Character: Steve Rogers; James Buchanan Barnes; Tony Stark; Natasha Romanoff; Clint Barton; Bruce Banner; mcu!Sebastian Stan;
Pairing: Steve/Bucky { stucky }; accenni alla clintasha e alla science bros;
Rating: nc-17
Genre: sentimentale; malinconico; erotico;
Words: 3.973
Prompt: Secret Identity Revealed
Warning: slash; what if; canon divergence (post the avengers), smut;
Note: Sono stanca di questa fic e di tutto il concetto da cui nasce, non perché non lo ami, ma perché è dall'uscita di Endgame che l'idea mi tormenta e mi ci sono voluti mesi solo per trovare la storia da sviluppare. E, nel frattempo, si è fatta avanti la challenge del gruppo stucky: 1StuckyADay, con i suoi bellissimi prompt, tra cui anche quello da cui ho sviluppato (in ritardo, perché altrimenti non sono contenta) questa fic.
Era partita come una flashfic. Tutte le stramaledette fic che ho scritto per la challenge sono partite come flashfic, poi la mia già-poca capacità di sintesi è andata a quel paese e da 500/1.000w che dovevano essere, sono diventate 10.000. E vorrei poter dire che sono uscite da sole, ma ovvio che no, cosa sono un unicorno caga fic? No. Non lo sono, lo vorrei, ma non lo sono e quindi sono settimane che inseguo il finale di questa fic.
Disclaimers: i personaggi appartengono alla marvel e a chiunque ne abbia diritto.
Ispirata alla task 18.2 (july edition) della
1StuckyADay @
till the end of the line - Steven Rogers / Bucky Barnes - StuckyScritta per: la Stucky Bingo 2019; casella: Secret Identity Revealed
L’abitudine a svegliarsi prima dell’alba, Steve ce l’ha sempre avuta. Quando non era l’asma a svegliarlo e l’opprimente sensazione di un incendio appiccato nei polmoni, era l’angosciante attesa del prossimo attacco, la consapevolezza che quei momenti di calma apparente sarebbero stati passeggeri, la boccata disperata del naufrago prima che l’onda lo rigettasse sott’acqua.
Dopo il siero, l’abitudine è rimasta - allora c’erano gli ululati delle bombe in lontananza a svegliarlo, c’erano gli scossoni di Bucky alla propria spalla e i suoi “Steve, sei sveglio?” nonostante sapesse perfettamente lo fosse, e nel buio della tenda rimanevano con gli occhi negli occhi, cercandosi sulla pelle l’uno dell’altro e trovandosi in baci scambiati di nascosto.
Ora il suono della sveglia da comò lo fa sospirare deluso; la mano che si muove a spegnerla ancor prima che inizi a suonare.
A svegliarlo c’è l’assenza di Bucky: dormire su un materasso della consistenza di una nuvola (ai loro tempi potevano solo sognarlo un letto così comodo) e non essere in grado di trovare la posizione giusta, perché gli manca l’incastro perfetto che aveva con il suo corpo. Gli manca avere i suoi piedi gelidi premuti per dispetto contro il polpaccio, la sua risata bassa a rotolargli nell’orecchio quando se ne lamentava, le sue braccia a circondargli la vita e il bacio a stampo sulla tempia a chiedere perdono. Gli manca la sua voce assonnata quando implorava “Ancora cinque minuti, Capitano” e quella rovente di malizia quando, infilandogli le mani nelle mutande, gli bisbigliava “Voglio iniziare la giornata in bellezza”. Gli manca il metallo della sua piastrina a scavargli tra le scapole, a tatuargli addosso il suo nome, la sua matricola, il suo grado - perché in guerra, ovunque Steve si fosse trovato sul campo, lo avrebbe avuto accanto a sé, su di sé; sarebbe stato il suo portafortuna. In cambio Bucky chiedeva solo che vivesse “Per sempre, possibilmente”. Dopo settant’anni nel ghiaccio può dire di esserci andato vicino.
Steve si alza contro voglia.
