Gift for:
holmesian_girlTitle: Goodbye.
Author: Secret Santa.
Beta-Reader: //
Fandom: Sherlock Holmes - Canonverse
Pairing/Characters: Sherlock Holmes/John Watson
Rating: Nc17
Warning: Angst, Lemon, Slash.
Word Count: 4292 parole
Summary: La maggior parte degli uomini, ad esempio, non reggerebbe una vita solitaria, senza una famiglia alle spalle, degli amici, compagni di bevute, una donna da amare, dei figli da crescere, dei nipoti ad addolcire i timori e le debolezze della vecchiaia.
Per una restante minoranza, invece, “solitudine” è trovarsi principalmente senza le persone più importanti della propria vita, a prescindere che esse siano della famiglia o semplicemente amici: se togli loro quei pochi pilastri, crolleranno anche se circondati da molte altre conoscenze.
Dopo aver ragionato in questa maniera, mi quindi sono chiesto a quale categoria appartenessi io, e mi sono risposto quasi subito - infine, in coda a tutte queste persone sole, mi colloco io.
Io che, alla fin dei conti, sono l'unico davvero solo.
NdA: È stato un parto. Un parto - nel vero senso della parola. Con il travaglio lungo due mesi *sìsì*. Ad ogni modo, buon natale, holmesian_girl! Hai avuto il mio sangue! :D
Quand'è che un uomo può definirsi veramente solo?
Ho rimuginato per molti anni su questa domanda, ma alla fine sono giunto alla conclusione che, probabilmente, una vera risposta non esiste - e mai esisterà - per il semplice fatto che il concetto di solitudine è a tal punto soggettivo e personale da essere addirittura opposto, in certi casi.
La maggior parte degli uomini, ad esempio, non reggerebbe una vita solitaria, senza una famiglia alle spalle, degli amici, compagni di bevute, una donna da amare, dei figli da crescere, dei nipoti ad addolcire i timori e le debolezze della vecchiaia.
Per una restante minoranza, invece, “solitudine” è trovarsi principalmente senza le persone più importanti della propria vita, a prescindere che esse siano della famiglia o semplicemente amici: se togli loro quei pochi pilastri, crolleranno anche se circondati da molte altre conoscenze.
Dopo aver ragionato in questa maniera, mi quindi sono chiesto a quale categoria appartenessi io, e mi sono risposto quasi subito - infine, in coda a tutte queste persone sole, mi colloco io.
Io che, alla fin dei conti, sono l'unico davvero solo.
«Papà, papà, guarda che ti ho preparato!» mia figlia mi saltellò incontro mentre ero intento a riporre la bombetta nella cappelliera dopo una lunga giornata di lavoro. Le sorrisi, accovacciandomi, mentre mi lasciava tra le mani un appiccicoso biscotto farcito di miele.
«L'hai fatto tutta da sola?» le chiesi, e lei annuì fragorosamente, scuotendo i lunghi boccoli biondi.
Ridacchiai, immediatamente di buon umore, prendendola in braccio e portandola in cucina, dalla quale mia moglie mi aveva salutato.
«Bentornato, amore, tutto bene?» si rivolse poi alla bambina «Jane, vai a chiamare tuo fratello, su!» la feci scendere e rimasi ad osservarla mentre correva su per le scale. Quando sparì dalla mia vista mi avvicinai ad Elizabeth, cingendole la vita con un braccio e baciandole prima la guancia liscia e chiara e poi le labbra piene - ancora non riuscivo a capire come un fiore come lei potesse amare un uomo ormai avanti nell'età come me, ma fin quando riuscivo a renderla felice tanto mi bastava.
«Questo lo poggio qui?» domandai, mostrandole il biscotto.
«Non lo mangi?»
«No. Ho... mal di stomaco.» mentii.
«È il miele del signor Holmes, davvero non lo vuoi? Sono anni che lo manda e non lo hai assaggiato nemmeno una volta!»
«Lascia stare, ti ho detto che ho mal di stomaco.» ripetei - in modo abbastanza brusco, mi resi conto. «Scusa, è che sono stanco.» mi scusai subito, sorridendo. «Vado nel sal-»
«Papà!» mi interruppe Thomas, il secondogenito, che mi veniva incontro correndo.
«Il mio ometto!» lo salutai, scompigliandogli poi i capelli. «Come stai?»
