Character: Steve Rogers; James Buchanan Barnes; Tony Stark; Natasha Romanoff; Clint Barton; Bruce Banner; mcu!Sebastian Stan;
Pairing: Steve/Bucky { stucky }; accenni alla clintasha e alla science bros;
Rating: nc-17
Genre: sentimentale; malinconico; erotico;
Words: 3.477
Prompt:
immageWarning: slash; what if; canon divergence (post the avengers),
Disclaimers: i personaggi appartengono alla marvel e a chiunque ne abbia diritto.
Scritta per: La task 18.2 (july edition) della
1StuckyADay @
till the end of the line - Steven Rogers / Bucky Barnes - Stucky Natasha gli ha chiesto se ci andrà.
È indeciso, anche se forse è il minimo che deve a B. - non per aver chiuso unilateralmente ogni comunicazione, ma per aver fatto di lui un tappo di sughero con cui otturare il buco che Bucky ha lasciato nella propria anima e poi aver deciso di non averne più bisogno. Per essere stato - direbbe Tony, ma lo dice anche Steve - uno stronzo.
Il problema di essere un Avenger, tuttavia, è che nelle missioni non puoi timbrare il cartellino in uscita all’ora che ti pare. Stanno facendo ritorno solo ora dall’ultima che Fury ha affidato al suo Strike Team e manca meno di un’ora all’inizio dello spettacolo a cui è stato invitato.
Il jet in dotazione dello S.H.I.E.L.D. sorvola i cieli di New York a bassa quota. Steve guarda oltre l’oblò, in basso, dove le luci dei grattacieli si mescolano nei toni caldi del giallo e dell’arancio, un mare luccicante da cui i tetti degli edifici più alti spuntano come iceberg di vetro e acciaio.
Natasha lo raggiunge, accomodandosi al sedile accanto al suo. «Se stai pensando di tentare un tuffo nella baia, desisti. Ho già parlato col pilota, stiamo per fare scalo.»
Si volta a guardarla stupito.
La rossa sorride. «Farai in tempo.»
«Non eri contraria?»
«E continuo a esserlo; per una volta, però, Stark potrebbe aver avuto l’idea giusta. Potrebbe essere davvero quello che ti serve. Ma se proprio dovesse rivelarsi un buco nell’acqua, puoi sempre ripiegare su Milly della contabilità. Lo sai che a casa sua ha fatto istallare un palo per la lap dance?»
«Non sono sicuro di sapere in che modo prendere questa informazione…»
Natasha solleva le sopracciglia in un’espressione ammiccante e Steve si pente quasi immediatamente di averlo detto.
- - -
Non ce la farà mai e, se anche dovesse farcela, non lo faranno mai entrare vestito in quel modo, ma non è che abbia avuto il tempo di spogliarsi della divisa per indossare uno smoking. A pensarci, non ne possiede nemmeno uno.
Corre per le strade di New York, sfrecciando incrocio dopo incrocio finché il bip-bip del cellulare non lo avvisa di essere finalmente in prossimità della mèta. Appena in tempo, due minuti dopo e l’ultima tacca della batteria crolla, annerendo il display.
- - -
Contro ogni pronostico, è proprio l’uniforme a dargli l’accesso alla sala.
Gli uomini della sicurezza lo riconoscono e, al passaggio di Captain America, sollevano il braccio destro in un saluto militare. Imbarazzato, Steve ricambia e affretta il passo, anche se uno di loro lo avverte che lo spettacolo è finito da un pezzo.
È arrivato tardi.
A luci spente, si fa strada tra le poltrone e scende i gradini due alla volta, guardando posti che sono ormai vuoti. Si ferma alla fila C - poltrona 32, il posto a lui assegnato. Non che sia importante a questo punto, ma nel guardare quell0 accanto a suo, il 33, gli viene da sorridere immaginando che potesse essere stato quello di B.
