(no subject)

Apr 01, 2008 10:33


D'Ambra tranquillamente avrebbe potuto certificare che: io a questo figlio mio ogni giorno gli misuro la percentuale di grasso corporeo col plicometro. Poi anche gli massaggio le mani con l'olio d'oliva, che è un segreto che m'ha insegnato il mio maestro di quando ero stato non lontano dalla nazionale dilettanti e ti aiuta a non spaccartele perché tu lo sai, non è nemmeno questione di averle fragili o meno, la mani, piuttosto è proprio di colpire qualcosa di duro una volta dopo l'altra. Mille volte, diecimila volte. E poi questo figlio mio non si è mai sicuri che s'è ripreso bene dalla frattura allo scafoide. Io penso che l'olio d'oliva alle mani lo aiuta.

Benito D'Ambra era di quelle persone venute al mondo nel segno di quella comune acqua di scolo della fortuna secondo la quale pranzo e cena quasi sempre li hai assicurati (con qualche ammanco, vuoi di grassi o proteine, a seconda delle male parate, della stagione, del bisogno di avventizi a cui dar lavoro, delle ubbie de' caporali eccetera), ma niente di più. In altre parole, morir di fame non muori.
Una volta di queste genti come D'Ambra ce n'erano moltissime, poiché ampie plaghe del suolo patrio avevano in forse la sussistenza e bisognava buttare il sangue mane e sera.
Le donne malgrado loro avevano a figliare come coniglie e stavano nelle case senza l'acqua corrente coi bambini in nidiata attaccati al corsetto. Gli uomini del resto possedevano una sola camicia bianca senza colletto, una giacca, un berretto, e il bicchiere di vino, nonostante le legne alcoliche che capitava loro di pigliarsi all'osteria, avevano comunque il gesto di levarlo alla bocca con circospezione.
Adesso per molti aspetti fortunatamente non è più così, anche se, al converso, ormai tutto quanto nel mondo nostro va avanti, per così dire, mosso da una rete assai ramificata di spin doctors annidati ovunque ci sia da spartirsi qualche cosa di manducabile, ciò a dirsi senza intento polemico.

Ad ogni modo codesta realtà nazionale “di prima” fu quella in cui D'Ambra venne su dall'infanzia fino a quando lo mandarono a militare con la leva obbligatoria. Lascia stare che a scuola ci andò in maniera episodica, per usare un'espressione che veramente non dice tutto, e che quindi invece che tra i banchi usciva per campi ad aiutare quando ce n'era. Questo finché non partì ancora ragazzino per altre e lontane regioni. Mandava soldi a casa.
La questione piuttosto fu il pugilato, poiché nella città del settentrione dove D'Ambra andò a vivere, per le consuete ragioni d'emarginazione e consequenziale ricerca del riscatto si trovò a frequentare una palestra di rione. Non che avesse gran voglia di fare a botte. O meglio, non se la andava a cercare, però se capitava -e capitava- certo non voltava la faccia dall'altra parte.
'Tu capace che non ti fermi. Tu va a finire che se capita ancora che ti trovi in una storia come questa finisci a far male ma veramente a qualcuno' gli disse una volta un amico che faticava con lui in cantiere, quando un gennaio all'alba per strada stavano con mani e avambracci dentro alla neve a calmare le vaste ecchimosi bordeaux che vi si erano diffuse ovunque per via d’una rissa.




In palestra certo a D'Ambra lo disciplinarono, gli insegnarono anche molte cose, compreso a portar rispetto al maestro e a sopportarne i vaffanculi, per dire delle cose più lievi. Ma quello era anche un brav'uomo: ti spiegava come stare al mondo, a combattere, ti faceva intravedere una strada.
Calcola anche che il ragazzo D'Ambra era una belva. Dal punto di vista del pugilato, non c'era modo d'incanalarlo. Andava all'assalto come quei pazzi con la spada snudata che cadevano come mosche nelle cariche a cavallo. Pigliava un sacco di colpi, ma lo stesso t'arrivava addosso a metterne a mazzi quasi non sentisse il dolore.
Ricordava in piccolo l'atteggiamento del vecchio Rocky di Ripa Teatina, la leggenda.
L'allenatore a vederlo così un po' ci rimaneva contento, un po' scuoteva la testa.
'O sei fatto di ferro, ma non sarei troppo sicuro, oppure ti romperanno il culo... vedi te. E dire che qua stiamo a fare tre riprese coi guantoni che sembrano cuscini’ gli diceva quando era di cattivo umore o forse particolarmente sincero.