«Bene, grazie! Oggi l'insegnate ha detto che sono diventato il migliore della classe, in matematica!»
«Davvero? Allora dobbiamo festeggiare! Cosa vuoi fare?»
«Continuiamo a leggere le avventure del signor Holmes? Siamo a quella dei Tre Garrideb!»
«Di già? Andiamo, allora!» mi voltai verso Elizabeth «Tesoro, abbiamo tempo?»
«Non vedo perché no!» mi rispose, quindi mi diressi nello studio con mio figlio e ci sedemmo io sulla poltrona e lui sul tappeto, di fronte a me.
Non potevo ancora capacitarmi del fatto che mio figlio Thomas - sette anni da compiere il prossimo gennaio - avesse già letto la maggior parte di tutti i miei racconti. Era ormai un appassionato del genere e stimava Sherlock Holmes quasi quanto lo stimavo io, era diventato il suo idolo praticamente da subito. Era un bambino estremamente intelligente per la sua età, ed il vederlo ragionare sui casi da me narrati, pregandomi di non leggergli ancora il finale perché voleva scoprire lui il colpevole, mi ricordava in maniera quasi insopportabile il mio amico ed ex-camerata.
Per quello stesso motivo non toccavo il miele - non potevo sopportare l'idea di assaggiare qualcosa anche solo sfiorato dalle dite di Holmes, qualcosa che avesse ricevuto il suo amore e le sue cure; soprattutto non potevo sopportare che quella cosa non fossi io, bensì del banale miele.
Il miele me lo ricordava, mi ricordava le sue mani, le sue labbra, la sua risata - era un qualcosa a cui non potevo nemmeno pensare, figurarsi mandare giù.
L'ultimo ricordo che serbo del tocco attento delle sue mani risale a tanti - troppi - anni fa, ma se proprio devo narrarlo, tanto vale che sia un racconto ordinato, così da servirmi sia come monito futuro, sia come rimpianto del passato.
Mi trovavo in piedi su di un altare, vestito elegantemente, sorridendo quasi senza saper bene perché. Mi voltavo verso sinistra e vedevo una donna - la mia donna, in quel momento - bella come un manto di neve poggiato su di un monte, che candido cattura e riflette i raggi del sole. Era di una bellezza abbagliante.
Mi sentivo come in un sogno, dove il tempo è alterato e distorto - un battito di ciglia sembra durare una vita, una vita invece scorre in un battito di ciglia - ed era come se tutti i mesi di fidanzamento con Elizabeth mi fossero sfuggiti dalle dita come sabbia, così come anche la proposta di matrimonio e tutti i relativi preparativi, ed, infine, il fatidico momento.
L'unico istante ben saldo in tutta quella ondata di avvenimenti che stava per infrangersi su di me era il momento in cui avevo finalmente parlato con Holmes, con l'intenzione di scusarmi, di andarmene con la coscienza finalmente pulita, di non farlo soffrire troppo.
Non posso credere di essere stato davvero così ingenuo.
Sempre su quell'altare, poi, alla mia destra, c'era lui. Stavolta non ci sarebbero stati casi urgenti, menzogne, anonimi spazzacamini in penultima fila che si allontanan0 in fretta ed a testa bassa al momento del “sì”. Ci sarebbe stato solo un sorriso finto ma nuovo, indossato apposta per l'occasione, un cappello lucido ed il grande Sherlock Holmes, consulente investigativo di fama internazionale, testimone di nozze dello sposo, e suo amico.
Quella scena mi si ripeteva davanti quasi ogni notte, sempre uguale e sempre più dolorosa.
«E lei, John Hamish Watson, intende prendere in moglie la qui presente Elizabeth Devenport?» recitò l'ufficiale, ed il mio istinto mi costrinse a voltarmi verso Holmes.
Mai scelta peggiore fu mai presa.
Holmes mi fissava, la testa leggermente inclinata verso sinistra, le labbra tirate e le sopracciglia sottili alte sulla fronte - mi stava dicendo “Si, John, lo vuoi davvero?”.
Mi voltai nuovamente verso Elizabeth, e, lottando contro il desiderio di fuggire via da tutto quello, esclamai, deciso, «Sì. Lo voglio davvero.»