Alla radio che Stark gli ha regalato - e che sospetta abbia dotato di vita propria, perché ogni volta che le passa accanto si anima felice di saperlo in quel secolo - gracchiano nuove versioni della crisi di New York e dei cosiddetti Avengers. Tra le voci della popolazione, c’è chi ammette di non fidarsi e chi, invece, ringrazia proprio lui.
Steve poggia la mano alla manopola, si lascia tentare dalle luci della gloria e dell’acclamazione; ma è tra le interferenze del canale, nelle pause tra una frase e l’altra, tra sfiatate di sconosciuti alla radio, che ritrova un bicchiere alzato e Bucky a ricordargli chi è stato prima di diventare Captain America. Non è il riconoscimento che cerca o di cui ha bisogno, quello lo lascia volentieri a Stark.
Con un sorriso amaro quanto l’ultimo sorso di whiskey che gli abbia fatto effetto, spegne la radio, finisce di infilarsi le scarpe da corsa ed esce all’aria frizzante di New York.
- - -
Il primo messaggio giunge a metà mattina.
Ricorda episodi poco edificanti davanti alla cassa di un supermercato o sulla banchina della metro, a testimonianza del fatto che non dovrebbe più tenere il cellulare nella tasca dei pantaloni. Quell’affare è però così piccolo che, puntualmente, si dimentica di averlo.
Come se avesse subodorato il momento di debolezza, il bastardo si mette a vibrare proprio mentre Steve è in fila in banca per compilare l’ennesimo ultimo modulo della compravendita del nuovo (primo) appartamento. L’offerta di un intero piano tutto per sé alla Stark Tower lo ha tentato finché Tony non ha trovato il modo di litigare con lui perfino sulla colazione; in compenso ha potuto esibirsi nel bel mezzo della hall della banca in un salto di due metri, allarmato da un messaggio al cellulare.
Mortificato abbassa quanto può la visiera del berretto, sperando che nessuno riconosca in lui l’uomo che pestava Chitauri a suon di scudate.
Affonda la mano nella tasca, tirando fuori il telefono. Il messaggio (a cui ne seguono altri due con agghiacciante velocità) è di Stark; in qualche modo c’è sempre lui dietro alla propria frustrazione.
[Stark - 10.30] Rogers, segnatelo: nel 21mo secolo la gente normale usa le mail. Non fare tanto il prezioso e adattati. È da 1sett che l’ingresso della torre s’è trasformato in una filiale di stoccaggio x la posta indesiderata. Sono pieno di scatoloni con lettere indirizzate a C. Popsicle. Muovi il tuo patriottico culo e vieni a toglierle di mezzo prima che qualcuno c’inciampi
[Stark - 10.31] O le bruci
[Stark - 10.32] O risponda al tuo posto
È l’ultimo messaggio a convincere Steve ad abbandonare l’avanzata verso il bancone. Con il capo chino sul cellulare - e una lentezza imbarazzante - avvisa Stark del proprio arrivo.
[Steve - 10.40] Non fare nulla, arrivo il prima possibile. Dico sul serio, non fare Nulla.
- - -
Non è ancora entrato ufficialmente in possesso del suo nuovo appartamento, che Steve ha già riempito la cantina di scatoloni. Non riuscirà mai a leggere tutte quelle lettere e non ha alcuna intenzione di farlo, ma buttarle via non gli sembrava giusto o rispettoso nei confronti di chi ha voluto dedicargli parte del proprio tempo con tanta dedizione.
Ha deciso di metterle quindi in cantina. Lasciandosi guidare dal caso, ne ha scelte una manciata che ha ora con sé, impilate ordinatamente sulla scrivania della sua stanza allo S.H.I.E.L.D.
La lampada da tavolo illumina un ambiente quasi del tutto impersonale. Avrebbe potuto sistemarsi nella finta camera ospedaliera che lo ha visto risvegliarsi in questo millennio e sarebbe stata la stessa cosa. In fondo, non c’è nulla che abbia potuto portare con sé prima di finire sotto ghiaccio e, forse, è anche per questo che desidera avere una casa propria e un pezzo di carta su cui sia scritto “di proprietà di Steve Rogers”.
