Eccezionalmente su questi lidi (e solo perchè ho intenzione di rimodernare il mio archivio, sappiatelo ;) ) ecco la mia storia per il
minicest_ita!
Titolo: The moths' wings
Fandom: RPF musica (Kamelot / Epica / Conception)
Personaggi: Roy Khan, Simone Simons e più o meno tutti i componenti delle band
Pairing: Roy/Simone, più altri pairing accennati
Rating (del capitolo): PG13
Conteggio Parole: 12.388 (Word)
Warnings: Alternate Universe, Age Difference, Het, Incest, Underage... Non guardatemi così male, per piacere, lo so.
Riassunto: Roy Khan, ventisette anni, è il frontman un po’ troppo esuberante di una band norvegese che ha appena cominciato ad avere successo; a tempo perso lavora come barista e cameriere al Kamelot, locale di Oslo più o meno particolare, e pensa a far funzionare la sua vita. Questo pseudo equilibrio rischia di saltare quando Simone, la sorellastra che non vede da undici anni, torna in Norvegia con la famiglia e, dopo le iniziali incomprensioni, decide di riallacciare i rapporti con lui. Tra un gatto mefistofelico, una convivenza e parole non dette, tutto quello che Roy e Simone possono fare è vedere il proprio legame diventare più stretto e prendere una piega che loro stessi non si sarebbero mai aspettati.
Gifter:
kuroi-nezuLink al gift:
fanmix(Consiglio da amica? Fregatevene della storia e scaricatevi il fanmix; non ve ne pentirete :) )
The moths' wings
Sense the purity
of your own mind, child
Such an innocence
not yet caught by
judging eyes
Don't touch me, little seed
Cause I'll betray you
(Soliloquy - Conception)
Con l’arrivo delle sere estive, quando era molto piccolo, Roy rimaneva seduto accanto alla finestra aperta del soggiorno. Rimaneva così finché suo padre non gli diceva di andare a letto oppure fuori diventava tutto troppo buio per riuscire a distinguere qualcosa. Tornava in camera sua ad ascoltare i dischi che mamma aveva dimenticato quando se n’era andata e che lui aveva nascosto sotto il letto per paura che papà li buttasse via. Ascoltava Elvis, i Beatles, e cercava di ricordare mamma mentre cantava quando preparava la cena. Non sapeva perché se n’era andata. Forse sarebbe tornata e lui le avrebbe ridato i dischi. Mamma sarebbe stata orgogliosa di come li aveva tenuti bene mentre lei era via.
In quel periodo papà teneva sempre accesa una lampada sospesa proprio sopra l’ingresso, nel caso fossero arrivati degli ospiti. Era quella che Roy guardava, quando si metteva accanto alla finestra. Le falene si avvicinavano alla luce e ci volavano attorno come ubriache, forse cercando di capire cosa poteva essere quella strana cosa luminosa che avevano davanti. A volte si avvicinavano troppo. Lui sentiva uno sfrigolio, quasi di carne messa al fuoco, e poi non c’era più nessuna falena.
Una volta aveva chiesto a papà perché lo facessero.
«Non lo so» si era sentito rispondere. «Probabilmente sono attirati dalla luce e basta».
«E non sanno che fa male?».
«Forse lo sanno».
«E gli si avvicinano lo stesso?».
«È più forte di loro, credo. Chi lo sa, magari sanno che fa male ma la trovano così bella che non possono farci niente, e ci vanno incontro comunque. A volte funziona così».
*
In uno dei suoi primi ricordi è seduto in mezzo ad una folla vociante, rigidissimo nell’abito della festa che papà gli ha comprato per l’occasione una settimana prima e guarda la mamma mentre distribuisce baci e sorrisi a chi si congratula con lei e Ian. Mamma è vestita di bianco ed è bellissima e tutti sono attenti a starle vicino, perché ogni volta che si sente urtata si appoggia una mano sulla pancia e guarda Ian come se avesse paura. Lui le sorride e le stringe il braccio. Sono tutti contenti e si scambiano brindisi ed auguri agli sposi. Roy si infila una mano nella tasca, dove ha messo i chicchi di riso che non ha voluto lanciare. Li lascia cadere per terra uno dopo l’altro.
Vede la sua sorellina appena nata quando la mamma torna a casa dall’ospedale. Si chiama Simone. È una bambina bianca e piccolissima, con una singola ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio. Somiglia alla mamma. Roy, che dalla mamma ha preso poco o niente, vorrebbe vederla con gli occhi aperti per vedere di che colore sono, ma Simone continua a dormire per tutto il tempo. La zia Liv le solletica la fronte con l’indice e dice a voce alta che non ha mai visto una bambina così tranquilla - a lui invece hanno detto che piangeva sempre, perciò Roy si vergogna un po’. Gli hanno detto che non è veramente sua sorella, gli hanno spiegato la differenza che c’è fra una sorella ed una sorellastra, ma a lui la parola sorellastra gli piace poco. Però gli piace poco anche Simone. Continua a dormire e ha sempre le labbra chiuse a cuore come se fosse imbronciata ma tutti la coccolano e le dicono che è bellissima. Tra pochissimo arriverà mamma che la prenderà in braccio e farà finta che lui non esista.
