Fic: Dettaglio Nord (Lights will guide you home).

Jan 25, 2010 23:35

Titolo: Dettaglio Nord (Lights will guide you home).
Autore: janetmourfaaill. (lachesilie)
Beta: Na.
Fandom: RPF - FC Barcellona/Inter FC.
Personaggi e pairing: José Mourinho, Zlatan Ibrahimović, Pep Guardiola.
Rating: VM17.
Warning: Slash, angst, What if.
Word count: 4554. Segue risata isterica.
Disclaimer: Non è vero niente, tutto a vanvera.
Note: Prima Jobra, yay. Intrò rapida: il tutto avviene qualche giorno prima della partita contro il Bilbao, ossia la prima giocata da Zlatan al Barça. Ma tanto è una WI, quindi chissenefrega, facciamo approdare gli alieni.
Credits ai Colplay per "Fix You". Roba partecipante al p0rn fest @ fanfic_italia con il prompt: RPF Calcio (FC Barcelona/Inter FC), José Mourinho/Zlatan Ibrahimović, Dettagli.



Dettaglio Nord
(Lights will guide you home)

Gli è sempre piaciuto rimanere in silenzio sdraiato accanto ad Helena, avvertendo il peso del suo capo sul petto e ascoltando i propri respiri divenire regolari dopo aver fatto l'amore con intensità ed esigenza.
Carezzarle il capo distrattamente e inspirare, sereno; gli occhi socchiusi e le lenzuola fresche ad avvolgere gambe, braccia e caviglie come un abbraccio forse un po' troppo stretto, mentre fuori il sole è già alto e i loro ansimi non pretendono più di essere i soli a smentire un tiepido silenzio mattutino.
Ha quasi paura di parlare e anzi si è già convinto a non farlo, quando Helena lo precede. - Dopo la partita di domani riparti di nuovo. - Il suo tono non suona né risentito né tanto meno triste; essere la sua compagna comporta una serie di conseguenze, una tra le tante quella di non poter passare ogni singolo giorno della loro vita assieme, e lei ne è ormai così consapevole da riuscire a dare alla sua affermazione addirittura una nota ilare.
Zlatan sorride mestamente pur sapendo che lei non può vederlo, sollevato dalla leggerezza con cui si è appena rivolta a lui. - Ho fatto promettere a Maximilian di aiutarti a preparare la colazione per tutti e tre, la mattina. La scorsa volta ci ha pensato Vincent, non mi pareva giusto che l'ometto maggiore di casa se ne restasse con le mani in mano. -
Helena sorride contro il suo petto, depositandovi un breve bacio. - Oppure finiremo per fare colazione per strada, come sempre, con una brioche in mano e una manciata di minuti in ritardo, tanto per non smentirci. -
Zlatan si sposta un po' in avanti, abbassando il volto in modo da poterla guardare negli occhi. - Questa non la sapevo. - Inarca un sopracciglio, stupito all'idea che la sua famiglia quando lui non c'è sostanzialmente batta la fiacca.
- Ci sono un sacco di cose che ti sfuggono, quando non ci sei. Per forza di cose. - Helena sussurra appena, con dolcezza, prima di restituire quello sguardo diretto con una complicità tutta femminile. - Manchi per un po' e perdi la bussola, è normale. -
Da quando era ragazzino Zlatan ha imparato a convivere con la consapevolezza di non essere una persona con le idee chiare. O meglio; lo è, ma ci sono quei momenti in cui l'idea di avere qualcuno a proprio carico - i suoi fratelli, in passato, i suoi figli e sua moglie al presente - lo destabilizza.
Ci sono attimi in cui vorrebbe tornare ad essere lui e solo lui con i propri disagi e i propri vizi da tenere solo per sé, per non provare più quella sensazione di vuoto nelle viscere al pensiero di starsi perdendo qualcosa d'importante e di starci dando anche eccessiva importanza, oltretutto. È sempre stato un padre presente e innamorato della propria famiglia, ma gli capita ancora, ogni tanto, di sentirsi troppo appesantito da ciò che sa di non poter fare con la facilità di qualunque altro padre per vivere ciò che ha con la dovuta gioia. Ma sono solo attimi.
- Sono già quasi le dieci. Tra meno di un'ora Alicia passa a prendere i bambini, devo andarli a svegliare o faranno tardi. - Helena decide di cambiare argomento perché, anche se nessuno dei due pare a disagio per alcun motivo, preferisce passare ad altro prima che un momento placido come quello possa venire inondato da sensi di colpa inopportuni o discussioni spiacevoli. Gli sorride ancora, scostando le coperte e gettandosi addosso la vestaglia.
- Caffè? -
Per un istante - uno solo, brevissimo e sfuggente - Zlatan sente che a quella scena manca qualcosa.
Qualcosa di infinitesimale, tanto che a malapena si rende conto di starcisi soffermando sul serio, su quel pensiero.
Un dettaglio.
Se ne sta per un poco in silenzio, massaggiandosi le tempie, poi si volta a guardarla sorridendo a sua volta e annuendo piano. - Grazie. -