Si accomoda alla seggiola di legno.
Sulla sinistra il set di taccuini che aveva trovato ad aspettarlo al suo primo ingresso in quella stanza; gli si è stretto il cuore quando Barton gli ha rivelato che fosse il regalo di benvenuto dell’Agente Coulson. Ha segnato il suo nome su una delle pagine, così come quello di tutti gli uomini e le donne che ha avuto l’onore di conoscere e che ora non sono più con lui, di tutti coloro che sono morti senza che potesse impedirlo, che sono caduti sotto il suo comando o che il tempo gli ha portato via. Il nome di Bucky si ripete per due intere facciate - il nome di Bucky è, in realtà, in ogni proprio respiro.
La sera la trascorre passando in rassegna le lettere. Sono trentadue in tutto e le legge tutte quante sino in fondo, finché, risistemandole, una busta stropicciata non sfugge dal mucchio.
Quando da essa ne estrae un foglio, spiegandolo sotto l’occhio ocra della lampada, si accorge di essersi sbagliato: le lettere sono trentatré.
- - -
La trentatreesima lettera è corta, molto più corta della maggior parte di quelle che ha letto finora, ma c’è qualcosa nella carta utilizzata che lo incuriosisce. La grammatura è spessa, la carta marcata e ingiallita dal tempo e, quando la solleva in controluce, scopre le linee sbiadite di pentagrammi vuoti.
«Questa è nuova.» Sorride.
Dopo averla stirata sul piano della scrivania sotto il palmo della mano, inizia a leggerla.
Hey!
Oddio, ci sarà un’etichetta da seguire quando scrivi a un supereroe, si potrà iniziare con un Hey? Dovrebbero iniziare ad insegnarlo nelle scuole, sarebbe sicuramente più utile che sapere come calcolare l’ipotenusa di un triangolo o qual è il valore del pi greco. Alla faccia sua, Miss Robinson!
Beh comunque ormai è troppo tardi, quindi, insomma: Hey!
Dubito avrai occasione di leggere questa lettera, ma mia madre mi ha detto che mi avrebbe fatto bene (il che significa che lo strizzacervelli le ha consigliato di dirmi che mi avrebbe fatto bene) e che non sarebbe stato poi tempo sprecato se qualcuno della famiglia ti avesse ringraziato per quello che hai fatto. Non puoi saperlo, ma mio padre è uno dei tanti che hai salvato quel giorno a New York… o forse lo sai e, da qualche parte nel vostro covo segreto, avete un tabellone in cui segnate i punteggi e indicate i nomi di chi avete salvato. In questo caso il suo nome è Anthony, sì, come Iron Man, ma giuro che non me lo sto inventando per attirare l’attenzione!
Se devo dirti la verità non credo che potrai mai capire quanto ti sia riconoscente. Hai salvato mio padre, ma salvando lui hai salvato mia madre dal dolore di perderlo e, quindi, me. Tre in un colpo solo non è male.
Comunque, visto che le probabilità che tu mi legga si avvicinano molto a quelle che ho di passare il prossimo provino (una su un milione?), spero non ti spiaccia se ne approfitto per togliermi una curiosità. Probabilmente te l’avranno già chiesto in ogni salsa ma se potessi, torneresti indietro? Immagino che il mondo di oggi ti sembrerà un caotico circo a tre piste e tu lo spettatore che ha perso il biglietto ed è costretto a guardarlo nascosto sotto ai sedili, tra gli schiamazzi del pubblico, afferrando immagini a pezzi. Ma ti prometto che non è così male una volta che ti ci abitui e, hey, se mai decidessi di rimanere il biglietto te lo offro io! (è il minimo che possa fare in fondo e poi sai che figurone ci farei con le ragazze?)
p.s. Ho messo l’indirizzo a nome di mio padre, così saprai che non ho detto cazzate e si chiama davvero Anthony.