Poi quel momento di speranza giunse al termine. Era stato un sogno, si capì poi, che era volato via come un lenzuolo fresco di bucato quando si scioglie dai fili per colpa del vento e va a terra in mezzo allo sporco del cortile.
Arrivati ad un certo punto della strada il D'Ambra da giovane non aveva più tempo per stare dietro a tutto; non c'erano i mezzi, non c'era il modo di pervenire ad un equilibrio tra il defalcare denari alla paga per mandarli al paese e il tenerne per sé.
Probabilmente, e inoltre, non era un atleta che avesse caratteristiche da farlo spiccare tra gli altri. Si faceva rompere il muso e invece che bravo gli dicevano ch’era stato un pirla a vincere così, senza celare la mascella al nemico dietro una guardia che volevasi non-perforabile.
E D’Ambra non capiva, seduto sul lettino degli spogliatoi con le stecche inastate d’ovatta ficcate in entrambe le narici ricolme di sangue. Un po’ anche s’incazzava, benché col rispetto residuale. Ma insomma, aveva vinto; che altro conta?




Nel tempo crescevano l'età e i bisogni. Si era preso questa ragazzina. Col fatto che lavorava sempre più spesso fino a tardi per alzare una cifra bastevole, e che doveva pur andare a prelevarla, la ragazzina, con un Vespotto che aveva comprato forse addirittura di terza mano, saltò degli allenamenti.
Perse tre, quattro incontri, cosicché una volta il maestro gli tiro il secchio di latta in testa facendogli un bernoccolo che torreggiò tra i capelli per giorni.
La conseguenza fu quella: dopo un periodo di sfilacciamento smise alla fine D’Ambra con la boxe.
In seguito sposò la ragazzina. Ci fece tre figli; uno nacque morto.

Da lì in poi diverso tempo trascorse, e col tempo succede che nelle giornate d'un uomo proprio dentro alle parti fondanti proliferi una materia spugnosa che ha la parvenza di autentiche zolle di malcontento. Stazionano nel sangue e nell’umor acqueo.
Si tratta di un curioso, forse deprecabile fenomeno del procedere la vita, secondo il quale quello che probabilmente hai scelto (ma non sempre ne hai avuto facoltà) come definitivo, ad un certo punto ti si frange tra le mani.
Mostrata è la midolla, il corso della consuetudine e della necessità. Il moto dei rimpianti non vuole sentire ragioni e ti tira giù fin dentro a una morta vegetazione nella quale il passato acquista una fattibilità quasi fiabesca. Un passato nel quale tutto poteva succedere a colui che era il Prescelto.
In questo, D’Ambra immaginò di come inderogabilmente avrebbe potuto finir con l’alzare le braccia da vincente, la cintura di campione di tutte le sigle che gli cingeva i fianchi. Sotto le luci che s’accendevano e spegnevano di gioia secondo un loro calibrato diagramma. Può darsi anche con i sopraccigli tagliati, ma pur sempre vincitore. L’irrealtà evidente di questa visione nella sabbia del tempo ad assumere contorni sempre più oggettivi.

Ma come... c’erano stati il talento, la predisposizione. Se non fosse stato che le avversità della vita ti si sono accanite contro, quasi che il sistema tutto temesse ciò che di grande avresti potuto compiere. Tarpandoti le ali, azzerandoti, richiudendoti a tripla mandata nelle mende di un’esistenza qualunque.
Quante cose si dimenticano o candiscono amare nel percepire la miseria dell’oggi…
E' questo un miraggio che ferisce la vista di molti, soprattutto quando la gioventù è trascorsa e si ha come la sensazione di non avere più alcuna via di scampo. Questa fu la frustrazione che visse D'Ambra, messo ai ferri tra il faticare per pagare i conti e le necessità della famiglia.
La vampata del suo ricordo di pugilatore si alimentò del nulla della quotidianità, e tutto ciò che il pater familias da se stesso spodestato ebbe in potere di fare per mantenersi alla superficie fu di riversare le proprie aspettative infelici su suo figlio Cosimo. Ossessivamente.

(fine della seconda puntata)
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