’occhiata molto torbida per poi tornare a fissare gli schermi dell’apparato di sorveglianza; l’unica differenza rispetto ai primi tre tentativi sono le braccia di Rosalia che scivolano attorno al suo collo, in un abbraccio a cui ognuno dei due dà un significato diametralmente opposto rispetto a quello assegnato dall’altro.
«Filì, non sono scema» gli mormora all’orecchio dolcemente. «Ti ho fatto di nuovo qualcosa, e come al solito invece di dirmi la minchiata che ho fatto stai muto.»
Lui si scuote con un brivido, lanciando il blocco degli appunti lontano da sé e alzandosi per fronteggiarla. Dal modo in cui Rosalia sbatte le ciglia, stupita, è evidente che non si aspettava le rispondesse sul serio - e dal modo in cui sgrana gli occhi capisce che non è una minchiata qualunque. Anche se non si rende conto di cosa ha fatto davvero, finché Filippo non comincia a parlare.
«Dammi le chiavi.»
«Quali chiavi?» chiede con un tremito, sbattendo le ciglia ancora una volta o due.
«Le chiavi dell’appartamento. Le chiavi del tuo pied-à-terre.»
«Il mio cosa? Filì, non riempirti la bocca e parla chiaro.»
«Più chiaro di così? Dammi le chiavi dell’appartamento di Adriano» ringhia, sputando una parola dopo l’altra e sperando più in una figuraccia davanti a Rosalia che alla possibilità che Mourinho abbia davvero ragione. Forse si incazza il triplo di quanto dovrebbe - perché, per quanto possa desiderare il contrario, non è che ci sia mai stato alcunché tra loro - soltanto perché lei china il capo, colpevole, e rovista nelle tasche della giacca fino a quando non ne tira fuori un mucchietto di metallo tintinnante che gli porge decisa, senza tremare.
«Buffo, sei tu a darmi del minchione due volte al giorno» commenta in un tono così gelido da raffreddare perfino l’aria del minuscolo gabbiotto.
«Filì, non è come cre-»
«Io non credo più a niente. Raccontami tutto e potrei cominciare a farlo, forse» la interrompe, ignorando le sue giustificazioni con il preciso intento di farle quanto più male possibile - una parzialissima restituzione, magari - e servendosi del caffè dal thermos. «E se mi conosci un poco, sai cosa intendo con “tutto”.»
Rosalia alza finalmente la testa, nessuna traccia degli occhi lucidi che Filippo si aspettava - lui distoglie lo sguardo, fissando i monitor in attesa del suo racconto.
«Solo Adri, Filì, credimi. E non c’è stato chissà che cosa» sospira, sedendosi di traverso su una delle sedie e aggrappandosi allo schienale tarlato con un certo nervosismo. «Un paio di mesi dopo il suo arrivo, Adri ha tentato di prendersi la libera uscita. Di notte. L’ho beccato in flagrante mentre tentava di uscire dal vecchio varco pedonale, quello che il Presidente ha fatto chiudere l’anno scorso. L’ho riportato in camera sua, ci mancava solo che lo trascinassi per un orecchio. Poi abbiamo parlato.»
Il rumore della plastica che si accartoccia di schianto la fa sobbalzare. «Sì, va bene, abbiamo parlato poco. E abbiamo scopato molto. Così ti va bene?»
«Certo» borbotta, cupo. «È di grande conforto sapere che una collega… e un’amica… si porta a letto il suo lavoro. Ti sei divertita, almeno?» Rosalia se ne sta zitta, a disagio per quello sfoggio di cattiveria allo stato puro che non accenna a placarsi. «Oh, perdonami, se non fosse stato divertente non l’avreste fatto ovunque. Spero che non l’abbiate fatto anche a casa.»
«Sei uno stronzo ingiusto» gli urla contro, sull’orlo delle lacrime. «Non mi sarei mai permessa di-»
«Ti sei permessa di fare un sacco di cose, Rosalia.» Riesce a caricare il suo nome con tutta la rabbia di cui è capace, senza alzare per un solo istante la voce. «Sono molto deluso.»