La firma è un’unica lettera puntata.
B.
Steve la traccia incredulo con la punta dell’indice. Ha sentito il sorriso colare via dalle labbra ed è certo che, se ora guardasse il pavimento, lo troverebbe in terra, in un ammasso gelatinoso di carne rosa pallido.
È stupido che per un attimo il proprio cuore si sia fermato, è stupido che per un attimo abbia sperato, è stupido che il nome di Bucky sia tornato ad alitargli sul collo e senta la carezza invisibile della sua mano scompigliargli i capelli e dargli del sognatore. Eppure come le possibilità che lui leggesse proprio questa lettera - una su un milione -, chissà…
Prende quindi carta e penna e inizia a rispondere.
- - -
Wow.
Captain America mi ha risposto.
Wow.
Credevo che gente come voi avesse stuoli di agenti o segretarie incaricate di rispondere, o che inviasse cartoline prestampate col disegno di un cagnolino avvolto dalla bandiera americana e un “Grazie per avermi scritto, cittadino random” in Times New Roman. Pensa invece alla mia sorpresa, quando mio padre mi ha consegnato una lettera con una scrittura così antiquata (senza offesa, davvero, non è per offenderti, mi piace la tua scrittura) che mi stupisce tu non abbia usato pennino e calamaio. Dio, penso che odierei scrivere così al pari di quanto odiavo usare la stilo!
Steve interrompe bruscamente la lettura, si allontana dalla scrivania e mette distanza tra sé e la lettera che ha recuperato da poco dalle grinfie di Stark. Ma è già troppo tardi, la voce allegra di Bucky si affaccia alla stanza dando vita all’ultima frase. Lo sente così forte, così distintamente, che è come se fosse accanto a lui, a ruotare gli occhi al soffitto lasciandosi cadere a braccia spalancate sul letto con una smorfia schifata dedicata a qualche ricordo scolastico. E poi gli direbbe che non dovrebbe parlare con i fantasmi, che dovrebbe dormire di più, che dovrebbe comprarsi un cane o una pianta e, se proprio deve, parlare con loro.
Si passa una mano sul volto, trovando le guance umide; asciugandole, finge di non saperne il motivo.
Si alza, infilandosi la giacca.
Ha voglia di bere. No, non è accurato: ha voglia di scopare, perché è l’unico modo che conosce (e che funziona) in cui sia mai riuscito a perdere se stesso. Ma l’unica persona con cui avrebbe potuto farlo - l’unica in grado di farlo stare bene - è neve e ossa disperse tra le Alpi italiane.
Mettendo mano al cellulare, invia un messaggio a Stark - chissà che non voglia tenergli compagnia, mentre cerca il modo di uccidere un po’ di cellule da supersoldato e indursi in un qualche stato che possa somigliare all’ubriacatura.
La lettera rimane sulla scrivania. Finirà di leggerla un’altra volta.
- - -
La corrispondenza con B. prosegue.
Quando si trasferisce definitivamente nel nuovo appartamento, Steve decide di dargli l’indirizzo di una casella postale che ha affittato sulla stessa via.
In tutto questo tempo nessuno dei due ha chiesto il nome dell’altro: sono rimasti B. e Captain America, più simili a due personaggi di un fumetto che a due persone reali. Ha paura che una volta saputo il suo vero nome finisca la magia, che il fantasma di Bucky scompaia da quei fogli e lui torni a essere solo, intrappolato fuori dal proprio tempo, come la punta di un giradischi finita fuori traccia, costretto a vivere in un mondo che non gli appartiene.
Ha messo in tasca la nuova lettera e sta tornando a casa dall’ufficio postale, quando si ritrova un’intera foresta esotica trapiantata sul pianerottolo e un cesto di vimini con le gambe con tanto di quel cibo che potrebbe sfamare un reggimento.
Accanto a piante e cesto, con sorrisetti sdolcinati, i suoi colleghi di lavoro.