Del ragazzo, però, non c’è nessuna traccia; non che possa biasimarlo. Dovrà ricordarsi di restituirgli i soldi che ha speso per regalargli il biglietto, immagina fosse piuttosto costoso: quelle poltrone si trovano così vicine al palco che avrebbe potuto scorgere perfino il colore degli occhi degli attori.
Si ritrova ad osservare il palco; non è che abbia molto altro da fare in fondo e non ha fretta di tornare nel proprio appartamento a Washington. Nessuno lo ha aspetta.
La scia azzurrina dell’unico faretto rimasto acceso illumina un pianoforte a coda che doveva far parte dello spettacolo; per un attimo qualcosa non gli torna. La sagoma delle gambe del pianoforte è irregolare.
Una giovane donna bionda spunta da dietro le quinte, Steve teme voglia cacciarlo, ma lei lo ignora per rivolgersi invece al pianoforte. «Non ti sei dato ancora per vinto?»
La sagoma prende vita e i connotati di un ragazzo, si alza e mantiene le spalle a Steve. Indossa un elegante completo nero, le maniche della giacca arrotolate sull’avambraccio e la camicia tenuta sbadatamente fuori dai pantaloni. «Ancora cinque minuti e arrivo.»
«Che ne è stato dei cinque minuti di prima?»
«Sono passati, quindi ne aspetto altri cinque.»
«Io me ne vado, tu fai come vuoi. Ci si vede domani alle prove.» La donna scrolla le spalle e sparisce dietro ai tendoni.
Steve non sa perché si sia ritrovato a macinare gli ultimi metri che lo separavano dal palco. Guarda dal basso la schiena del ragazzo. Lui sbuffa, si tira indietro di un passo e si volta sotto la luce azzurra che gli illumina corti capelli castani dalla frangia ribelle, tratti ancora fanciulleschi di un mento leggermente squadrato, e occhi di un azzurro scintillante e cristallino.
Steve potrebbe riconoscere quel viso ovunque. Ovunque. Il fatto che, tuttavia, si trovi lì, lo destabilizza. «Bucky?»
Il ragazzo lo guarda. Non appena lo riconosce, gli occhi si illuminano come se avesse visto sorgere il sole dopo anni di buio seppellito in una caverna. «Capitano!»
Un balzo giù dal palco e gli è di fronte. Un metro solo di distanza, settant’anni di ibernazione da colmare con un passo. «Oh Capitano, mio Capitano.» recita giocoso.
Steve, invece, non si muove. È come se il ghiaccio che l’ha tenuto ibernato fosse tornato a reclamare il suo corpo, congelandolo nell’istante in cui ha riconosciuto Bucky e Bucky gli ha sorriso.
Se è uno scherzo, è uno scherzo di cattivo gusto. È crudele e gli sta spezzando il cuore.
Se è uno scherzo, spera che chiunque l’abbia orchestrato sia pronto alle conseguenze e abbia idea di cosa voglia dire ritrovarsi ottantotto chili di super soldato lanciato per atterrarlo e per colpirlo finché non avrà scoperto chi si nasconde sotto la faccia di un fantasma.
Se è uno scherzo, è ingiusto. È sleale. È meschino.
E se non lo è…
…allora vaffanculo.
- - -
Qualcosa lo sfiora all’altezza del bicipite. È difficile accorgersene sotto la stoffa rinforzata dell’uniforme: è un tocco leggero, la punta di due dita che timidamente si fanno avanti, premono e rimbalzano lontano, velocemente, come scottate.
«Ca-capitano?»
Steve osserva la bocca che gli sta parlando, linee carnose color pesco che le gocce di luce dal faretto rendono lucide. La bocca di una bambola, non quella dell’uomo con cui è andato in guerra e che la guerra gli ha portato via, ma quella di un ragazzino imberbe.
Aggrotta la fronte. Crede. Si sente estraneo al proprio corpo e non è più certo dei propri movimenti, ma lo sguardo non si sposta dal ragazzo che, frenetico, si guarda intorno alla ricerca di aiuto.