Poi Simone si sveglia. Ha gli occhi aperti e sono azzurri. La sorellina fa uno strano verso, quasi un gorgoglio, e tenta di prendergli una mano. Lui le dà un pizzicotto sulla pancia. Lei non sente niente, gli prende le dita e le stringe forte. Stringe così forte che, quando Roy allontana il braccio, quasi la solleva. E continua a fare quel gorgoglio. Quando la mamma arriva assieme alla zia loro sono ancora così. Lui la guarda.
Mamma si sporge appena sul porta enfant per controllare la situazione. «Le stai simpatico, vedi? Ti sta sorridendo».
Simone fa ancora quel gorgoglio e poi un piccolo strillo di gioia. Roy si dimentica tutte le cose cattive che ha pensato su di lei solo qualche minuto prima e pensa che è davvero una bella bambina, è molto tenera. La lascia giocare ancora un po’ con le sue dita agitandogliele davanti agli occhi e facendole il solletico sul naso. Quando la mamma si siede sul divano con Simone fra le braccia, lui le chiede se può tenerla. Mamma dice che deve stare attentissimo e Roy si dice che lo sarà. La sua sorellina è tiepida e leggera, sa di borotalco e latte.
«Mi sembra che vadano d’accordo» ride zia Liv. Sua mamma dice che è felice che sia così.
Torna spesso a trovare mamma, Simone e Ian. A volte va lì dopo la scuola, altrimenti la zia Liv o papà sarebbero costretti ad accompagnarlo in macchina, e quando Simone lo sente entrare gattona più veloce che può verso l’ingresso per essere la prima a vederlo. Se si trova al piano di sopra, la mamma o Ian devono stare attenti che non si faccia del male nella fretta di scendere le scale. Roy si diverte a giocare con lei. Se è seduto sul divano Simone prova ad arrampicarsi come se fosse un gattino che non sa saltare. Solo quando si arrende e si mette seduta sul pavimento, sconfitta, Roy la può prendere in braccio e mettersela sulle ginocchia. Fa le facce più buffe che può per farla ridere. Le canta le filastrocche che hanno insegnato a lui quando era piccolo e lei le ascolta ad occhi spalancati. A volte, se si annoia, Simone tenta di arrampicarsi fino alla sua spalla e quando non ci riesce - e non ci riesce mai - comincia a mordicchiargli l’orecchio con la sua bocca priva di denti. Roy la lascia fare, perché non gli fa male e la cosa lo fa ridere, anche se poi si ritrova con l’orecchio rosso e coperto di bava; ma soprattutto glielo lascia fare perché alla fine Simone è così stanca che gli si addormenta in braccio subito dopo e lui può tenerla stretta per un po’ prima che la mamma gliela tolga dalle braccia per metterla a dormire.
Poi Simone cresce. Impara a camminare - lui sente i suoi passi difficoltosi rimbombare sulle scale ogni volta che apre la porta d’ingresso - e a parlare. Il suo è uno dei primi nomi che lei impara a dire. Si divertono assieme. Non litigano mai. Guardano assieme la televisione oppure lui la osserva disegnare con i pastelli colorati che ha ricevuto per il compleanno. Si siedono sul divano e fanno a gara a chi ride per primo. Sono capaci di fare delle facce buffissime e di scoppiare a ridere nello stesso momento. Roy si chiede spesso se tutti i fratelli e le sorelle vadano così d’accordo, ma poi si dice che non gli importa granché.
Di tanto in tanto si ferma a dormire a casa della mamma. Non lo fa molto spesso, perché non vuole che papà rimanga da solo, ma finisce le lezioni di pianoforte così tardi che spesso non riesce a prendere in tempo l’ultimo bus. Simone impazzisce di gioia ogni volta - non le sembra vero di poter giocare con suo fratello fino a quando non è ora di andare a nanna. Lui dorme nella stanza accanto alla sua. Ogni volta che chiude gli occhi Roy sa che, ad una certa ora della notte, Simone aprirà piano la porta della camera, si avvicinerà al suo letto in punta di piedi e pondererà la situazione prima di infilarsi sotto le coperte assieme a lui. Quello che lei non sa è che Roy si sveglia quando sente aprire la porta e che finge di dormire attaccato alla parete per fare in modo che lei stia comoda. Si permette di addormentarsi solo quando Simone scivola nel sonno abbracciata al suo orsetto di peluche, tutta rannicchiata addosso a lui, così vicina che può sentire il suo respiro contro la mano. Lui si sveglia presto, la mattina seguente, per prenderla in braccio e riportarla in camera sua senza che mamma si accorga di niente. Simone diventa più pesante ogni volta. Roy si dice che è perché sta crescendo, e quando lo pensa si sente improvvisamente triste. Vorrebbe che rimanesse così piccola per sempre.
Guarderà i bagagli accatastati nell’ingresso. La casa ormai sarà quasi vuota. Anche se avrà saputo da molto tempo della loro partenza, Simone sarà seduta a piangere su una valigia rovesciata. Lui tenterà di dirle qualcosa per consolarla, ma non ci riuscirà.
«Non voglio andare» singhiozzerà lei.
«Amsterdam è una città bellissima, e poi hai la tua mamma ed il tuo papà con te. Ti divertirai».