***

- Mister. -
Tutti si voltano verso di lui e poi si guardano tra loro, in silenzio, prima di riprendere a vestirsi più velocemente e lasciare lo spogliatoio con l'indifferenza di chi abbandona il campo dopo il primo tempo di una partita dignitosa, in cui ci si sente di aver dato il massimo per quanto possibile.
Nonostante sia loro compagno da poco meno di un mese, hanno già imparato a riconoscere il significato di quel particolare tono di Zlatan; ha un che di arrogante e di autoritario, solitamente accompagnato da uno sguardo diretto e imperturbabile, quasi al voler aggiungere all'unica parola proferita un'infinità di sfumature che probabilmente nessuno è in grado di cogliere a fondo a parte lui stesso.
Persino Pep ci ha fatto l'abitudine, anche se lo detesta, così come detesta quella sua smania di far sentire tutti a disagio perché lui in persona con scettro e corona ha deciso in quel preciso momento di impuntarsi su chissà che cosa - in realtà sa benissimo qual è il problema, ma preferisce obbligarsi ad ignorarlo - e quindi pace al resto del mondo, Zlatan Ibrahimović deve dire la sua e anche in fretta.
Pep non è esattamente quel tipo d'uomo accomodante e pacifico, anche se all'apparenza così sembrerebbe; innanzitutto, detesta le primedonne, che siano in vesti di calciatori o di ragazzine pon-pon. Perciò quel preciso tono mezzo offeso e mezzo sprezzante con lui non attacca, ma neanche un po', e anzi è anche lievemente incazzato perché il resto della squadra si è defilata all'istante conferendo a quel momento un'importanza che lui per primo non ha alcuna intenzione di attribuirgli.
Bojan ha persino dato una pacchetta sulla spalla al compagno, ma insomma, cosa diavolo pensano che sia, un incontro di boxe?
- Ho intenzione di tornarmene a casa in cinque minuti, Zlatan. Perciò dimmi quel che mi devi dire in due minuti e mezzo, così me ne rimangono altrettanti per prendere giacca e borsone e sparire. E ringrazia, che di norma ti concederei al più una decina di secondi. - Solleva lo sguardo su di lui, incolore.
Zlatan fa una smorfia, giusto il tempo per far sì che la freddezza nei propri occhi divenga semplice capriccio. - Perché non gioco, domani? - Lo chiede quasi con indifferenza, ora, passandosi una mano tra i capelli con studiata noncuranza.
Pep non sembra stupito dalla domanda, anzi, ha tutta l'aria di esserselo aspettato dal primo istante ed è per questo che la sua espressione non varia minimamente. - Perché non vuoi. -
Zlatan sbatte velocemente le ciglia, confuso. - Io voglio giocare. - Ribatte immediatamente, tornando serio, quasi al voler rimarcare le sue rispettabilissime posizioni iniziali. Pep scuote il capo, tranquillamente, stavolta senza ricambiare lo sguardo accusatorio e anzi scrollando le spalle. - No, non vuoi. È una settimana che non vuoi, è una settimana che devi ma non vuoi. Nulla da eccepire riguardo l'impegno e gli allenamenti, ma domani non vuoi giocare e se non ne hai voglia tu puoi immaginare quanta ne ho io di vederti in campo con la consapevolezza che non darai un decimo di quanto daresti in altre occasioni. - Parla tutto d'un fiato, la voce senza alcuna sfumatura o alterazione, quasi come quella di un giornalista con trent'anni di esperienza sulle spalle e una discreta voglia di andarsene in pensione una buona volta. - Domani tu non giochi. Riga. -
- Ma è ridicolo! - Zlatan finalmente scoppia, sferrando un pugno a un armadietto e facendo trasalire Pep, il quale serra gli occhi fermamente salvo poi riaprirli piano, senza riportare alcun segno di turbamento. - Questo è il mio esordio, cazzo, cosa significa che non voglio giocare? Cos'è, uno scherzo? Beh, non è divertente. -
Pep è rigido e lo fissa senza mostrarsi minimamente toccato da quell'atteggiamento dispotico. Lascia passare qualche secondo prima di rispondergli, pacato ma gelido. - In primo luogo; qui le decisioni le prendo io. Che siano stupide o meno non m'interessa, che io abbia ragione o meno non m'interessa, che a te stia bene o meno non m'interessa. E in secondo luogo i tuoi due minuti e mezzo sono finiti. Spegni la luce quando te ne vai. -
Zlatan boccheggia, allucinato. - Ma non ho finito. -
Pep quasi gli scoppia a ridere in faccia; il suo tono suona come quello di un bambino davanti a un piatto di broccoli al posto del gelato promessogli. Anche l'espressione è quella, afflitta ma al contempo spiazzata, accigliata.
- Sei un ottimo giocatore e stai dando il meglio, Zlatan. - Prende in spalla il borsone, rivolgendogli un'occhiata eloquente. - Però ti manca qualcosa. Non lo so che cos'è, non so nemmeno se lo sappia tu. Qualsiasi cosa sia domani ti impedirà di esserci al cento per cento e io so che non lo tollererei, non lo tollereresti neanche tu. Sei uno svedese dannatamente orgoglioso, lo sai che non te lo perdoneresti. - Rimane fermo un poco, incerto sul da farsi, vedendo Zlatan immobile in mezzo allo spogliatoio, il viso per metà oscurato e un'espressione indecifrabile. Esita, prima di riprendere - Un buon allenatore questo tipo di cose deve percepirle e deve agire di conseguenza. Fattene una ragione. -
Zlatan non risponde e non dà segni di averlo ascoltato, non si volta quando l'uomo accenna ad andarsene e nemmeno quando la porta si chiude e capisce di essere rimasto solo.
Prende a respirare in modo irregolare, le sopracciglia aggrottate e ogni muscolo teso dalla rabbia e dalla pressione che si sente addosso, all'improvviso, come se la terra si fosse catapultata in un momento.
Un altro pugno al medesimo armadietto, poi si appoggia ad esso, stremato, la fronte calda che con quel freddo contatto brucia ancor più di prima.