«Oddio, ho fatto venire una sincope a Captain America… cazzo… cazzo… cazzo…» mormora. Il panico palpabile; forse è quello a riportare Steve a galla, a riattivare il collegamento mente/corpo e restituirgli padronanza delle proprie azioni: solleva una mano, unisce due dita e le porta sotto la mascella del ragazzo.
Lui lo lascia fare, anche se lo guarda apprensivo e con una soggezione che Steve non è abituato a vedersi rivolgere. Ma non dev’essere facile fidarsi del tuo supereroe, quando la tua vita è letteralmente nel palmo della sua mano e sai che avrebbe la forza di spezzarti le ossa del collo se solo lo volesse.
Steve, però, non vuole - solo che non sa di preciso cosa voglia in questo momento, mentre la propria mano indugia in una carezza sul collo del più giovane, muovendola con lancinante lentezza, quasi potesse trasmettere il dolore che gli sta aprendo in due il petto.
«Uhm… batte ancora, vero?»
Lo guarda stranito, senza capire.
«Il mio cuore, intendo… ormai dev’essere salito in gola.»
«Non sei Bucky, vero?»
«Chi?»
Steve preme sulla carotide, percepisce sui polpastrelli il flusso del sangue, il battito cardiaco. È agitato, veloce, emozioni in tumulto racchiuse in un muscolo. Ma quel che più conta è che non sta mentendo.
È Peggy che gli ha insegnato quel trucco, una macchina della verità racchiusa tra indice e medio.
Allontana la mano, ripone il braccio disteso lungo il fianco, quasi ad abbandonarlo lì in attesa che qualcuno venga a reclamarlo. Il cervello sta passando in rassegna ogni possibile spiegazione, pur di non cedere a quella più ovvia.
Dimentica che il ragazzo lo stia fissando già da un po’, immobile, come un soldato in attesa di ordini.
Tenta un sorriso mesto che non deve riuscirgli come sperato, visto l’espressione corrucciata dell’altro. «Mi dispiace, ti ho spaventato?»
Il ragazzo scuote il capo. Ora che è tornato a muoversi, non resiste all’impulso di aprire il palmo al proprio collo, a raccogliere il calore delle dita di Captain America e schiacciarselo lì, sulla propria pelle perché vi rimanga il più a lungo possibile.
Steve finge di non notarlo. «Posso chiederti qual è il tuo nome?»
«Tu puoi chiedermi tutto.»
Lo vede sgranare gli occhi, come se qualcuno gli avesse piazzato in bocca quelle parole e non sapesse come o perché le abbia pronunciate. «Cazzo… Cioè. Sì. Intendo… puoi chiedermelo. Il mio nome. Anche se ormai mi sono sputtanato alla grande e non vorrai più avere nulla a che fare con me. Di nuovo.»
«Perché dici così?»
«Perché hai smesso di scrivermi…»
Steve si rende conto di aver indurito l’espressione quando serra la mascella, una tagliola di denti che spezza la frase del ragazzo e gliela lascia a metà.
È lontana la volontà di trovare per lui una buona scusa da dargli, la verità suona come una barzelletta contro l’amore: non sei tu, sono io, sono innamorato di un ricordo di settant’anni fa e tu, dannazione, tu porti la sua faccia… ma ancora con gli occhi piantati su quel volto, sente pulsare tra le tempie un rancore indignato, che è sì ingiusto, ma che è tutto quel che gli rimane. Per tutto quel tempo si è gonfiato di sogni, come un tarlo all’ingrasso che ha divorato sino alla nausea ogni asse, ogni truciolo di un relitto che in sé aveva ogni memoria di Bucky e che ora guarda affondare in mezzo all’oceano.
Se potesse, probabilmente, artiglierebbe il volto di quel ragazzo per strapparglielo di dosso; non è degno di indossarlo e non è giusto che gli assomigli tanto. Non è giusto.