Steve non è nemmeno così sorpreso. «Non so che idea vi siate fatti, ma non ci starà mai tutta questa roba nel mio appartamento. Non è così grande.»
Natasha fa spallucce. «Dillo a Stark, è lui quello che ha bisogno di compensare.»
La rossa ha tra le mani una bottiglia di vodka che dondola soddisfatta. Accanto a lei, Barton mostra sforzo mentale nella scelta del regalo che gli ha comprato per inaugurare la nuova casa: agita un cavatappi. Sia mai che il Capitano perda gli altri due che la Hill e Fury gli hanno regalato prima di lui.
Prima che Steve possa farsi largo sino alla porta del proprio appartamento, il cesto con le gambe parla con la voce di Stark. «L’unica cosa che ho da compensare è la tristezza dell’appartamento di Rogers. Se ha la stessa vitalità della tua stanza allo S.H.I.E.L.D. tanto vale chiedere al buon dottore qui presente di prescriverti qualche antidepressivo. Non che ti sia andata così bene l’ultima volta che hai cercato di ucciderti, ma qui per le gelate ti toccherà aspettare Natale.»
«Per favore, non mettetemi in mezzo.»
C’è l’idea di una pacca alla spalla di Banner, nella spinta che gli tira Tony. Il dottore è una tartaruga che si ritira nel proprio guscio, incassa la testa e stringe le braccia intorno all’orchidea che Stark gli ha piazzato in braccio qualche ora prima. Il contatto, però, in fondo non lo rifugge.
Steve li guarda sorridendo, quasi felice della loro presenza. Un po’ di compagnia non ha mai fatto male a nessuno.
- - -
«E da quanto andrebbe avanti questa storia?» Stark non ha smesso di parlare per un secondo, nemmeno il bicchiere che Banner gli riempie sembra tenergli la bocca occupata più a lungo di un respiro. Ingolla vodka con un verso d’apprezzamento rivolto alla Romanoff e torna a vezzeggiare le proprie orecchie col suono della propria voce. «Ma soprattutto, chi diavolo è che scrive ancora lettere in questo secolo?»
Accomodato al divano con un braccio disteso sullo schienale, che nemmeno tanto casualmente sfiora la schiena di Natasha, Barton ridacchia divertito. «I fan di Captain America, a quanto pare.»
«Non è un mio fan. È solo un ragazzo che ha voglia di parlare e ha trovato qualcuno con cui farlo.»
Natasha affila lo sguardo, lo studia come se cercasse di capire se davvero crede in quello che sta dicendo, se è davvero così ingenuo come il suo look da bravo ragazzo vorrebbe far credere. «E chi ti dice che sia solo un ragazzo?»
«Me l’ha detto lui.»
«Oh, Rogers.»
Non gli piace l’inclinazione nella voce della rossa.
«Dammi il nome.» Tony schiocca le dita, come a ordinare un altro drink, con la differenza che questo rischierà di andare di traverso a Steve.
«Quale nome?»
«Il nome del tuo ammiratore segreto, fulmine di guerra! Che altro nome credi mi interessi, quello del tuo stilista cieco?»
Steve svirgola un’occhiata da Stark a Banner, forse cercando in lui pezze per rattoppare la propria pazienza. È l’unico che non ha ancora parlato e con un sorriso bonario solleva le spalle in quello che sembra tanto una giustificazione rassegnata, un “è fatto così, ma non è cattivo”.
E Tony cattivo non lo è davvero, è solo fastidioso: «Allora, questo nome?»
«Non ce l’ho. Lui non conosce il mio nome e io non conosco il suo.»
«Oh, Rogers.» Questa volta nell’intonazione di Natasha c’è una nota divertita.
Ma Stark non si arrende. «E le tue lettere in risposta a chi le spedisci? Chiunque sia J.A.R.V.I.S. può avviare un controllo su di lui e accertarsi che non si tratti di un cinquantenne psicopatico con il fetish delle divise da supereroe datato.»