Prima di farlo entrare in campo, prima di farlo uscire, prima degli allenamenti o di un'amichevole, prima di qualsiasi avvenimento che lo coinvolgesse in quanto giocatore dell'Inter e in quanto essere umano, José Mourinho adottava atteggiamenti ben particolari e definiti che col tempo Zlatan aveva imparato ad associare alla sua persona come a una nuvola grigia si associa il presagio di pioggia o a un vento tiepido l'arrivo della primavera.
Che fossero parole, che fossero sguardi, che fossero gesti; c'era abitudine e c'era quella noncuranza a cui nessuno dei due credeva ma che faceva comodo ad entrambi, perciò semplicemente lasciavano stare e fingevano che tutto fosse naturale, com'era naturale esultare dopo una rete clamorosa o imprecare a un'occasione non sfruttata.
Zlatan si era abituato all'idea di iniziare una partita solo dopo essersi fatto sgridare a dovere da lui. Sgridare o strigliare, o anche solo sentirsi farfugliare qualcosa addosso dal dubbio senso, era pur sempre qualcosa; così scendeva in campo con quelle parole sconnesse nella mente, portandosi dietro l'espressione burbera di José e i suoi commenti acidi con la consapevolezza di meritarseli tutti - o forse no, ma non importava.
Erano frammenti di confidenza sparsi tra un giorno e un altro, reticenti passi in avanti che col passare dei mesi erano andati a formare un rapporto basato tutto sommato su piccolezze. Piccoli dettagli.
Una pacca sulla spalla prima di farlo entrare, quasi a fine partita, perché a lui pareva che fosse giusto così e gli bastava guardarlo di sfuggita per dargli a intendere di tenersi pronto; non una pacca veloce, bensì un appoggiare la mano su di lui in modo da trattenerlo per brevissimi istanti, quel tanto che bastava per percepire il suo stato d'animo e dargli a intendere il proprio. E quelle occhiaia profonde intorno agli occhi scuri, penetranti, prima di girarsi dall'altra parte e concentrarsi sulla partita senza più degnarlo di attenzione alcuna fino alla fine.
Era diventato abitudine mandarlo a cagare dopo aver discusso a fine allenamento, senza un motivo reale, così come era diventato abitudine guardarlo dritto in viso appena prima di cominciare a giocare, riservando a lui solo l'ultimo sguardo lucido che non preannunciava né vittoria né sconfitta, ma solo la garanzia di esserci in tutto e per tutto e di impegnarsi come entrambi sapevano che riusciva a fare.
Ed era diventato abitudinario andargli incontro e abbracciarlo, stringere i pugni attorno a lui e se necessario percuotergli la schiena con forza perché avevano vinto o avevano perso e lui aveva bisogno di qualcuno a cui aggrapparsi per non dover sostenere tutto da solo, anche solo per qualche istante, per poi tornare sui suoi passi e allontanarsi con indifferenza senza dare segni di aver dato alcuna importanza alla cosa.
Per non doversi portare il peso di tutto lui e solo lui, per non sentirsi senza bussola un'ennesima volta. Non capiva come mai riuscisse a trovare conforto in ramanzine o parole agri, in urla e rispostacce, non lo capiva. Non capiva perché ogni giorno che passava il suo bisogno di sentirsi riversare addosso la sua scontrosità aumentasse, né capiva perché a sua volta riversasse la propria, di scontrosità, su José, senza che quest'ultimo battesse ciglio.
Era diventato maledettamente facile finire col contare su di lui, affidandosi al suo temperamento instabile e alla sua arroganza, come un punto fermo in mezzo a tutto il resto - un vortice continuo e frenetico, continuo e frenetico, per quanto stimolante non cessava di essere continuo e frenetico.
Zlatan inspirò profondamente, rimanendo in silenzio.
La stanza era buia e pervasa dal loro odore, coperte impregnate di sudore e non scostate di lato, nonostante il caldo, perché allontanarle avrebbe significato allontanare anche il ricordo di poco prima.