La verità è che io sono sempre stato un pessimo attore, e questo Holmes lo sa bene. Difatti non mi stupii quando, con la coda dell'occhio, lo vidi abbassare la testa sul petto, scuotendola quasi impercettibilmente e sorridendo amaro - espressione questa, che, ovviamente, esisteva solo per me e lui, e nessun altro. Esisteva solo per noi perché sapevamo dove cercarla, mentre tutti gli altri no - io sapevo che Holmes avrebbe fatto di tutto per dissuadermi fino all'ultimo momento. Ma ormai era troppo tardi, e difatti anche lui lo aveva capito. È sempre stato troppo tardi.
Ricordo distintamente, infine, che lui passò al mio fianco, sfiorandomi il braccio, per poi allontanarsi senta voltarsi, e sparire oltre la piccola folla dei miei invitati.
Nei mesi successivi ripensai a quell'impercettibile tocco, a quella delicatezza che lo contraddistinse anche in quel momento, ne sono sicuro, doloroso per lui quanto per me. Avrebbe potuto farmi davvero del male, con quel semplice gesto, invece non lo fece. Fu il suo ultimo, amaro, augurio per una vita felice - ma a me non stava bene, affatto.
Ma non fu quello l'ultimo tocco da me tanto rimpianto, quello venne dopo. Precisamente, una domenica mattina, poco prima di pranzo, mia moglie mi chiamò nell'ingresso con voce perplessa, e, quando la raggiunsi, sorrisi di cuore nel vedere la buona signora Hudson, che, seppur anziana e malandata, manteneva sempre una certa dignità ed una certa presenza imponente e capace di farmi sentire semplicemente a casa.
«Salve, dottore, la trovo bene!» salutò, sorridendo, ed io le porsi subito il braccio per accompagnarla nel salotto al piano superiore.
Una volta che si fu accomodata, chiesi ad Elizabeth di prepararci un thé, e solo in seguito mi resi conto di ignorare il reale motivo della visita della mia precedente padrona di casa.
«Sono venuta a salutarla, dottore, dopotutto, mi sto trasferendo e mi sembrava una cosa necessaria da fare - non credo che un uomo impegnato come lei avrà tempo di venire a trovare una vecchia signora come me.» scherzò, ed anch'io abbozzai un sorriso.
«Si trasferisce? Sul serio?» annuì. «Ma perché? Dove ha intenzione di andare?» ero seriamente preoccupato, la signora Hudson non aveva mai lasciato il 221b in tutti questi anni, e temevo sul serio che fosse successo qualcosa.
«Non si preoccupi, dottore», mi rassicurò lei, in grado di leggermi nella mente quasi quanto Holmes «la casa è in ottimo stato. Ho intenzione di venderla ed andare a vivere a Brentwood, nell'Essex, da mia sorella. Adesso che il signor Holmes si sposta nel Sussex, dopotutto, mi sembrerebbe inutile restare ancora lì.»
«Oh, sì, capisco. Mi sembra un'ottima idea.»
«Già. Lei come sta, dottore, la vedo stanco! I bambini sono difficili da gestire, vero?»
«Ah, i bambini - sì, ma ne vale la pena.» sorrisi, per poi alzarmi a vedere a che punto fosse il thé.
«Non si scomodi, dottore, anzi, dica pure alla sua tanto gentile signora di lasciar stare, sto andando via!»
«Ora? Ma come, è appena arrivata!»
«Lo so, ma devo mettermi in viaggio. Parto oggi stesso, sa?» una nuova consapevolezza mi attraversò la testa, dolorosa come se mi avesse trapassato con un proiettile.
«E Holmes?»
Lei rise «Non penserà che io lo lasci solo nell'appartamento, spero! Lui dovrebbe partire tra poche ore, i bagagli erano già praticamente pronti, e sa a chi consegnare la chiavi.»
«Capisco...»
«Allora a presto, dottore. Le auguro una vita felice e piena di amore, e che Dio la benedica.» disse con un sorriso, mentre, una volta scese le scale, si avvolgeva nella giacca.
«Che Dio benedica anche lei, signora Hudson, la ringrazio per tutto quello che ha sempre fatto per me ed Holmes.»
«Siete come dei figli, per me, lo sa bene. Ora, è meglio che vada. Mi scriva, quando può.»
«Non mancherò.» le sorrisi, chiudendo la porta.