Simone tirerà su col naso e lo guarderà supplicante. «Vieni anche tu».
«Non posso. Io devo stare qui».
«Perché? Perché devi stare qui?».
Simone starà ancora piangendo quando mamma tornerà indietro per salutarlo. Anche lei avrà gli occhi lucidi, e quando lo abbraccerà piangerà un po’ anche lei, ma gli dirà che è sicura che torneranno in Norvegia non appena sarà loro possibile, forse per le vacanze.
Lui si siederà sulle ginocchia per abbracciare Simone. Lei si avvinghierà alla sua maglietta con forza e non vorrà lasciarlo, nemmeno quando mamma tenterà di prenderla in braccio e portarla in macchina.
«Vieni anche tu, Roy!» urlerà. «Vieni anche tu!».
Lui la abbraccerà stretta. I capelli le saranno cresciuti, saranno lunghi oltre le spalle, lisci e biondi. Ci passerà le dita attraverso prima di allontanarla con delicatezza da sé e gli sembrerà di starsi strappando un polmone, lo stomaco, un braccio, a mani nude. Le stringerà le spalle piccole e magrissime tra le mani. Si stamperà quell’immagine nella memoria.
«Devi essere molto brava, va bene? Più che brava. Devi essere perfetta. Io ti penserò ogni giorno. Fai lo stesso anche tu».
Simone annuirà. Continuerà a guardarlo con occhi feriti ed appannati dalle lacrime fino alla fine e nemmeno anni dopo lui riuscirà a dimenticarsi di quello sguardo.
*
La telefonata arriverà al Kamelot nel tardo pomeriggio di un giorno qualsiasi. Lui sarà ancora alle prese con i bicchieri da asciugare, perché il giovedì possono permettersi di prendere le cose con calma, e sarà Thomas ad andare a rispondere. Casey gli darà un leggero colpo di gomito ed indicherà dietro la sua schiena, verso il retro, dove Thomas lo aspetterà con in mano la cornetta e gli dirà: «È per te, Roy».
Lui penserà alle persone che potrebbero chiamarlo - suo padre, Tore, uno dei ragazzi dei Conception, - e non riuscirà a capire perché mai dovrebbero telefonargli in orario di lavoro. Per qualche secondo penserà ad un’emergenza, ma guardando il viso tranquillo di Thomas capirà che non è così. Gli occorrerà qualche attimo prima di riconoscere la voce dall’altra parte della linea telefonica. Ascolterà a bocca spalancata sua madre mentre lei gli dirà che è da quasi un mese che sono tornati in Norvegia, che dopo aver sistemato la casa quasi del tutto vorrebbe che andasse a trovarli. Quasi non lo lascerà parlare, sommergendolo di timide richieste di scuse per non avergli detto niente e di commenti entusiasti su Oslo dopo undici anni di assenza. Roy si passerà una mano tra i capelli e crederà di essersi immaginato tutto. Risponderà a monosillabi e scriverà meccanicamente il numero di telefono di sua madre sul block notes più vicino. A fine telefonata la testa gli girerà così tanto da doversi appoggiare al tavolo. Thomas gli chiederà se sta bene e lui gli racconterà tutto. Thomas ascolterà, annuirà di tanto in tanto ed alla fine gli dirà: «Domani è il tuo giorno libero. Ti conviene levartela subito».
Gli apre la porta una ragazza che non conosce. È un’adolescente magra e pallida, con capelli rosso fuoco così accesi da sembrare in fiamme, ed ha addosso una maglietta con la faccia di Jake Skeletron e pantaloni della tuta grandi il doppio di lei. La ragazza mastica una chewing gum e lo guarda per qualche secondo, gli occhi grandi e chiarissimi. È in quel momento che la riconosce, ma fatica a far coincidere il viso della ragazza che gli sta davanti con quello delle foto che sua madre gli ha spedito negli anni, quello della bambina alle prese con i primi libri di scuola, della ragazzina bionda che sorrideva un po’ imbronciata all’obbiettivo della macchina fotografica.
«Simone?».
Lei aggrotta le sopracciglia e lo fissa ancora, forse frugando nella propria memoria alla ricerca di un viso familiare. Per un secondo smette di masticare la gomma.
«Cazzo» dice, e Roy la vede impallidire un po’ prima di arretrare e sparire oltre la porta spalancata. Mentre lui fa qualche passo avanti e cerca di orientarsi all’interno dell’ingresso, sente urlare da un punto imprecisato della casa: «Mamma, è per te!».
Sua madre compare quasi subito. In undici anni non è invecchiata quasi per niente - solo qualche ruga di espressione in più agli angoli della bocca ed un paio di ciocche grigie semisepolte dai capelli biondi. Come sempre lei non gli lascia il tempo di parlare e lo subissa di domande a cui risponde da sola, gli dice che non si aspettava di trovarlo così alto né così magro, è diventato proprio un gran bel ragazzo, le dispiace di non aver mai ricevuto sue foto, una volta era timidissimo, ora va meglio, vero?