José al suo fianco non stava dormendo nonostante respirasse regolarmente - perché quando dormiva i suoi respiri erano meno pesanti, come tamponati, appena accennati. Lo sapeva, Zlatan, quando stava dormendo e quando era sveglio. Erano dettagli, ma lo sapeva.
- Credo siano già le dieci. - Poggiò la testa al muro, la voce roca come se non avesse aperto bocca per giorni e giorni. La risposta di José tardò un po' ad arrivare, giusto il tempo di dargli a intendere quanto poco gli fregasse dell'orario in quel preciso momento. - E allora? - Anche la sua voce era roca ma aveva una sfumatura più cupa, distante, quasi come se si fosse ritrovato a condividere il letto con qualcuno di ben poco gradito.
Rimasero in silenzio per minuti e minuti prima che la voce di José risuonasse ancora, bassa, questa volta con una distinta nota di stanchezza. - Oggi hai giocato di merda. -
- Lo so. - Zlatan gli aveva risposto all'istante, senza aspettare nemmeno la fine della frase.
Lo sapeva.
Si sdraiò di nuovo al suo fianco ma senza sfiorarlo, gli occhi puntati sul soffitto per non dover affrontare le sue labbra increspate, la sua fronte aggrottata e un'espressione che - lo sapeva - lo avrebbe ghiacciato dentro.
- José. - Lo disse piano, il tono involutamente sofferto e un sospiro ad accompagnare quella sua unica parola quasi come al volerla cullare, domare, trattenere. Non attese una risposta, riprese a parlare con la medesima sofferenza senza riuscire a fare altrimenti. - Fai l'amore con me, adesso. -
Non voleva andare a letto con lui. Voleva farci l'amore, per riuscire a dargli a gesti quanto non riusciva a dargli a parole. Non glielo avrebbe mai detto, che l'amava; erano dettagli non richiesti, erano parole da non pronunciare, erano un'infinità di sentimenti da non sprigionare.
José inspirò profondamente con esasperata lentezza, prima di voltarsi sul fianco e poggiare la propria fronte contro la sua, esangue. - Poi però sparisci dalla mia vista. - Non era umanamente possibile districarsi in quella voce impastata da rabbia, risentimento, dolore e commozione. Zlatan in quel momento fu certo di aver conosciuto la sofferenza - non qualcuno che soffre, non un momento sofferto. La sofferenza.
Erano vicinissimi eppure faceva freddo, nemmeno i loro respiri riuscivano a riscaldarli. - Promesso. - Piano, pianissimo, il suo era stato un sussurro soffocato e José non gli aveva dato il tempo di finire, era già sulla sua bocca e poi su tutto il suo corpo, baciandolo e carezzandolo con uno strazio senza eguali.
Lingua contro lingua e le mani ovunque, baci al limite di una foga che non riconoscevano ma che in quel momento aveva la meglio sull'esperienza, così come le loro parole dette a metà e quei brividi persistenti, opprimenti. Le mani di José erano scese ad accarezzargli il bacino mentre con la lingua aveva preso a tracciare scie umide sul collo, respirando affannosamente contro la sua gola.
Zlatan con una mano si era ancorato a lui, mentre l'altra era scesa in basso per coprirgli l'erezione e stuzzicarla con le dita, piano, in un moto che estenuava lui per primo. Distaccò il volto dal suo, sebbene a fatica; gli depositò piccoli baci sul petto e sul torace, imponendosi di non farsi prendere dalla foga, fino a spingere la lingua più volte all'interno dell'ombelico con una pigra insistenza che - poteva sentirlo - lo stava facendo fremere violentemente.
Si trascinò ancora più in basso portando le labbra attorno al suo sesso e cominciando a premerle con ritmi alternati su quella pelle delicata, sensibile, mentre sopra di lui José ansimava e affondava le dita tra i suoi capelli; porpora ad annebbiare lo sguardo di entrambi e quel buio racchiuso intimamente attorno a loro come una coperta invernale - sentivano freddo e caldo, freddo e caldo, freddo e caldo.