Rimasi appoggiato con le spalle al muro dell'ingresso per un tempo che mi parve interminabile, con un peso sul cuore che non avrei mai immaginato di poter reggere senza crollare all'istante.
Baker Street, il 221b di Baker Street, stava per essere venduto. La casa in cui ero diventato quello che sono, il luogo dove avevo trascorso i momenti più felici e drammatici della mia esistenza, quelle mura segrete al mondo, che solo io e Holmes avevamo condiviso - da coinquilini, da amici, da amanti; tutto stava per finire. Ed io non gli avevo nemmeno detto addio.
Mi trovai, in pochi istanti, ad urlare a mia moglie che uscivo, e sbattei la porta senza nemmeno sentire tutta la sua risposta.
Saltai sulla prima carrozza di passaggio, «Una ghinea se arriva entro dieci minuti!», esclamai, ed in poco venni scarrozzato lungo le vie di Londra, con il cuore che premeva dolorosamente sui polmoni.
«Baker Street, signore!, in sette minuti, signore!» esclamò il giovanotto, e saltai giù dalla vettura ancor prima che frenasse totalmente; lasciai i soldi sul sedile e volai verso il 221b.
Nel preciso istante in cui alzai il pugno per bussare, la porta si aprì, e mi ritrovai davanti il mio amico Sherlock Holmes - anche se la sua espressione nel vedermi era tutto tranne che amichevole.
Non che la mia fosse da meno, sia chiaro.
«Holmes, io-»
«Salve, Watson! Qual buon vento? Stavo proprio per spedirti un telegramma per dirti di andare a ritirare i tuoi ultimi effetti personali in blocco alla posta, ma a quanto pare mi risparmierai la strada fino a quel tanto distante edificio pubblico.» in quel momento notai che portava una scatola in mano, che mi venne prontamente scaricata tra le braccia. «Ora, se permetti, ho un trasloco da terminare.»
«Holmes, non sono venuto solo per sentirmi cacciar via.»
«Oh, ma davvero?» rispose, ironico, mentre io lasciavo lo scatolone all'ingresso e mi addentravo nell'appartamento.
Le mie dita correvano a sfiorare le pareti, i mobili, le suppellettili e qualsiasi altro dettaglio che sapevo non sarebbe mai più stato lo stesso. Chissà chi sarebbe entrato in quelle stanze - magari due sposi, con figli, o forse una coppia anziana con tanto di nipoti, o ancora una coppia alternativa come siamo io ed Holmes - come eravamo io ed Holmes.
Chissà quali e quanti ricordi avrebbe lasciato loro, se l'avrebbero venduta subito, se l'avrebbero trattata bene - anche se non credo che esista un inquilino peggiore di Holmes, e, se esistesse, di certo non vorrei incontrarlo - se sarebbe stata tanto importante anche per qualcun altro.
«Quindi, lasci Baker Street.»
«Già.»
«Mi mancherà, sai.»
«Non lo metto in dubbio.»
«E a te, mancherà?»
«Affatto, Watson. Affatto.» rimasi sgradevolmente stupido della sua risposta, secca e gelida.
Dopotutto, era il luogo dove tutto era iniziato, dove la gente continuava a scrivere in cerca di aiuto, di sostegno, di un consiglio, anche se, conoscendo Holmes, era perfettamente da lui non considerare assolutamente certi sentimentalismi.
«Come sapevi che ero ancora qui?»
«La signora Hudson.»
«Ah, sì, la signora Hudson. Ovviamente. E sei venuto per... ?»
«Prendere le cose. Salutare la casa.» deglutii a vuoto. «Salutare te.»
Finalmente si voltò, senza però muovere un passo.
«Arrivederci, Watson - anzi, addio.» disse, la testa alta e la schiena dritta, le braccia lungo i fianchi. Impassibile, freddo, vuoto. Ad un tratto mi sentii svuotato anche io.
«Non sia così tragico, Holmes, dopotutto sono sicuro che, prima o poi-» mi interruppe una risata così amara da farmi venire i brividi, e di nuovo mi ritrovai a fissare la schiena del mio amico.
«Sappiamo entrambi che questo non succederà mai. Tieni troppo alla tua solitudine, per tornare da me anche solo per un giorno.»
Non compresi subito il significato delle sue parole, ma queste mi colpirono come un fulmine in piena tempesta.