Lui annuisce a tutto con un sorriso, davanti alla tazza di tè che mamma gli ha piazzato davanti. Anche Simone, beccata nell’atto di salire le scale cercando di non farsi sentire, è stata trascinata in cucina ed ora è seduta poco lontano dal tavolo. Non lo guarda neanche una volta: si attorciglia i capelli attorno ad un dito, osserva le decorazioni della tovaglia, incrocia le gambe e le scioglie, tenendosi costantemente impegnata. Roy conosce bene quell’atteggiamento. È lo stesso di chi vorrebbe trovarsi ovunque tranne che lì. Sente una sensazione strana, spiacevole, che si agita lenta nel fondo del suo stomaco.
Intanto sua madre parla senza soluzione di continuità. Ha anche sentito che si è diplomato al conservatorio, è così fiera di lui, oh, anche Simone ha cantato in un coro prima di trasferirsi, è molto brava, dovrebbe sentirla un giorno o l’altro, devono aver preso tutti e due dal nonno…
Simone guarda fuori dalla finestra, seccata, e poi deve decidere che ne ha abbastanza di quella farsa. Si alza.
«Ho un sacco di compiti da fare».
Mamma la guarda a bocca aperta. «Non vediamo Roy da tantissimo tempo e tu pensi ai compiti?».
«Dai, mamma» dice Roy. «Lascia libera la povera Simone. Scommetto che avrà fin troppo tempo per vedermi in futuro».
Tenta un sorriso, ma Simone lo guarda in modo così freddo che lui si ritrova ad abbassare gli occhi, mortificato. Lei rimette a posto la sedia ed esce senza una parola.
«Simone!» urla mamma, «Saluta almeno tuo fratello!».
«Fratellastro» ribatte Simone, lontanissima.
La seconda volta è sempre Simone ad aprire. Invece di lasciarlo passare lei si pianta davanti alla porta come se volesse sfidarlo a farsi avanti. Il viso privo di imperfezioni adolescenziali e la linea spessa di eyeliner attorno agli occhi la fanno sembrare molto più adulta della sua età - ha solo diciassette anni, dieci meno di lui, si ricorda Roy, mentre studia il taglio quasi felino di quello sguardo e si domanda da chi possa averlo preso, se dalla famiglia di mamma o da quella di Ian.
«Mamma e papà non sono in casa».
«Quando sono andati via?».
«Un po’ di tempo fa».
«Sai quando tornano?».
«Boh».
«Ti dispiace se li aspetto qui?».
Lei fa una smorfia ma lo lascia entrare. Roy va a sedersi sulla poltrona più vicina mentre Simone prende posto sul divano e riprende a sfogliare il magazine che ha lasciato abbandonato fra i cuscini, come se lui non esistesse.
Dopo tredici minuti, - e dopo aver imparato a memoria ogni dettaglio del salotto ed il quadrante del proprio orologio - Roy si schiarisce la gola.
«I tuoi capelli… Sono diventati così da soli?».
«Certo che no» replica lei, senza distogliere lo sguardo dalla rivista. «Li ho tinti».
«Come mai?».
«Mi andava».
«Ti stanno molto bene».
Simone fa spallucce, quasi il complimento non le facesse né caldo né freddo. Malgrado il disagio, lui si costringe a rimanere lì; non vuole far capire a Simone che è riuscita a farlo sentire un ospite sgradito e non vuole farle capire che quella freddezza gli fa malissimo.
«Come stai, Simone?».
«A posto».
«Tutto bene a scuola?».
«Sì, va tutto bene».
«Ne sono contento».
«Mmm».
Roy si sente immerso fino al collo in un pantano. È come prendere un muro a pugni e sperare di sfondarlo in qualche modo. È inutile.
«Senti, se per caso dovessi avere bisogno di qualcosa…».
«Certo, come no».
Sente una chiave girare nella toppa. Si alzano entrambi. «Simone» le dice. «Non c’è proprio niente che vuoi dirmi?».
Simone getta la rivista sul divano. «Vaffanculo» gli sibila. Lui rimane impietrito, incapace di trovare un motivo a tutto quell’odio, e non può fare altro che guardarla salire di corsa le scale.
Lei è seduta alla sua scrivania, la terza volta, i piedi nudi ed appoggiati sui libri aperti, e si sta mettendo uno strato di smalto nero sulla mano sinistra. Simone alza lo sguardo dalle sue unghie non appena lo sente entrare in camera, ma l’espressione infastidita stempera velocemente in una più sorpresa, quasi disorientata, quando si rende conto di chi è.
«E tu che ci fai qui?».
«Volevo parlare con te».
«Non hai altre cose da fare?».
«Fin troppe, però questa mi sta particolarmente a cuore» ribatte lui, chiudendosi la porta alle spalle. «E non ho intenzione di uscire finché non avremo sistemato tutto».
«Strano. Da quando abbiamo qualcosa da sistemare?».
Roy la fissa. Guarda quella ragazzina arrabbiata ed ironica e si dice che avrebbe preferito che fra loro le cose fossero andate diversamente. «Ian mi ha detto che sei in punizione».
«Hai intenzione di contrattare il mio rilascio con una chiacchierata? Spiacente, offerta respinta».
«No, no. Mamma non lo sa, vero? E nemmeno tuo padre».
«Che cosa?».