Le mani di José sul capo del ragazzo lo invitavano a proseguire con quel ritmo e ad aumentare esponenzialmente, accompagnando quelle richieste a versi impastati di piacere e violenti brividi.
- Ti prego. - Digrignata, supplicata, quella preghiera. Zlatan si allontanò da lui appena prima di sentirlo venire contro la sua spalla; attese qualche secondo per riprendere fiato - le unghie piantate sulle scapole, ma era un dolore che non feriva - per poi risollevarsi e baciarlo ancora, possessivamente e senza riuscire a trattenere tutta la commozione che quel momento gli stava trasmettendo.
- Io me ne andrò. -
- Lo so. - Sospiri lenti, mentre José si premeva contro di lui costringendolo a girarsi, mentre con entrambe le mani stimolava la sua erezione. - Vattene per davvero. - Un sussurro prima di entrare in lui con una dolcezza che smentiva quelle parole amare, le proprie dita strette attorno a lui alternando spinte a carezze e gemiti a mugolii.
- Se te ne vai, vattene sul serio. - Avevano entrambi respirato profondamente dopo l'aumentare delle spinte; Zlatan aveva serrato gli occhi poggiando le proprie mani su quelle di José e scandendo un ritmo più calzante, mentre poteva sentirlo dietro di sé muoversi sempre con maggiore velocità.
- Non... - Gli si spezzò la voce, sentendo José sferrare un'ultima liberatoria spinta e venendo a sua volta tra le sue mani, stremato e appagato come poche altre volte. Tutti i muscoli del corpo si distesero contemporaneamente, facendo sì che entrambi si accasciassero sul letto uno sopra l'altro, il fiato corto e gli occhi semichiusi.
Se te ne vai, vattene per davvero.
Rimasero in silenzio fronte contro fronte, poi José si rotolò su un fianco e si spostò di lato, prendendo le distanze per respirare meglio.
Il loro odore aveva completamente impregnato l'ossigeno, così a entrambi parve di essere ancora l'uno contro l'altro per quanto intensa era quella sensazione; e non c'erano più conti da pagare né frasi da rivolgersi, nulla da aggiungere alla confusione dei loro pensieri e al turbamento di quei momenti.
José parve sul punto di dire qualcosa; si trattenne per un poco, poi parlò. - Oggi hai giocato di merda. - Una risata nervosa seguì quell'affermazione, prima che la voce di Zlatan risuonasse ancora nella stanza, calda e profonda. - Guarda che me l'hai già detto. -
- ...però hai recuperato. -
Un sorriso complice accompagnato da altre risate, liberatorie e aperte, quasi da ragazzini. - Avevi detto che una volta finito sarei dovuto sparire dalla tua vista. - Non l'aveva detto con tristezza o risentimento, l'intonazione era quasi musicale, fresca, ringiovanita dalla serenità che pareva essersi appena creata.
- Infatti. - José si tirò su coi gomiti, afferrandogli la nuca e baciandolo velocemente, prima di alzarsi dal letto. - Vado a fare un caffè, così tengo fede al mio intento. - Gli rivolse un'occhiata divertita e irriverente, prima di sollevare un sopracciglio alla vista della sua impeccabile nudità. - Se non sbaglio non avevo aggiunto un “per sempre” in fondo alla frase, no? -
Zlatan scosse il capo in un movimento pigro quanto provocatorio. - No, non l'hai aggiunto. -
- Ottimo. - José si mise in vestaglia, poggiando una mano sul pomello della porta e stiracchiandosi.
Ridere davanti a una separazione così definitiva poteva essere una buona arma. Anche dopo tutto quello che si erano detti o avevano tentato di far capire l'uno all'altro. Ridere era una soluzione come un'altra, in fin dei conti.
- Caffè? - Ora José lo guardava con occhi quieti, il dolore di poco prima oscurato da quelle occhiaia e a quel sospiro regolare. - Lo vuoi o no, zingaro? -
L'ennesimo sorriso sgangherato da parte di entrambi - la porpora non c'era più ma era rimasto il chiarore nelle rispettive iridi, quel luccicare continuo tra un battito di ciglia e un altro.
Un rapido annuire, prima di rispondere sommessamente ma con intensità. - Grazie. -