«E finché non scopiamo nel tuo letto, non sono cazzi tuoi!» continua a voce ancora più alta, ignorando i passi leggeri in avvicinamento. «No, Filì, non è una minchia di problema tuo se Adri scopa bene, non finché non ci vai pure tu e mi fai sapere!»
Il sibilo di incredulo divertimento di lui la fa incazzare ancora di più. Le lacrime cessano quasi immediatamente di scorrerle lungo le guance, il mento torna alla sua naturale fierezza, gli occhi lanciano lampi terribili. «Io il mio lavoro lo faccio bene, e questo ti deve bastare. Dove la do è un problema mio e non tuo, sono stata chiara?!» grida, sbattendosi la porta del gabbiotto alle spalle con tanta violenza da farla tornare indietro con un rumore tremendo, e quasi travolgendo Zlatan nella sua camminata furibonda.
«Cazzo hai da guardare, tu?» gli ringhia contro Filippo quando se lo ritrova davanti, ancora perplesso per gli ultimi scambi di battute - non ha ascoltato tutto, non l’ha fatto di proposito e non gli interessava prima come non gli interessa ora, ma crede di aver sentito abbastanza da capire un mucchio di cenni, occhiatine e parole non dette tra la guardia e il compagno di squadra. Zlatan scrolla le spalle, farfugliando qualcosa sul fatto che deve riposarsi un po’, e il carabiniere gli chiude la porta in faccia con uno scatto deciso.
Quando lo svedese si allontana dalla parte della vetrata, può vedere Filippo seduto al tavolo, le mani tra i capelli. Un po’, ma solo un po’, gli fa pena.
* * *
José è tornato più silenzioso di quanto già non fosse prima, limitandosi a dettare la formazione e a confermare che sì, Mario avrà bisogno di un mese o due di gesso e di una lunga riabilitazione, e che sì, Adriano è fuori squadra per tutto il tempo che riterrà opportuno. Ora che di fronte a Zlatan c’è il centrocampo dei giocatori parmensi, dopotutto, la differenza si sente: per quanto sia sempre stato un solitario, giocare supportato da Mario o da Adriano è tutta un’altra cosa che doversi inventare qualcosa da solo ogni volta. Gli schemi con una sola punta non fanno per lui, per quanto José possa ripetere all’infinito che ci vuole un’intera squadra per sostituire lui, e un solo giocatore per rimpiazzare ognuno degli altri.
Oltretutto la situazione è sempre più difficile: le voci corrono di città in città, evidentemente, e trovarsi due mastini appiccicati al culo ogni volta che tocca palla non lo aiuta a imperversare come si deve nel campo. Quando comincia l’intervallo, tutte e due le squadre si rendono finalmente conto che il pallone non ha fatto capolino neanche una volta in nessuna delle due aree, e se l’allenatore avversario quasi gongola per la possibilità di strappare un punticino alla corazzata del torneo, José è così incazzato da prendersela con tutti quanti, dal sole che quasi squaglia l’erba secca alla codardia degli esterni, a cui non basta l’alibi di dover trottare per quarantacinque minuti avanti e indietro alla ricerca di una botta di culo.
«Siete patetici» grida con veemenza, gesticolando come in preda a spasmi muscolari. «Loro si tengono insieme per puro miracolo, voi siete stracarichi di soldi, viziati e coccolati e non riuscite a sommergerli di gol? Meritereste un palo in culo, tutti quanti e a prescindere da quanto vi piaccia prenderlo. Se non torniamo in Pinetina con la vittoria, giuro che vi caccio tutti quanti a pedate, e che lo faccio personalmente!»
Adriano lo guarda come se fosse lui stesso il principale colpevole di questa prestazione deludente, e allo stesso tempo lo fissa quasi implorante, nel tentativo di convincerlo a puntare su di lui nonostante sia un cazzone demente. José ignora entrambe le opzioni. «Julio, al posto di Patrick. Voialtri, a guadagnarvi la pagnotta.»