«Del ragazzo con cui esci. Sospettano che ci sia qualcuno ma non hanno idea di chi si tratti. È per questo che ultimamente vai male a scuola».
Simone scoppia a ridere, ma la sua risata è troppo acuta per essere semplice scherno. È la stessa risata di chi si sente minacciato, e lui capisce di aver fatto centro. «Ma guarda, il mio fratellastro che torna dall’oblio per rivelarmi chissà quali oscuri segreti».
«Ragazzina, oltre ad avere dieci anni più di te vivo ad Oslo da una vita. Se non accetti di parlare sguinzaglierò tutte le persone che conosco ed entro due giorni saprò non solo il nome del tuo amichetto, ma anche la taglia dei suoi boxer. Ed indovina a chi dirò tutte queste cose? Quando Ian lo saprà, dubito che la tua punizione durerà solo un mese».
Stavolta lei non riesce a trovare le parole adatte per replicare. Appoggia la boccetta di smalto sul tavolo, livida. «Sei davvero un pezzo di merda».
«So come diventarlo» dice Roy. Si siede sul bordo del letto. L’odore di lavanda che sale delle lenzuola appena cambiate è così forte che resiste appena alla tentazione di chiudere gli occhi e dormire. Simone toglie i piedi dalla scrivania ed incrocia le braccia.
«Allora?».
«Vorrei sapere come mai ce l’hai con me».
«Sei davvero così idiota da non arrivarci da solo?».
Roy rimane in silenzio ed aspetta che continui. Simone emette una sorta di sibilo a metà fra l’infastidito e l’arrabbiato. «Sono passati quasi undici anni, Roy. Undici anni, porca puttana. Non ci hai mai mandato una tua foto, sì e no una mail al mese. Qualche telefonata. Due cartoline. Non sei mai venuto a trovarci. Mai. Mamma moriva dalla voglia di rivederti, ma tu non ti sei mai fatto vedere. Ti sei praticamente eclissato. Ed adesso cosa vuoi? Che ti dia un paio di pacche sulla spalla e ti dica che è bello vederti, come se nulla fosse? Mamma è così contenta che è disposta a perdonarti tutto. Io no».
Roy prende a sfregarsi una guancia. Se l’aspettava, si dice, ma l’amarezza che c’è negli occhi di Simone lo stupisce. Davvero una bambina di cinque anni può ricordare così bene chi si è lasciata alle spalle?
«Hai ragione. Non sono mai venuto a trovarvi ad Amsterdam, anche se ho avuto più di un’occasione per farlo». Sospira. «Ed avrei potuto di certo essere più presente. Mi dispiace».
Simone gli lancia un’occhiata priva di simpatia. «Sai che cosa me ne faccio delle tue scuse? Un cazzo, ecco cosa».
«Cercherò di essere sincero, Simone. Quando pensi alla parola “famiglia” tu pensi ai tuoi genitori, giusto? Io, quando penso alla mia famiglia, penso a mio padre ed alla sua fidanzata che non mi sopporta, e penso a mia madre che è sposata con un altro uomo, ha una figlia ed è in Olanda da anni. Io voglio bene a mamma, ma ti assicuro che per tutti questi anni non ho potuto fare a meno di odiarla». Prende a strofinarsi il collo, cercando di sciogliere il disagio che lo irrigidisce. «Tutta presa alla costruzione della sua nuova famiglia. Ed io dove stavo? Facevo parte di una vita passata. Quando mi sono laureato c’era mio padre che mi sorrideva dalla terza fila, con i miei amici, e mamma mi ha telefonato per le congratulazioni con un giorno di ritardo. Quando mi sono diplomato al conservatorio non è stato molto diverso. Come potevo prendere il primo biglietto per Amsterdam e venirvi a trovare? Non sono così ipocrita. Da quando vi siete trasferiti non ho fatto altro che inghiottire bile immaginandovi felici lontano da me. Mamma si è costruita una vita che non mi riguardava ed io sto costruendo la mia. Solo negli ultimi mesi ho cominciato a guardare le cose con un po’ di serenità. Se voi non vi foste trasferiti probabilmente avrei ceduto».
Simone punta i piedi contro il pavimento. Anche se la sua espressione non è più così imbronciata, non sembra disposta ad accettare scuse. «Commovente. Ed ora che mi hai aperto il tuo cuore che cosa pensi che debba fare? Fare come se undici anni della mia vita non fossero mai passati?».
«Non pretenderei mai una cosa del genere da te».
«Ma in fondo sei venuto qui per questo, per metterti a posto la coscienza». Lei piega le labbra in una smorfia sprezzante. «Avrò solo diciassette anni, ma non sono una stupida. Non sono nemmeno la stessa bambina che se n’è andata da qui».
«Sì, lo vedo».
«Vuoi sapere se sei perdonato? Bene, ti perdono. Ora esci da qui, dormi tranquillo e continua a suonare con i tuoi amici come se niente fosse».
«Sai che ho un gruppo?».
«È una delle prime cose che mi hanno detto, arrivata a scuola. “Ah, quel Roy Khan? Quello che canta in quel gruppo stranissimo?”». Il sorriso di Simone si fa pericolosamente ironico. «Qualcuno vi ha detto che gli anni novanta sono finiti da un pezzo o vivete ancora nell’illusione?».
