(A house without books is like a room without windows - photo (C) by
*Lulu on Flickr)
Si chiamava Lewis ed era tutto quello che sapevo di lui.
Quando lo vidi per la prima volta lo scambiai per una parte dell’arredamento della sala. Se ne stava infossato nella poltroncina dal gusto bizzarro, tenendo in bocca una lunga sigaretta di fattura indiana, il fumino grigio che usciva a tratti, insieme al respiro. Aveva gli occhi persi nelle pagine di un libro cortissimo dalla copertina sgargiante e dal titolo improbabile. Sul tavolino davanti a lui era poggiata una tazza sbeccata ed un paio di guanti di pelle. Dalla tazza scivolava verso l’alto l’odoroso ricordo di tè alla menta.
Mi dissero che non si muoveva mai da quella poltroncina, quasi fosse un nido e lui la chioccia paziente in attesa di un uovo. Era arrivato con un treno, nessuno sapeva bene quando, ed era rimasto nel piccolo hotel senza segno di volersi trasferire. Era un uomo puntuale e periodico. La mattina si alzava e si copriva il viso col bavero dell’impermeabile, sempre quello, e col suo passo alla Clark Gable, si dilungava in una passeggiata nella terra di nessuno, dalla quale tornava senza mai un ricordo o una sportina. No, niente.
Entrava, spingendo con la punta delle dita la porta di legno dalla vetrata colorata, lanciava un’occhiata al bancone della reception, sovente trovandolo vuoto, e si rinchiudeva in camera per svariate ore. Poi, di pomeriggio, lo si poteva ritrovare sempre su quella poltroncina, con la sigaretta in bocca ed un libro ogni volta diverso in mano.
Aveva lasciato alla reception una firma sbrigativa e saldava il proprio conto ogni mese con la minuzia e puntualità di un generale dell’esercito. Ma, a parte questo, nulla. Non cenava lì, né consumava la colazione. Prendeva solamente un tè alla menta al pomeriggio ed era tutto quello di cui sembrava vivere.
Pareva uscito da un romanzo di nicchia, un personaggio di contorno ad una storia che non legge mai nessuno. Lui ed il suo profilo indecifrabile di cui nessun occhio s’era mai curato, se ne stavano immersi in un libro cortissimo dalla copertina sgargiante e dal titolo improbabile. Le mani esperte sfogliavano le pagine lentamente, con calma, quasi prendesse con comodità sia la propria vita che quella scritta nei libri. Eppure, che se ne sapesse, non era mai arrivato alla fine di nessuno dei libri. Non aveva mai sfogliato l’ultima pagina, chiuso il libro e appoggiato sul tavolino accanto alla tazza ed ai guanti. Mai.
Lui leggeva solo le prime 100 pagine.
E nonostante quei libri fossero talmente corti da parere raccontini, e magari arrivavano a fatica a pagina 110 o simili, lui si fermava. In lui non v’era la curiosità di vedere come la storia finisse o cosa potesse mai succedere dopo. No. Lui leggeva le prime cento pagine, poco importava se finivano con un punto o una virgola. L’ultima parola era per lui un’invisibile fine. Chiudeva il libro, spegneva la sigaretta dentro la tazza con un fischio sottile, poggiava i guanti sul libro e tenendolo come un piccolo vassoio, saliva nella sua camera per spuntare fuori solo la mattina dopo, il bavero dell’impermeabile a coprire il viso.
Ed oltre al fatto che si chiamasse Lewis, questo era tutto quello che sapevo di lui.
Io e la mia sciarpa a righe, che profumava di freddo e di lana cotta, entrammo per la prima volta in quell’hotel senza tante speranze. Non impiegai molto a cambiare la mia compagna con una comoda divisa un po’ troppo grande per me. Presi posto al bancone della reception ed iniziai a scrutare una per una le piccole cellette delle chiavi delle stanze. Cercavo un codice, un segno, come facevo sempre in tutto: nei giorni del calendario, nei prezzi dei menu delle tavole calde in cui mi concedevo di mangiare ogni tanto. Quando compravo un giornale, quelle rare volte che non lo usavo subito per imbottirmi gli stivali e non patire il gelo mentre camminavo, cercavo un codice anche nelle parole lette a caso.
C’erano cellette vuote e cellette con la loro chiave addormentata dentro. Ma nessun codice. Ogni tanto, qualche chiave luccicava distratta, come ad aprire un occhio per scrutare clienti all’orizzonte, poi tornava a dormire nella sua celletta. Il grosso portachiavi dorato, numerato in azzurro, ronfava della grossa.