A Steve non rimane altro se non capitolare: «Anthony Fruhauf. Da quel che ne so è il preside di una scuola.»
Il sorriso smaccatamente divertito di Stark si allarga da un orecchio all’altro. «Ripeti un po’, hai detto Anthony? Siamo sicuri che sia proprio un tuo fan?»
«Ti prego, tieni per te ogni commento.»
La richiesta, ovviamente, cade nel vuoto; perfino Banner, questa volta, prende parte al discorso.
- - -
Come promesso, quella stessa notte rientrato a New York insieme a Banner, Stark avvia un controllo sul nome che Steve gli ha fornito. I risultati devono essere più soddisfacenti del previsto, perché non aspetta nemmeno la mattina successiva per informarlo. Anche se forse, se Steve sta iniziando a capire bene come funziona il cervello di Tony, azzarderebbe l’ipotesi che fosse solo preoccupato per lui.
[Stark - 01.45] Pericolo rientrato, Cap. Nessun 50enne psicopatico sta cercando di attentare alla tua verginità. Ti ho inviato per mail tutte le informazioni su Preside!Iron Man e famiglia, così puoi scegliere se rovinarti o meno la sorpresa
[Steve - 01.51] Grazie Stark. Dico davvero.
[Stark - 01.52] Solo 6min per digitare 4w? Qualcuno si è allenato
[Steve - 01.55] …ok, buonanotte.
[Stark - 01.56] Suscettibile il Capitano. Dai, sul serio, prima toglimi una curiosità. Che te ne fai di scambiarti letterine con un ragazzino
[Steve - 02.02] Non è per le lettere, né per il ragazzino (che comunque ha 21anni).
[Stark - 02.03] 21 anni, ok, potrai berci legalmente una birra e farci tutti i sogni erotici che vuoi. È anche carino se ti interessa, dev’essere l’unico studente al mondo in grado di uscire decentemente su una fototessera universitaria. Comunque se non è per lui o per le lettere, per che cos’è
[Stark - 02.06] Non puoi capire.
[Stark - 02.07] QI oltre la media, ricordi? Mettimi alla prova
[Stark - 02.20] Cap, ci sei ancora?
[Stark - 02.23] Lasciamo perdere, ok? L’ora non mi aiuta a essere più veloce con i messaggi.
[Stark - 02.24] Sì certo, bella scusa. Come ti pare. ‘notte
- - -
Nonostante ogni buon proposito, Steve non chiude occhio per tutta la notte.
Sdraiato nel proprio letto, si rigira tra le mani l’ultima delle lettere che B. gli ha inviato.
Come le precedenti, ha usato un foglio pentagrammato. Ma in questo le linee non sono scolorite, né vuote: la lettera è stata scritta sul retro di uno spartito per pianoforte.
Al centro è stampato il titolo di una canzone che Steve non ha mai sentito. È nata dopo di lui, dopo la guerra (quella che credevano avrebbe messo fine a tutte le altre), dopo il ghiaccio. Ma, anche se nella danza si muove con l’eleganza di uno scopettone, conosce la musica, sa come leggere uno spartito e si ritrova a mugugnare a ritmo.
Tasta le note esitante, le assaggia prima nella mente, finché non si sente abbastanza sicuro da lasciare che le parole scorrano tra labbra già schiuse.
Alla fine Steve inizia a cantare sottovoce.
Imagine there's no countries
It isn't hard to do
Nothing to kill or die for
And no religion too
Imagine all the people living life in peace[1]
È come se quella canzone fosse una mappa per un nuovo mondo, un modellino su cui basare ogni propria fantasia.
Immagina una città senza nome, una bandiera senza colore, una guerra mai iniziata e al centro del mondo il sorriso disinvolto di Bucky. Lo immagina disteso in un prato infinito, tra campanule che cantano al vento; i capelli scompigliati, la maglia arricciata a scoprirgli l’ombelico e le proprie dita che indugiano sulla sua pelle. Immagina di toccarlo, di veleggiare coi polpastrelli sui respiri del suo petto e di battere con le dita a ritmo, suonando su di lui una musica mai sentita, cantando per lui una canzone mai cantata.