«Sei stato piuttosto duro» gli fa notare Zlatan, senza guardarlo e rallentando il passo abbastanza da restare solo con lui. Non che creda di avere il diritto di dire qualcosa di simile. Solo che, per quanto possa essere preso da José, ormai sono passati dei mesi da quando è arrivato a Milano, e gli sguardi feriti negli occhi dei suoi compagni, dopo la sfuriata, non riesce più ad ignorarli come avrebbe tranquillamente potuto fare qualche mese fa.
«No, loro sono stati ridicoli» lo corregge José, facendo frusciare le pagine del bloc-notes. «Avevano bisogno di una strigliata.»
Gli occhi di Zlatan si fanno cupi mentre si appoggia alla parete, cercando di non pesare sulla caviglia dolorante per la botta presa poco prima della fine del primo tempo.
«E pensi che umiliarli servirà ad incoraggiarli?»
José resta in silenzio per molti secondi. Finisce di raccogliere gli appunti, poi si rimette dritto e lo guarda, sospirando.
«Sai cos’è un trascinatore, Zlatan?» chiede quindi, quasi dolcemente.
Lui scrolla le spalle e distoglie lo sguardo. No, non l’ha ancora imparato cos’è un tra… quello che è.
«Un trascinatore è uno che non ha paura di sbagliare. Uno che fa sempre e solo ciò che pensa sia giusto. Sai perché non ha paura? Sai perché fa quello che vuole senza temerne le conseguenze?»
Zlatan torna a guardarlo. Gli brillano gli occhi.
«Fammi indovinare» tenta quindi con un mezzo sorriso, «Perché non può sbagliare?»
José risponde con un sorriso tanto bello che Zlatan vorrebbe prenderlo a schiaffi.
«Esattamente. Ora vai e fa’ quello che devi.»
Zlatan ci prova pure, a fare quello che deve. Julio non è il compagno con cui ha giocato più spesso - sono parecchio diversi e non troppo compatibili, per quanto sia un brav’uomo - ma si sta sacrificando per lui abbastanza da metterlo a suo agio. È che i difensori del Parma ora lo marcano in due anche quando non porta palla, e a volte arriva anche il terzo a costringerlo in una gabbia da cui, per quanto provi ad affinare i riflessi di minuto in minuto, fa troppa fatica a liberarsi. E senza una valida alternativa a Zlatan, alternativa che se ne sta seduta in panchina a sbuffare con discrezione, la squadra è una lancia dalla punta un po’ sbeccata che fa fatica a penetrare perfino i tessuti più fragili.
Il nervosismo è la caratteristica più palpabile, ormai, ed è con un ringhio represso che tenta di smarcarsi di nuovo dalle sue affettuose bodyguard per tentare di avvicinarsi, con un salto, a un pallone vagante: tutto quello che ne ottiene, però, è una fitta all’altezza dello stomaco. Il gomito di un avversario nerboruto è ancora piantato tra le sue costole quando comincia a perdere l’equilibrio, e pochi istanti più tardi un trillo energico, l’urlo inviperito di José e il clamore degli sparuti spettatori rompono il silenzio inquieto della partita, trasformandola per qualche secondo nell’anticamera dell’Inferno.
Il casino si trasforma in esultanza soltanto quando Dejan insacca un tiro angolatissimo. Nessuno è soddisfatto al cento per cento di una vittoria così stiracchiata e così palesemente di culo, ma è pur sempre una vittoria - lo si capisce dagli abbracci collettivi che seguono il triplice fischio, dalla smorfia di José che sembra voler baciare un essere immaginario, da un sacco di cose e da niente insieme. Va bene così.
* * *
Adriano entra in camera di José e lo trova, come immaginava, a guardare la registrazione della partita sul portatile. È l’unica cosa che abbia un vero valore in quella stanza spoglia. Il brasiliano resta lì sulla soglia un paio abbondante di minuti, guardandosi intorno con aria poco interessata, finché non è José ad interrompere quel fastidioso stallo.