Non è giusto…
Poi, però, la risata del ragazzo esplode e d’un tratto l’intera sala si carica di quel trillo allegro e genuino. «Sto scherzando, lo so che voi Avengers siete impegnati a tenerci protetti da minacce che nemmeno immaginiamo… e cose che hanno a che fare con difficili decisioni da prendere.»
Steve ha la sensazione che ci sia lo zampino di Stark. Si concede di rilassarsi per un momento. «Qualcosa del genere, sì.»
«Visto? Quindi per tornare al mio nome.» Gli tende la mano. «Sebastian Stan.»
È finita.
Quello è il momento in cui l’illusione si infrange ai piedi di Steve e il Capitano finisce coi piedi nella polvere e la faccia contro il muro della realtà. Non fa male come pensava, forse perché non sente più niente.
«Sebastian?» domanda laconico.
«Sì, ma mia madre mi chiama Baz. Da qui, la B. Ammettilo, ha aggiunto un’aura di mistero.»
Non riesce a sentire nemmeno il sorriso che si costruisce in faccia, mentre stringe la mano di Sebastian. È come stringere un pezzo di carne, non c’è alcuna scintilla, non ci sono farfalle nello stomaco, non c’è Bucky. Ma è questo il punto, non c’è mai stato, che senso ha, quindi, sentirsene tradito ora?
«Steve Rogers.»
Sebastian ricambia titubante la stretta. Nessuno dei due lascia la presa. «Posso farti una domanda, Steve Rogers? Anzi, due.»
«Certo, chiedi pure.»
«Ok, la prima è: come devo chiamarti? Steve va bene? O preferisci Rogers? O devo continuare con Capitano?»
Le labbra di Steve hanno un tremito e dalla gola si fa largo una risata sabbiosa. «Steve va benissimo. Io invece posso chiamarti…» Le dune, però, non gli danno tregua, tornano a sommergergli voce e parole. Allenta la stretta e abbandona la mano del ragazzo.
«Sebastian? Sì.» lo aiuta il più giovane. «La seconda domanda è: sei deluso? È dall’inizio che mi guardi come se ti fossi aspettato qualcun altro.»
No, non è deluso. È confuso, è arrabbiato, è perso - e lo è da troppo tempo, così tanto che perfino un ragazzino con cinque anni meno di lui se ne è accorto.
Non è deluso, è patetico.
Scuote il capo, ingoiando un bolo di saliva solido come un pugno di roccia. «Hai ragione, scusami, non… no, non sono deluso. Mi hai solo colto di sorpresa.»
«Per questo Bucky?»
Serra i denti. «Sì. Era… gli somigli. Forse troppo.» non gli dice che è quello a fargli male, ma Sebastian gli è sempre parso un ragazzo intelligente e gli basta notare la tristezza nello sguardo di Steve per capirlo.
«Uhm… vuoi che mi metta… un cappello?»
Steve allarga le braccia, sbattendo lentamente le ciglia, due volte, come iniziando a riprendersi lentamente da un sogno che gli si sta sfaldando davanti agli occhi e di cui ricorderà soltanto il calore, le sensazioni dolciastre, la nostalgia, ma non i contenuti.
Si sforza di sbuffare. «Con un cappello posso ancora vederti la faccia e comunque non sono messo così male.»
«Beheeee…»
«Sebastian.»
Sebastian sorride, passandosi una mano dietro la nuca. «Fa un certo effetto venire chiamato per nome da Captain America.»
Fa un certo effetto anche pronunciarlo: abbinare finalmente un nome vero a tutte quelle lettere, a tutte le sue confidenze. È come se finora non avesse fatto altro se non correre all’inseguimento di un traguardo invisibile e alla fine, senza rendersene conto, lo avesse superato.
Maratona conclusa.
Tutti a casa.