Zlatan apre gli occhi, rendendosi conto di aver ripreso a respirare regolarmente e di non avere più i pugni chiusi appoggiati contro l'armadietto.
È solo nello spogliatoio ma sembra rendersene davvero conto solo ora, in mezzo a quel silenzio che fino a pochi istanti fa era soltanto cornice fatiscente dei suoi nitidi ricordi.
Si alza in piedi e ci mette un po' a riprendere l'equilibrio, si sente come se non camminasse da giorni e giorni. Rimane fermo lì dove si trova, gli occhi fissi sul pavimento e la gola riarsa; lascia che il silenzio lo catturi del tutto per qualche minuto, la mente non più concentrata né sul presente né su quanto era intento a ricordare poco fa.
Quando finalmente prende in mano la borsa dal suo sguardo è scomparsa qualsiasi traccia di incertezza: le mani sono ferme e il passo deciso mentre si avvia verso l'uscita per poi spegnere la luce, lasciandosi alle spalle uno spazio vuoto e buio ad assorbire quanto di sé si è lasciato alle spalle.

***

Ogni giorno, ovunque, c'è qualcuno che si sveglia al mattino e rivolge lo sguardo fuori dalla finestra: in petto emozioni contraddittorie che non si sanno esprimere e che il più delle volte rimangono lì dove sono, tra quella e quell'altra speranza, incatenate a desideri e sangue.
Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni istante, qualcuno sente la mancanza di qualcosa. Di una presenza, di una frase, di un abbraccio, di un ansimo, di un letto in cui fare l'amore, di quello stesso amore dato per disperso. Ci sono direzioni da prendere per lasciarsi portare da un canto o dall'altro e ci sono quei dettagli che mancano, nel proprio percorso, ma di cui si deve imparare a fare a meno.
Zlatan ha dormito quasi otto ore, questa notte, il che per i suoi standard è quasi un miracolo; ha fatto colazione con Maximilian, Vincent ed Helena, ha dato un bacio ad ognuno di loro e poi è uscito di casa. In bocca ancora il sapore del caffè bevuto poco prima, amaro al punto giusto e a cui - ne era convinto - non mancava nulla.
Non mancava nulla.
Raggiunge i suoi compagni in spogliatoio senza fretta alcuna, dopotutto mancano ancora quasi due ore.
Non si veste, non ancora; rimane fermo in disparte in attesa che arrivi il Mister, sorridendo a qualche battuta stupida di Lionel e sorridendo a Bojan, anche se un po' in ritardo, in un modo che capiscono solo loro due e che agli altri sfugge - come sfuggono tante altre cose in tante altre occasioni, ma va bene così.
Le bussole non servono per guidare verso Nord. Le bussole servono ad orientarsi.
Il Nord è un punto di riferimento, non è sempre una meta. Una volta indicato è più semplice trovare la propria direzione; basta sapere dove si trova, non importa seguirlo.
Sapere qual è il proprio Nord serve per riuscire a vivere senza perdersi per strada. Ovunque si voglia andare e a qualsiasi condizione. Il Nord non è sempre una destinazione.
- Mister. -
Tutti si voltano verso di lui, ma questa volta il suo tono è temperato, deciso, senza alcuna traccia dell'arroganza del pomeriggio precedente.
Bojan sorride appena, tra sé e sé, infilandosi la maglietta.
Lui gli aveva chiesto di andarsene per davvero, solo ora capisce che cosa aveva voluto dire.