«Spero che chi ti ha detto che siamo strani sia venuto a vederci almeno una volta. Di gente che
ripete a pappagallo quello che pensano altri ce n’è fin troppa». Fa una pausa. «E comunque non siamo strani. Il progressive metal non è musica per tutti».
«Sarà, ma questo mi sembra il tipico discorso di chi non riesce a sfondare. Quante copie ha venduto il vostro album? Hanno passato qualche vostra canzone alla radio? Mtv vi ha mai intervistato? Avete un canale su You Tube?».
«Non facciamo del pop, Simone. Per amor del cielo, non siamo mica gli One Direction».
«E visto che persino delle merde come loro sono conosciuti, direi proprio che ve la passate malissimo. Non hai idea di quanto la cosa mi dispiaccia».
Roy si alza. Se Simone sapesse metà di quello che sa lui, pensa, non parlerebbe così. Sa bene quanto hanno venduto, Mtv li ha intervistati, la radio passa le loro canzoni. La gente viene ai loro concerti, cazzo, tutti loro hanno lavorato come dei matti per arrivare fino a questo punto ed ora cominciano finalmente di ingranare - e Simone si permette di parlare così. No, è il disprezzo più assoluto che sente nella voce di sua sorella a farlo infuriare, non tanto quello che ha detto. Non c’è nessuno spiraglio in cui possa entrare per tenderle la mano. Sua sorella si rigira la boccetta di smalto fra le dita con aria compiaciuta. Vorrebbe mollarle un ceffone. Non lo fa soltanto perché ha troppo rispetto per se stesso per farlo.
«D’accordo» le dice. «Se le cose stanno così, va benissimo. Scusa tanto se ti ho interrotto. Ma puoi stare tranquilla, non ti disturberò ancora».
«Bene» conclude lei.
Quando arriva alla macchina, il nodo alla gola è così forte che lo fa boccheggiare. Molla un calcio ad una ruota. L’ondata rovente che sale dal petto gli riporta in mente gli occhi di una Simone di cinque anni, di una bambina che lo accusa di averla abbandonata. Roy appoggia entrambi i gomiti sul cofano. Non avrebbe mai potuto comportarsi diversamente, Simone lo sa bene quanto lui. Ma non per questo riesce a perdonarle il suo rancore. E neanche il proprio, pensa.
«E tu che ci fai qui?».
«Ciao».
Simone è in piedi davanti alla porta, con un sorriso imbarazzato e le mani giunte dietro la schiena come una scolaretta in punizione. Sembra volersi fare ancora più piccola, stringersi il più possibile nella sua giacca di pelle, per occupare meno spazio possibile.
«Come hai saputo dove abito?».
«Mamma».
Lui tira la linguetta della sua lattina di Diet Coke. «Sei capitata in un momento poco opportuno».
«Mi spiace».
«Sai com’è. A volte mi ritrovo con altri svitati e scriviamo canzoni. Quel che si dice brainstorming».
«Roy» urla Arve, all’interno della casa. «Stai tenendo un comizio, lì fuori?».
«Arrivo subito» replica lui, ma poi si accorge che Simone ha allungato il collo abbastanza da poter vedere chi c’è in casa e guarda i ragazzi dei Conception con il suo sorriso più carino.
«Ciao» fa lei. «Io sono Simone. La, beh, sorella cattiva di Roy».
«Ciao» dice Tore, senza la minima simpatia, prima di sistemarsi meglio sulla poltrona. Gli altri - Arve, Trond ed Ingar, tutti e tre seduti sul pavimento fra fogli scarabocchiati e penne e dischi - la guardano come se fossero stati colpiti da un fulmine. Poi si riprendono.
«Ciao, Simone».
«Ehi».
«Piacere di conoscerti».
«Ero al concerto, ieri sera. Siete… Siete davvero bravi. Sul serio» aggiunge lei.
Roy comincia a bere la sua Diet Coke. Non nega a se stesso di provare un certo piacere nel vedere che i ruoli si sono invertiti; ora è Simone ad essere in territorio sconosciuto, che annaspa per una parola di più, e lui è sulla riva ad aspettare che si tiri fuori dal fango da sola. Lei comincia a guardare con occhi supplicanti gli altri membri dei Conception, come se sperasse in un loro aiuto. Tore rimane seduto a braccia incrociate e la guarda con ostilità palese. Gli altri tre, invece - stronzi - sembrano più che disposti a lanciarle un salvagente.
«Davvero ti è piaciuto il concerto?» le chiede Ingar. Simone annuisce.
«È stato straordinario. Sono stata un’idiota, quando mi hanno parlato di voi all’inizio ho pensato che foste i soliti cantanti che si definiscono in un certo modo e poi fanno solo baccano, ma poi…».
«Poi sei stata illuminata sulla via di Damasco. Molto toccante».
Trond gli lancia uno sguardo così infuocato che potrebbe trapassare un muro senza problemi, ma Roy sostiene lo sguardo senza battere ciglio. È una faccenda di famiglia. I suoi amici, per quanto cari, ne stanno fuori.
«Roy» prova a dire Simone, ma lui la blocca subito.