«Holmes, io» tentai di ponderare meglio le mie parole, ma mi uscì solo un banale « io non sono solo. Come ti vengono in mente certe cose?»
«Come sempre, Watson, sei speciale perché non cambi mai, anche non so se questo se lo si possa definire un pregio, alle volte. Sei sempre il solito ingenuo.»
«Ti faccio notare che non sono venuto nemmeno per farmi offendere, se è per questo.»
«Sto solo dicendo la verità. Dimmi, quante volte senti che ti manca qualcosa? Un dettaglio, un sussurro, un solo minuscolo particolare che però farebbe la differenza? Quante volte, di notte, accanto alla tua stupenda moglie o abbracciato ai tuoi meravigliosi figli, ti sei reso conto che c'era qualche pezzo che non si incastrava? Quella si chiama solitudine, Watson. Che non sempre significa 'mancanza di persone', come ben dovresti sapere.»
Mi ci volle qualche secondo per digerire tutto quel discorso, ma ancora di più per mandar giù uno dei bocconi più amari che io avessi mai ingerito. Lui aveva ragione, aveva dannatamente ragione, quella era una sensazione con la quale avevo imparato a convivere così bene da non accorgermene più, dopo qualche tempo.
«Quindi, io terrei troppo alla mia solitudine per tornare a stare con te, sbaglio?»
«Ecco, vedi che hai capito? Non era difficile.» mi schernì, voltandosi per un attimo prima di imboccare la via della sua camera da letto. «Anche se, nonostante questo, continui a stupirmi, in quanto, sinceramente, non ti ritenevo capace di poter arrivare a tanto per difendere la tua situazione. Pensavo di essere l'unico a ferire chiunque mi stesse intorno, pur di poter restare solo. Meriti i miei più sinceri complimenti.» continuò, estraendo delle camicie dal cassetto.
Odio il suo modo di fare, quando sa di aver ragione. Lo odiavo all'epoca e lo odio tutt'ora, anche se è molto che non sento il suono della sua voce se non nei miei sogni. Fatto sta che, in quel momento, quelle parole mi sconvolsero.
Era tutto vero, inconsciamente io stavo ferendo la persona che amavo per un puro e semplice atto di egoismo. Ma come, arrivati a quel punto, tornare indietro? Impossibile. Erano passati anni dal mio matrimonio, non potevo assolutamente abbandonare tutto - come avevo d'altronde già spiegato ad Holmes più e più volte - eppure, c'era ancora qualcosa che ci teneva legati. Un filo sottile, una ragnatela invisibile ma presente, che ci avvolgeva da capo a piedi senza lasciarci alcuna via di scampo che non sia star fermi ed aspettare di morire.
«Ora, sono lusingato dal tuo estremo tentativo di farti del male, ma come puoi vedere sono-» mi parai dinanzi a lui, immobile, e per poco non sbatté contro di me nel tentativo di uscire dalla stanza.
«Watson, se non ti dispiace.»
Non mi mossi. Lui sospirò.
«Quanti anni credi di avere? Fammi passare.»
Non emisi nemmeno un fiato.
«Hai deciso di mettere a dura prova la mia-» non ero interessato a sentire il resto della frase, anche perché lasciai cadere il bastone e di afferrai il colletto della sua camicia, tirandolo con prepotenza e premendo le mie labbra contro le sue in un gesto che tutto sembrava tranne che un bacio.
Ero pronto a sentirmi allontanare, magari spingere o addirittura colpire, invece Holmes non fece nulla di tutto questo. Lasciò cadere gli indumenti che aveva in mano ed affondò le mani nei miei capelli, tirandoli, prendendo poi a mordermi le labbra con cattiveria, con la precisa intenzione di farmi del male o di minacciarmi, probabilmente, ma io non cedetti. Catturai la sua lingua mentre lo costringevo ad indietreggiare verso il letto - sembrava fin troppo debole per essere l'Holmes che avevo sempre conosciuto - e lo feci stendere sotto di me, mentre le dita correvano a sbottonargli la camicia. Per un istante le sue mani mi premettero sul petto e le labbra annasparono alla ricerca di aria - aria concessa solo per qualche istante, dato che qualche secondo dopo mi avventai sul suo collo nudo, mordendolo e sentendo il battito di Holmes accelerare, il respiro spezzarsi a metà.