«Entra e chiudi la porta. O esci e chiudila lo stesso.»
Adriano entra e chiude. Sullo schermo del computer scorrono le immagini della sconfitta di poche ore prima. Poco da fare: sono esseri umani, tutti, e sono stanchi. Zlatan non è in perfetta forma, Mario è ancora in riabilitazione - e José, per quello che gli importa, lo butterebbe volentieri fuori dalla squadra; anzi, a conti fatti, l’ha spedito in un pensionato e meno lo vede più è contento. Sapesse dove in realtà dorme e vive il ragazzino, probabilmente andrebbe fuori di testa - e lui è ancora fuori squadra per la terza partita di fila. Il Milan, oltretutto, non è il Parma. È appunto il Milan. José ha sperato fino all’ultimo di poter ribaltare quell’uno a zero - per grazia divina, probabilmente - ma non ci si può sempre appellare alla fortuna. Stavolta, comunque, non ha funzionato per niente.
«Si diverte, Mister?» chiede con un mezzo ghigno, lasciandosi andare seduto sulla sua branda. José lo degna appena di uno sguardo.
«Affatto» risponde, «Sto guardando lo sfacelo assoluto di cui ci siamo resi protagonisti oggi, se non te ne sei accorto.»
Adriano scrolla le spalle.
«Non ho responsabilità, per la sconfitta di oggi.»
José si alza con uno scatto e lo fronteggia duramente.
«Ce l’hai, invece» gli fa notare acido, «Ce l’hai eccome. Se non fossi andato in giro a scopare, se non ti fossi reso colpevole del ferimento di Mario, a quest’ora noi saremmo primi con dieci fottuti punti di distacco, io sarei felice ed allora sì che nessuno avrebbe responsabilità, Adriano. A queste condizioni, invece, la responsabilità di questa disfatta ce l’hai eccome.»
Il brasiliano sostiene il suo sguardo scintillante senza fare una piega. José si sarebbe aspettato di vederlo capitolare - soprattutto dopo aver citato ciò che è successo a Mario: sa che Adriano non se l’è ancora perdonata e probabilmente non ci riuscirà mai - e perciò vederlo rimanere lì tranquillo, le mani pendenti fra le gambe semidivaricate ed i gomiti mollemente appoggiati contro le cosce tornite e potenti lasciate quasi del tutto scoperte dai pantaloni corti, lo lascia letteralmente con un palmo di naso.
«Rimettimi in squadra, José.»
«No.»
Adriano sospira.
«Ostinato. Vuoi che perdiamo tutto quel po’ di vantaggio che ancora ci resta?»
«Quello che vorrei» lo apostrofa duramente José, «è una squadra di gente corretta e responsabile. E rispettosa. Con spirito di sacrificio. E invece» si agita stizzito, muovendo qualche passo all’interno della stanza, «E invece mi ritrovo circondato da incompetenti capricciosi e volubili! Teste di cazzo che non sanno cosa voglia dire tacere e comportarsi con rispetto! Persone come te, gente- gente che esce di notte e scopa con chicchessia, e poi ci si meraviglia se perdiamo terreno! Sai cosa? Io non mi meraviglio affatto!»
Adriano lascia andare quello che sembra l’ennesimo sospiro da quando è in quella camera, e si alza in piedi. Si muove lentamente verso José, e solo quando gli si ferma davanti e lo guarda dall’alto dei quasi dieci centimetri abbondanti che li separano si rassegna a guardarlo negli occhi, con una risolutezza che lascia José quasi senza fiato.
Quel poco che resta del suo respiro si annulla completamente fra le labbra di Adriano, quando il brasiliano lo afferra prepotentemente per le spalle, avanzando fino a schiacciarlo contro la parete e schiacciarsi contro di lui, aderendo perfettamente ad ogni centimetro del suo corpo.