«Sono occupato. Se devi dirmi qualcosa puoi lasciarmi un messaggio in segreteria. Pare che l’unico modo per parlare con te siano i discorsi a senso unico, quindi non vedo perché dovrei irritarmi ascoltandomeli in diretta».
«Ascolta, volevo solo…».
«Non mi interessa». La prende per un braccio e la accompagna fino al vialetto, dove finalmente la lascia. Simone lo guarda.
«Roy, mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto».
«Per te è sempre facile, vero? Fai un macello, ma tanto poi ti basta sbattere le ciglia e chiedere scusa». Per un brevissimo attimo Roy si sente quasi gonfio, troppo pieno di emozione. Se lei sapesse quanto veleno gli hanno messo in corpo le sue parole, nel corso dell’ultimo mese, non avrebbe nemmeno osato presentarsi. «Tornatene a casa, Simone. Non ho niente da dirti».
Sta per chiudersi la porta alle spalle - sua sorella è ancora dove l’ha lasciata, impietrita, - quando la sente dire: «Posso aspettare fino a quando non avrete finito…».
«Fai un po’ quel cazzo che ti pare».
La sua rabbia diventa una pulsazione sorda e minuscola, una volta chiusa la porta. Gli sguardi dei suoi amici sono punzecchiature continue sulla pelle mentre si siede, appoggia da una parte la lattina e riprende in mano gli appunti che ha lasciato a metà.
«Allora, dove eravamo arrivati?».
«Roy?» chiede Arve, quasi timidamente. «Non dovresti…».
«No, io non devo fare proprio niente».
Trond butta giù un sorso dalla sua bottiglia di birra. «Ti ho visto fare lo stronzo in questa maniera solo un paio di volte, ma mai così incazzato. Povera, povera sorellina».
«Sentite, ragazzi, la storia ve l’ho già raccontata…».
«Perciò non parliamone più» interviene Tore, bruscamente. Roy abbassa la testa in segno di ringraziamento. Lui e Tore ormai riescono quasi a decodificare i segnali che l’uno manda all’altro senza parlare, ed il suo migliore amico ha capito benissimo: insistere sull’argomento non servirà a niente, se non ad invelenirlo di più. Gli altri, dopo qualche secondo di silenzio, riprendono dove si sono interrotti - c’è una sorta di accordo mai detto, fra loro, che dà sempre a Tore l’ultima parola nelle discussioni - ma per tutto il tempo Roy sente le proprie orecchie ronzare, un fastidioso rumore di sottofondo che continua a girare dalla una parte all’altra del suo cranio. Si concentra sulla propria voce, su quella dei ragazzi. Non vuole pensare ad altro.
Non sa che ore siano, ma lui e Tore si stanno dividendo la seconda lattina di birra quando Ingar lancia uno sguardo fuori dalla finestra.
«Roy? Tua sorella è ancora lì».
Lui sbatte gli occhi. «Ma che stai dicendo?».
«Sta seduta sul marciapiede e sta lì ferma».
Passa a Tore la lattina e si alza. Una fiammata di rabbia gli sale fino alla fronte. Come ti permetti di venire qui ad incasinare tutto… «Arrivo subito».
Apre la porta di casa. Simone è seduta sul bordo del marciapiede, con accanto la borsa, e gli dà la schiena. Sembra così piccola. Roy si chiude la porta alle spalle e fa un paio di passi nella sua direzione.
«Bell’hobby, quello di guardare le macchine che passano».
«Già. Ne ho appena vista passare una con una targa stranissima».
«Simone, tornatene a casa. Non voglio guai con mamma».
Lei volta la testa. Ha il labbro inferiore stretto tra i denti. «Allora parliamo».
«Le tue parole sono state: non abbiamo niente da sistemare».
«Roy, se è per la faccenda della musica…».
«Simone, non me ne frega obbiettivamente niente se la nostra musica ti piace o meno, se prima dicevi la verità o no, okay? Ci sono delle persone che stimo a cui non piace il nostro genere, ma non per questo ho rotto i ponti con loro. Il problema non è questo. Il vero problema è che io ho provato a parlare con te, Dio solo sa se ci ho provato, ma la nostra ultima conversazione mi ha fatto capire che fra noi non è possibile un rapporto civile. Mi odi? D’accordo, sei liberissima di farlo, ne hai tutti i motivi. Ma non ti aspettare che dopo avermene dette di tutti i colori ti basti venire qui con quella faccia da cucciolo bastonato per sistemare le cose. I ragazzi ti possono dire che le mie arrabbiature durano sì e no cinque minuti, ma ci sono argomenti su cui non sono disposto a perdonare. Uno di questi è la mia vita».
«Lo so. Sono stata una stronza. Sono venuta fino a qui per dirtelo. Io… Volevo chiederti scusa». Simone smette per qualche secondo di masticarsi il labbro. «Quando hai detto che non saresti più tornato, ho avuto paura che dicessi sul serio. Volevo rivederti e dirti tutto».
«Considerato che hai vissuto per svariati anni ricordandoti a malapena che esistevo, direi che puoi continuare benissimo per questa strada».
«Tu hai detto che saresti rimasto finché non avremmo sistemato la faccenda». Lei si alza in piedi. «Lo farò anche io. Io rimango».
«Non fare la stupida».