Man mano che i bottoni cedevano, le labbra andavano ad inghiottire bocconi di pelle, affamate di un corpo decisamente meno delicato del solito, e nemmeno avevo terminato di sbottonare la camicia che subito corsi alla cintura, ignorando i decisamente poco convinti mormorii di Holmes, che mi ordinava di non continuare.
In breve potei godere della tanto agognata vista del suo corpo nudo, alto, sottile, ma solido e tanto, tanto familiare. Tornai a leccargli le labbra, lasciando che la sua schiena si incurvasse e che il suo bacino andasse istintivamente a sfregare contro il mio, al che presi anch'io a spogliarmi del miei indumenti, diventati decisamente di troppo.
Era sempre stata una nostra abitudine, il preferire l'essere totalmente nudi. Era un esporsi all'altro, un concedersi per quello che davvero si era, senza coperture o impedimenti, senza nulla a mascherare difetti o imperfezioni. Non l'avevo dimenticato, questo - nemmeno per un istante.
Affondai in malo modo le unghie nella carne delle sue cosce bianche, scendendo con le labbra fino alla sua erezione e continuando a non badare alla dolorosa pressione che esercitavano le dita di Holmes sulle mie spalle - specialmente sulla parte ferita - nel tentativo di convincermi a lasciarlo prima che fosse troppo tardi.
Lo accolsi nella mia bocca in un gesto rimpianto per tanti anni, e rabbrividii quando le sua mani scivolarono su, fino ad intrecciarsi tra le mie ciocche bionde, stringendole ed assecondando i miei movimenti - Holmes sapeva quanto poco io necessitassi di indicazioni sul come farlo sentire bene.
Venne tra le mie labbra in un gemito roco, dal sapore antico, come una sensazione messa a tacere, più che scomparsa, e che solo in quel momento mi fece capire quanto realmente io avessi perso lasciandolo.
«Watson, ti prego - ti sto pregando - lasciami stare. Non capisci ancora quanto davvero io- ah!» ormai non mi sarei fermato per nulla al mondo, quindi lo penetrai, senza troppa gentilezza, con due dita, ed in breve le sue parole si trasformarono in una serie di rantoli, mentre il fiato gli veniva a mancare, rubatogli in parte anche dalle mie labbra.
Quando finalmente affondai con il mio membro tra la sue gambe, non potei fare a meno di paragonare la violenza di quel gesto perpetrato su di un corpo martoriato dalla vita alla naturalezza ed alla delicatezza del corpo della mia sposa; i morsi che cospargevano la pelle chiara di Holmes alle dolci attenzioni che riservavo invece a lei ogni volta; i pesanti gemiti bassi di lui ai sospiri leggeri ed alle guance leggermente arrossate di Elizabeth. Come avevo potuto anche solo pensare di rinunciare ad una sola di quelle sensazioni, a sceglierne una, accontentandomi di quella per il resto della mia vita, senza impazzire?
Ringraziai il cielo di essere soli in casa, dato che tutta la mia rabbia e l'eccitazione trattenuta durante quegli anni sembrava star esplodendo proprio in quel preciso istante; il letto scricchiolava sotto le mie spinte, la testiera pericolosamente ondeggiante.
Holmes strinse le palpebre, tentando di inghiottire aria. «Watson-» chiamò, in un sussurro quasi impercettibile.
Ricordo che in quel momento, come in un sogno, la voce di Holmes mi rimbombò nella testa, e precisamente risentii la frase che qualche anno prima mi aveva fatto crollare il mondo addosso.
“Non chiamarmi Sherlock. Non ti azzardare mai più a chiamarmi per nome...”
«Sherlock.» soffiai nello stesso istante, a qualche centimetro dal suo orecchio. «Sherlock, dì il mio nome.»
«Watson...» tentò, affondando le dita nelle lenzuola vecchie e consunte.
«Il mio nome, ti prego, dì il mio nome.»
Per un istante un'ombra gli appannò lo sguardo, come se una triste consapevolezza si fosse impossessata della sua mente, eppure ancorò i suoi occhi ai miei, e, sotto i miei affondi scomposti, mormorò «... John.»
«Di nuovo.»
«John!» chiamò, quasi urlando «John!» e di riflesso si morse violentemente le labbra.