«Mi fa piacere che Iron Man sia riuscito a dartelo.» Sebastian abbassa lo sguardo alla mano sinistra del Capitano, tra le dita è ancora stretto il biglietto di ingresso per lo spettacolo. Tra i nomi degli attori quello di Stan è tra i primi, la missione l’ha tenuto così impegnato che non ci aveva fatto nemmeno caso.
«Mi dispiace essermelo perso. A dire il vero non avevo nemmeno realizzato che fossi uno degli attori.»
«Mi hanno chiamato esattamente tre giorni dopo che ho ricevuto la tua prima lettera. Alla faccia dell’una su un milione.»
Sebastian ride e Steve, contagiato, si ritrova a fare lo stesso, anche se la sua è un’imitazione alquanto annacquata.
«E invece qual è la storia dietro a tutti gli spartiti?»
Il volto del ragazzo si ravviva, entusiasta per l’interesse del Capitano. «Mia madre insegnava pianoforte. È da lei che ho imparato. A casa siamo pieni di spartiti, alcuni sono così vecchi che non servono più a niente, mentre altri…»
«Altri sono di John Lennon?»
«Te lo ricordi?»
«Sì. È una bella canzone.»
«È una delle mie preferite, mia madre me la cantava quando eravamo ancora in Romania.»
«Sei rumeno?»
«A-ah. rumeno, austriaco, americano.» allarga le braccia col sorriso di un marinaio che ha solcato ogni mare ed è sbarcato in ogni porto. «Appartengo al mondo.»
Steve annuisce, ha tanto l’aspetto di una battuta dello spettacolo che si è perso. «Posso fartela io una domanda?»
«Spara.»
«Perché mi hai mandato quella canzone?»
«Perché non hai mai risposto alla mia domanda. Quella che ti ho posto la prima volta: se potessi, torneresti indietro?»
A dire il vero Steve non pensava se ne ricordasse - o forse sperava così non fosse. «Non ne sono sicuro, forse. Ma qualcuno ci ha tenuto a dirmi che ci sono persone che contano su di me qui, ora, in questo tempo.» E lui, con il suo atteggiamento, li sta deludendo tutti quanti.
Sebastian scrolla le spalle. Lo sa che è un altro di quelli che sta deludendo, ma gli è grato che non glielo faccia pesare.
«Fortuna allora che per adesso ti toccherà rimanere.» Poi, come se un pensiero gli fosse balenato alla testa, il ragazzo si volta ad osservare il palcoscenico. «Ti va se te ne concedo uno privato? Il biglietto, dopotutto, ce l’hai.»
- - -
Di quello che è stato lo spettacolo, la sceneggiatura, i costumi, non è rimasto altro se non un pianoforte a coda e l’abbraccio di abiti su misura di cui Sebastian aveva iniziato a liberarsi prima che Steve arrivasse. Un altro bottone viene fatto scivolare fuori dall’asola del colletto con uno schiocco del pollice e Sebastian sorride dalla panca, battendo sul velluto nero accanto a sé.
Steve si accomoda al suo fianco. Non è riuscito a dirgli di no, non ci ha nemmeno provato e mentre ne guarda il profilo concentrato, mentre segue il percorso della lingua che spunta per umettare labbra carnose che teme torneranno a perseguitarlo nei propri sogni.
Il ragazzo si tira indietro con la schiena, mordendosi l’interno guancia. «Premetto che le mie doti canore fanno schifo.»
«Non ci credo.»
«Fidati, immagina un cane morente in mezzo alla strada. Più o meno sono a quei livelli... però la canzone è bella e mi fa pensare a te.» Solleva con cura il coperchio. «Prima, però, posso farti un’altra domanda?»
«Certo che ne fai tante.»
«È un no?»
Steve scuote il capo. «Chiedi e basta, che tu ci creda o no, non hai bisogno del mio permesso per farlo.»
«Questo Bucky… che fine ha fatto?»
«È morto.» pronunciarlo a voce alta dopo tutto quel tempo ha un sapore amaro. Assoluto come una condanna.
È finita.