«Rimettimi in squadra» gli ripete Adriano, e il suo fiato caldo gli accarezza la pelle mentre le labbra scendono lungo il collo, oltre il tessuto leggero della camicia. José guarda indifferente un punto imprecisato oltre la spalla dell’altro uomo, le labbra strette in una smorfia tesa, ma di quelle labbra piene addosso aveva quasi dimenticato l’effetto, e fa un po’ fatica a trattenere il fiato senza sentire il bisogno spasmodico di spalancare la bocca, inspirare quanta più aria possibile e poi baciarlo fino a stordirlo del tutto.
«Col cazzo, Adriano. Non è così semplice.»
Lui gli ride addosso, socchiudendo gli occhi. È tanto vicino che le sue ciglia lunghissime gli solleticano la pelle.
«Non l’ho mai pensato.»
«E allora questo cos’è?» chiede José con uno sbuffo infastidito, cercando di riportarsi in una posizione di vantaggio. Adriano non glielo permette e si schiaccia con più decisione contro di lui, un ginocchio piantato fra le sue gambe a strusciare con falsa noncuranza contro la sua erezione già dolorosa.
«Il mio modo di chiedere scusa per tutte le responsabilità che ho, immagino.»
È l’unica risposta che il brasiliano gli concede, prima di spogliarlo.
Le sue mani gli scivolano addosso con navigata maestria, e José chiude gli occhi, lasciandosi - per una volta - trasportare dal flusso. Mentre Adriano scende ad accarezzarlo fra le natiche - le punte delle dita umide di saliva - non può fare a meno di pensare a quanto tutto questo sia diverso da quello che ha vissuto con Zlatan. C’è, nei gesti di Adriano, una meccanicità che non c’entra niente con la spontaneità assoluta dei movimento di Zlatan. Che è sempre stato una puttana, d’accordo, ma con lui è stato diverso. Gliel’ha detto, e gliel’ha detto perché era vero.
Adriano lo tocca, lo accarezza, lo prepara, entra dentro di lui. E non lo fa di malavoglia, non lo fa senza eccitazione. Lo vuole anche lui, lì, contro quel muro, è preso e lo bacia lungo il collo, sulla nuca, sulle spalle, ma non è come Zlatan.
Non è come Zlatan.
Non è come sentirsi addosso le sue mani, non è come sentirsi dentro il suo cazzo, non è come sentire tutto intorno il suo odore.
È la prima volta che José si ferma a pensarci. E gli sembra improvvisamente di capire cosa intendesse Zlatan, millenni fa, su quel divano, abbandonato fra le sue braccia. Gli sembra di capire cosa intendesse con quel “per me tu non sei stato come tutti gli altri”. Perché neanche per lui Zlatan è stato come tutti gli altri. E se ne sta rendendo conto adesso.
Ride a bassa voce. Non sta nemmeno scopando con lui.
Adriano ride assieme a lui, lasciandogli un bacio sulla spalla ed aumentando il ritmo delle spinte in contemporanea con quello delle carezze.
«Adesso ti diverti, Mister?» chiede ironico. José gli tira uno schiaffo contro una coscia e continua a ridere, spingendosi contro di lui in maniera così improvvisa e violenta che Adriano non riesce a trattenere un ansito strozzato.
«Parla di meno» lo rimbrotta quindi, voltandosi a cercare le sue labbra per un bacio umido e breve, «e muoviti di più.»
Adriano gli morde con forza il labbro inferiore ed obbedisce. Poi sorride.
«Lo terrò presente anche quando mi rimetterai in campo, per la prossima partita.»
José sorride a propria volta.
«Sarà meglio.»
* * *
Marco trattiene il fiato e, con esso, anche la risata che preme insistentemente per sfuggirgli dalle labbra. Si allontana lungo il corridoio silenzioso ed elenca mentalmente la quantità indecente di persone alle quali dovrà andare a far visita adesso. Ci si diverte così poco, in ritiro. A cosa può aggrapparsi un uomo, per non morire di noia quando non ha la sua donna fra i piedi, se non al pettegolezzo?
TBC...