In quello stesso istante venimmo entrambi, ansimanti e rabbiosi, e mi accasciai sul suo petto per qualche secondo, prima di essere spintonato via in un gesto insofferente.
Non ebbi nemmeno il tempo di riprendere totalmente fiato, che, voltandomi, vidi Holmes che si copriva gli occhi con il braccio, il petto che si alzava e si abbassava velocemente nel tentativo di ristabilire un battito cardiaco normale. «Jo - Watson, va' via.»
Non riuscii a mascherare il mio stupore. «Cosa? Sherlock, io-»
«Non chiamarmi Sherlock! Taci, e va' via. È ora per me di partire, e la tua famiglia ti starà aspettando, sono sicuro che non li hai neanche avvertiti per bene della tua uscita improvvisa.»
«Sì, ma-» in quell'istante due dita si strinsero attorno al mio polso, ed una serie di scariche scossero il mio corpo in tanto brividi. Quello sarebbe stato il gesto che avrei ricordato per il resto della mia vita.
«Watson, cos'altro vuoi da me? Se tu prendessi la rivoltella nel salotto e mi sparassi in questo preciso istante non ci sarebbe alcuna differenza tra quel gesto e la tua presenza qui. Tra poche ore me ne andrò, e l'ultima cosa che voglio è un tuo saluto.
Se anche solo per un secondo in tutta la tua vita mi hai amato davvero, allora vattene. Sii coerente e meno egoista e vattene. Lascia solo anche me.»
Quelle furono le ultime parole che sentii uscire dalle sue labbra, e le ricordo chiare e vive come se lo avessi qui, davanti ai miei occhi e vicino alle mie orecchie, ad un passo dalle mie labbra.
Mi rivestii senza parlare ed andai via da Baker Street, forse per la prima volta per davvero.
Se era vero, quindi, che l'unico modo per salvaguardare la propria solitudine è ferire tutti, a partire da chi di ama, allora io, uscito da quella porta, diventavo un uomo solo.
E gli uomini soli, si sa, muoiono presto, o di tristezza, o di pazzia.
«Poi il mio amico mi sorresse con le sue braccia muscolose accompagnandomi a una sedia. “È ferito Watson? Per amor di Dio, mi dica che non è ferito!”. Valeva una ferita - molte ferite - scoprire quale miniera di lealtà e di affetto si nascondeva dietro quella sua maschera gelida. Per un momento i suoi occhi freddi come l'acciaio si appannarono e gli tremarono le labbra. Per la prima e unica volta intravidi un grande cuore oltre che una grande mente. Tutti quegli anni di umile ma fedele servizio culminarono in quel momento della verità. “Non è nulla, Ho-”»
«No! Papà, a questo non credo!» sentenziò Thomas, lasciandomi perplesso per qualche secondo.
Dopodiché ridacchiai e poggiai il libro sul bracciolo, arrotolandomi il pantalone e mostrandogli la cicatrice, ricordo di quel giorno. Quando la vide, gli occhi di mio figlio si illuminarono, e mi si arrampicò addosso, sedendomisi in grembo.
«Che bella cosa, papà! Il signor Holmes doveva amarti davvero tanto, vero?» mi chiese, utilizzando la parola “amore” con tutta la naturalezza e l'ingenuità della sua età. Tuttavia, gli carezzai piano i capelli, poggiandomelo sul petto.
«Sì, ed anche io amavo tanto lui.»
«Capito... Ma allora perché non viene mai a trovarci? Mi piacerebbe tanto conoscerlo, prima o poi.»
Sospirai piano, consapevole dell'impossibilità che questo avvenisse.
«Purtroppo ne abbiamo già parlato, piccolo mio. Il signor Holmes è lontano, ormai, e non riceve visite, nemmeno da me.»
Fu il suo turno di sospirare, dopodiché abbozzò un sorriso.
«Sei stato davvero fortunato tu. Dopotutto, eri il suo Boswell, no?»
«Ah, sì.» risi, ricordando sia il momento in cui Holmes mi chiamò così, sia il giorno in cui mio figlio mi chiese cosa fosse. «Sono stato davvero molto fortunato. Chissà, comunque. Forse, un giorno, riusciremo davvero a rivederlo.»
«Lo spero tanto, papà.»
«Lo spero tanto anch'io, piccolo. Lo spero tanto anch'io.»