Bucky è morto. Ed è finita.
Una pausa. Lunga. Infinita.
Accanto a lui Sebastian si raddrizza sulla panca, il gomito che per un attimo gli sfiora il braccio.
«Ma tu sei ancora vivo.»
Si volta di scatto a guardarlo. Sgrana occhi a parole che sono state anche di Peggy, di Romanoff, di Stark… non le stesse, ma tutte volevano dire la medesima cosa e Steve, testardo come un mulo, non ha mai voluto ascoltare.
Non ha il tempo di rispondere, la musica riempie il teatro.
Sebastian aveva ragione, non è portato per il canto e stona più di una volta; in compenso la musica è perfetta, dita lunghe accarezzano la laccatura nera e bianca dei tasti, li insegue, li vezzeggia, raccoglie note tra le mani e, come stelle filanti, le fa scrosciare delicatamente sulle loro teste.
Steve si ritrova ad ascoltarlo ad occhi chiusi e piano, con la calma che il tempo richiede alle ferite per guarire, sulle labbra sboccia un sorriso sereno.
- - -
Si sono separati poco dopo, ognuno per la propria strada. Beh, non esattamente. Nella mano Steve stringe ancora il biglietto d’ingresso al teatro; in un angolo spicca la firma di Sebastian.
È strano, ora che il mistero è stato svelato, non doverlo più chiamare B.
È strano superare la cassetta postale e non doversi più aspettare alcuna lettera, ma non appena, seduto sul bordo del letto, collega il caricatore al cellulare, il display si risveglia illuminandosi per l’arrivo di un nuovo messaggio.
[Natasha - 00.07] Stark mi sta dando il tormento per sapere se sei tornato a casa sano e salvo e se il tuo giovane ammiratore ha lasciato intatta la tua dote?
[Steve - 00.13] Ti prego, di’ a Stark che non c’è nessuna dote.
[Natasha - 00.14] Posso farlo, ma sai anche tu che non appena lo saprà verrà da te a chiederti i particolari di come l’hai persa
[Steve - 00.19] Stai aspettando che li racconti a te, non è vero?
[Natasha - 00.20] Sono brava a tenere i segreti, Rogers
[Steve - 00.22] Anche io, Nat. Anche io.
Si lascia cadere sdraiato tra le coperte, senza smettere di fissare il cellulare.
Come se li avesse richiamati a sé, qualche minuto dopo, si affacciano nuovi messaggi; sa già che non li ha inviati Natasha.
[Numero sconosciuto - 00.33] Spero che i tuoi timpani stiano bene buonanotte Steve
[Numero sconosciuto - 00.33] Link Youtube
Non riconosce il numero di cellulare, ma ha una qualche idea di chi si tratti.
Una buona manciata di secondi li passa a fissare il link, indeciso sul da farsi, finché con l’indice non preme il touch screen. Il video parte e Steve sorride quando una canzone che ha sentito meno di due ore prima bussa alla sua camera da letto con la voce melodica di un cantante canadese.
It’s a new dawn.
It’s a new day.
It’s a new life.
For me.
C’è Peggy in quella canzone, in un bar solitario, in piedi accanto a lui mentre gli chiede di non rimanere inchiodato alle colpe. C’è Natasha che gli propone appuntamenti con donne che non ha mai visto, e Stark che gli lancia frecciatine e vorrebbe farlo andare avanti a suon di calci in culo, e B. (questa sarà l’ultima volta che si concede di chiamarlo ancora così) che seduto a un pianoforte suona per lui.
E, appollaiato sul fondo del letto, con il sorriso scanzonato con cui l’ha conosciuto la prima volta e di cui si è innamorato tutte le altre, c’è Bucky che gli scocca un occhiolino e con un cenno della mano si prepara a dirgli addio quando Steve sarà pronto.
Forse non sarà adesso. Forse non oggi, forse non domani. Ma prima o poi.
And I feeling good. [3]
Prima o poi.