Immagina di averlo ancora al proprio fianco, di aver saputo che un altro Uomo fuori dal tempo si fosse svegliato in quest’epoca e di essersi trovato al suo capezzale quando avesse aperto gli occhi. Immagina gli occhi sgranati di Bucky e poi la meraviglia incontenibile per ogni novità, per ogni passo avanti che la tecnologia ha fatto. Immagina di poter rispondere al suo “Dove siamo?” con un sorrisetto saputo: “Siamo nel futuro”.
Ma quando la canzone finisce è di nuovo solo in quella stanza e il volto spaventato di Bucky aleggia e cade tra le righe nere del pentagramma, scomparendo dietro a un “fa” silenzioso come neve su un ghiacciaio.
Con una mano Steve tasta le lenzuola sotto di sé, il cotone ruvido, dozzinale; le ha comprate in saldo in un negozio all’ingrosso, cedendo all’incapacità di addormentarsi in un abbraccio più morbido. Anche se non si avvicinano minimamente alle lenzuola di cartavetrata in cui lui e Bucky si arrotolavano d’inverno, sono meglio di niente. Lo aiutano a ricordare come, al di sotto di esse, le loro mani viaggiassero, esploratrici alla conquista di nuove terre, alla riscoperta della loro pelle nuda, toccandosi ogni volta con l’incantata emozione della prima, svelando linee di muscoli che sotto i polpastrelli si tendevano frementi, e dandosi battaglia sino all’ultimo ansito.
La lettera scivola spiegazzata accanto a lui, atterrando senza suono sul materasso. La mano che ha usato per tenerla trova posto tra le proprie gambe, dove scie di piacere gli strisciano sotto i boxer, gocciolando oltre gli orli dei ricordi e reclamando un tipo di attenzione che non ha più concesso a nessuno - né si è mai concesso da solo. Stark direbbe (nel suo colorito vocabolario) che è un uomo all’antica, il timorato di Dio che condanna la lascivia dell’autoerotismo come seme di un onanismo da cui non nascerà alcun frutto. E, se solo potesse sentirlo, Bucky riderebbe di gusto dopo averlo messo a tacere con un’occhiata eloquente.
Steve socchiude gli occhi, alza il bacino, la mano aperta a strofinare il palmo sul membro, in un tentennato movimento circolare. Ha la stessa esitazione che prima lo ha colto per lo spartito, e mentre avvolge la propria erezione nel calore delle dita, si sente scivolare via come la lettera, si sente ingoiare dalle pieghe del materasso, dall’odore di ammorbidente delle lenzuola, dai cigolii del letto. Tutto quello che l’ha tenuto ancorato in quella realtà cola via tra gocce bianche di sperma, si sfalda masticato da gemiti rochi, corroso dalle dita che salgono e scendono lungo l’asta dura dal pene. La stretta delle dita lo strozza alla base, si masturba con una durezza che gli butta fuori una ferocia triste e rabbiosa, quasi non meritasse di godere in assenza di Bucky.
L’orgasmo lo coglie quasi di sorpresa, è piacere forzato che gli riversa nella mano sperma, nostalgia e un’insensata voglia di piangere.
«Ricomponiti Steve, stai iniziando a diventare patetico…» la sua voce giunge distante, dal limbo in cui gli sembra di essere finito da che si è svegliato. Non si trova nel suo anno, ma nemmeno nel 2012 - è da qualche parte nel mezzo, a nuotare senza tregua tra onde che lo sbattono contro gli scogli, alla ricerca di una riva su cui approdare.
[1] Imagine, JohnLennon =
https://www.youtube.com/watch?v=7FX4D1jU2m8[2] Feeling Good, Michael Buble =
https://www.youtube.com/watch?v=Edwsf-8F3sI (in realtà la sua è una cover, l’originale è stata scritta per il musical The Roar of the Greasepaint - The Smell of the Crowd)