«Dovrai portarmi via di forza. Avanti, provaci».
La guarda. Guarda quella ragazzina ostinata, - è la stessa testardaggine che ha preso da mamma, esattamente come lui - che si sta sforzando con tutta se stessa per rimanere inchiodata lì, come se la sua sola forza di volontà le permettesse di diventare pesantissima, di essere impossibile da smuovere. Roy capisce che non se ne andrà da sola. Che lotterà. Quel piccolo nucleo rabbioso dentro di lui si rimpicciolisce e scompare nei pochi passi che li separano.
Prima che possa dire o fare qualcosa lei gli si è già fiondata tra le braccia e gli artiglia la camicia con tutta la forza che ha. Quel gesto gli riporta alla mente troppe cose e deve chiudere gli occhi per tenere lontani i propri ricordi dal presente. Sei cambiata così tanto, si chiede, o sei rimasta sempre la stessa?
«Perdonami» gli dice Simone, quando le solleva il mento con due dita. Le tremano le labbra. «Faccio quello che vuoi, te lo giuro, ma per favore…».
Roy sospira. Le appoggia una mano sulla testa e prova ad accarezzargliela - non è troppo sicuro di quello che fa, ha paura che lei reagisca male. Simone non si scosta. Accetta quel gesto.
«Stupida» le mormora, sollevato. «Non farlo più».
«Scusami, Roy. Sul serio».
«Okay, okay. Sei scusata. Ma niente rispostacce quando vengo a trovarti».
«Tenterò» dice lei, sbattendo gli occhi e rivolgendogli uno dei sorrisi più belli che abbia mai visto. Roy scuote la testa.
«Dai, vieni dentro, che ti presento come si deve ai ragazzi».
*
Sarà un processo lento, graduale. Cominceranno a vedersi davanti ad una coppa di gelato o a un caffè, quando Roy è libero dal lavoro, cercando di conoscersi meglio. Simone penserà sempre a due animali che si annusano reciprocamente per capire se si possono fidare l’uno dell’altro; fra lei e Roy sarà più o meno la stessa cosa.
Suo fratello la porterà al Kamelot, il posto dove lavora quando non è in tour con i Conception o prepara un nuovo album. Bar con musica dal vivo è la definizione ufficiale: la stessa persona che ti ha servito un drink cinque minuti prima può salire sul palco fra gli applausi degli avventori, sempre numerosissimi. Simone guarderà suo fratello cantare a pochi passi da lei, in compagnia di Thomas - il boss, come lo chiama Roy - di Glenn o di Casey, a volte anche da solo, ed intanto lei sognerà ad occhi aperti di poter salire su quel palco, un giorno.
Conoscerà i colleghi di Roy. Saranno tutti molto gentili con lei, non la tratteranno mai come una bambina solo perché ha qualche anno in meno di loro; il suo preferito è Casey, che trova sempre cinque minuti per parlare con lei e per prepararle il suo drink preferito senza farglielo pagare, e con cui Roy scherza e bisticcia in continuazione, quasi fossero una coppia di vecchi innamorati. («Thomas crede che la gente continui a venire qui per via della musica o di quello che serviamo» le dirà Glenn una volta, «In realtà viene per vedere come quei due si insulteranno stasera».) A sua volta Simone porterà al Kamelot i suoi amici - Coen, Yves, Isaac, Floor ed Elize - e finiranno per passare lì ogni weekend. Durante un sabato sera, mentre saranno tutti seduti allo stesso tavolo e si parlerà di qualsiasi cosa tra un cocktail e l’altro, una canzone e l’altra, a Simone, seduta tra Roy e Coen, sembrerà di non poter essere più felice di così.
La casa di suo fratello è molto più vicina alla sua scuola rispetto a quella in cui abita lei. Malgrado suo fratello dorma sul divano letto del salotto e la casa, di per sé, non sia enorme, è decisamente troppo grande per una sola persona. «Ci ho abitato con qualcuno» è l’unica cosa che Roy si lascerà sfuggire sull’argomento. Simone ci passerà di pomeriggio, a lezioni finite, e poi sempre più spesso, quando sa che suo fratello è in casa. Comincerà pian piano a portarci le sue cose - una tazza, dei vestiti, dei cd, i libri di testo - finché, un giorno, non troverà il coraggio di chiedere a Roy se può rimanere assieme a lui. Avrà già pronta la lista dei motivi per la sua scelta: meno tempo per arrivare a scuola, maggiore vicinanza ai suoi amici, meno preoccupazioni per i suoi… Roy la fermerà ridendo a metà discorso.
«Sono d’accordo» le dirà. «Se lo è anche mamma».
Mamma le darà il permesso con tanto di sorriso; anche papà, a denti stretti. Simone prometterà che non sarà un peso per suo fratello e li verrà a trovare ogni volta che le sarà possibile.
La prima sera, lei e Roy parleranno fino a notte inoltrata con un frullato di frutta in mano, seduti sul letto che hanno trasportato assieme dalla cantina. Prima di andare a dormire, suo fratello la aiuterà a pettinarsi i capelli. Mentre la prenderà scherzosamente in giro per tutto quel groviglio di nodi, le passerà con delicatezza le dita fra le ciocche.
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