Pep Guardiola alza lo sguardo sullo svedese, calmo, benché lievemente stupito da un simile contegno. Non dice niente, continua a guardarlo negli occhi con fermezza, attendendo che sia lui a parlare.
- Io oggi voglio giocare. -
Pep si acciglia, sentendolo parlare in spagnolo. Il suo accento è pessimo, ma è la prima volta che lo sente rivolgersi a lui nella sua lingua e non in inglese, rifiutandosi di calarsi del tutto nella realtà di quello che adesso era anche il suo paese. - Voglio giocare per me. - Lo sottolinea portandosi una mano in mezzo al petto, la voce così profondamente convinta e consapevole da far calare un silenzio inverosimile attorno a loro.
L'uomo lo squadra attentamente, senza riuscire a dire nulla.
Si passa entrambe le mani sul volto, sorridendo mestamente, per poi rivolgersi a lui con l'autorevolezza che quell'imposizione - no, quella constatazione - gli richiedeva.
- Metete esta maldita camiseta, hombre. (*) -

- Pronto? -
- Sono io. -
- ...Zlatan? -
- Zay, questa sera guarda la partita. -
- Zlatan, non è esattamente il momento più opportuno, sono in mezzo al traffico, a piedi, non sento nient... -
- Ti ho detto di guardare la partita, stasera. La p-a-r-t-i-t-a, José. -
- Eh?! -
- Guarda la fottuta partita di stasera, portoghese del cazzo! -
- Ma smettila di urlare, non sento comunque! Aspetta che cerco di... -
- Guarderò a Nord, José. -
- Che cosa? Te l'ho detto, non sento nulla, cos... Non avrai messo giù spero. Zlatan? -

È quasi sollevato in aria, accalcato sui suoi compagni e tempestato da gomitate, manate e imprecazioni gioiose per il punto appena segnato.
Abbraccia saldamente chiunque gli sta attorno senza nemmeno badare a chi sia e a cosa gli stia dicendo; istintivamente urla qualcosa in italiano, in uno slancio liberatorio, nessuno pare farci caso e da un lato preferisce che sia così.
Sente l'attrito dell'aria contro il proprio volto mentre corre incontro agli altri compagni ancora da abbracciare e a cui urlare addosso qualcosa di sconnesso, insensato, ma a suo modo riconoscente. Braccia attorno alle schiene di tutti loro tra volti raggianti e cori che risuonano in tutto lo stadio.
Tra tutti quei corpi e quell'euforia, tra un fiatone e l'altro, lui tiene lo sguardo puntato in avanti, deciso.
Un sorriso a increspargli le labbra e l'espressione distesa, soddisfatta, felice.
Lontano miglia e miglia, ma anche lui ha il suo Nord.
Continuare il suo nuovo percorso verso est, ora, fa un po' meno paura.
I pugni alzati in aria e gli occhi diretti verso un uomo dal lungo cappotto nero e la fronte aggrottata - ma un sorriso sghembo, nonostante tutto - proprio davanti a sé, dall'altra parte del campo.
Ha fiato in corpo solo per urlare nella sua direzione, tra applausi e urla, lì dove non c'è nessuno e al contempo c'è il suo tutto.

Note:

Allora, giusto in caso: il corsivo sta a indicare uno sbalzo temporale, in questo caso si è trattato dell'ultima volta di José e Zlà.
Per quanto riguarda la telefonata, ovviamente - ? - è stata fatta prima della conversazione con Pep la mattina della partita.
Tutto bello confuso, sennò cosa scrivo a fare.

(*) E mettiti 'sta dannata maglietta, su.

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