Nel silenzio della piccola saletta, che pareva costruita da Gaudi (o almeno così volevo convincermi, anche se ben sapevo che era solo colpa del tempo e dell’umidità), trovai diletto nella rilettura del grande librone delle prenotazioni. Era questo un’immensa distesa di carta giallognola e di nomi firmati in fretta, numeretti ordinati di stanze accoglienti e cognomi addossati al loro nome padrone. Quando arrivai al giugno del 1998, l’uomo che leggeva solo le prime 100 pagine entrò, spingendo con la punta delle dita la porta di legno dalla vetrata colorata e lanciò un’occhiata al bancone della reception che sovente trovava vuoto.
Mi vide?
Forse, abituato al solito vuoto, non si accorse nemmeno della mia presenza, seduto com’ero sullo sgabellino, chino sul librone delle prenotazioni. Lo salutai con un cenno del capo, ma lui mi trattò come si tratta un quadro da anni appeso al muro: non mi degnò che di una rapida occhiata. Mi sentii come il giornale del giorno precedente: inutile sul tavolo.
Ricomparve poco dopo, un libro in una mano ed i guanti nell’altra. La sigaretta spenta tra le labbra. Si sedette sulla poltroncina come un legittimo re sul trono ed iniziò a leggere.
Tra quelle mani scivolavano via assurdi titoletti brevissimi o fin troppo lunghi, strani disegni quasi scarabocchiati occhieggiavano dalle copertine di cartoncino spesso. Acqua. Molto forte, incredibilmente vicino. Ogni cosa è illuminata. Non buttiamoci giù. Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Soffocare. Il karma del Gorilla. Le confessioni di una donna troppo normale. La donna che non poteva essere qui. Mi piove in casa e dentro. L’appartamento inglese. Dimenticami. Brutti.
Per quei libri non provavo curiosità. Forse, all’inizio, li spiavo e provavo ad immaginarmi la trama, finendo quasi sempre sulla luna o sotto ad un ponte con personaggi perlopiù scopiazzati dai pochi libri che avevo letto.
Poi, giorno dopo giorno, quasi affascinato da quell’abitudine insolita, iniziai ad invidiarli. Invidiavo le pagine che lui sfogliava, le righe che i suoi occhi accarezzavano e le parole che nemmeno sapevo se gli rimanessero dentro o venissero bellamente ignorate. Mi sentivo come un ammiratore davanti al suo idolo: non volevo parlargli troppo per paura di risultare noioso, ma allo stesso tempo avrei venduto il fegato al carnefice per farmi guardare anche solo un istante, per essere padrone della sua attenzione il tempo di un respiro. Avevo in petto quella strana sensazione di aver fatto e di stare facendo sempre troppo poco, una sciocca paura di esser lì lì per perdermi una grande occasione, lasciando che qualcuno mi passasse avanti.
Mi convinsi così di essermi innamorato di lui.
Lo amavo con quella sciocca follia che ci fa credere che il personaggio di un libro o di un film possa essere nostro, con la gelosia stizzosa che attanaglia il lettore quando il protagonista favorito si innamora di qualcun altro. Amavo il suo andare e venire con l’orologio, quei quattro oggetti che si portava dietro, il suo profilo scuro contro la luce della finestra.
La sua figura che non riuscivo a descrivere se non come “mia” ed appartenente a me stesso, sembrava quasi dipinta nella piccola saletta dell’hotel. La moquette verde era inchinata ai suoi piedi, la poltroncina comoda era l’alcova dei nostri sogni e la parete color panna, delimitata dai lucidi listelli di legno, uno scenario tranquillo per un amore senza parole. E quando lui si chinava dolcemente in avanti per bere dalla tazza ed il suo profilo incontrava la luce della vetrata colorata, io ogni volta rischiavo di cadere dallo sgabellino per il troppo sporgermi.
Il mio amore era bislacco.
Non sapevo che tono avesse la sua voce, quale inflessione tingesse le parole da lui pronunciate, a fatica riconoscevo i suoi lineamenti o il colore dei suoi occhi, non avevo idea di quale fosse il suo profumo. Non avevo mai parlato con lui né ero sicuro mi avesse mai veramente guardato. Ero innamorato della costanza che egli rappresentava, del suo essere lì, quasi un’abitudine, su quella poltroncina e con quei brevissimi libri in mano. Nella mia mente mi tramutavo nella sigaretta per restare sempre tra le sue labbra, mi liquefacevo per scivolare nella sua bocca, mi lasciavo sfogliare dalle sue mani esperte.
Mi offrii, qualche mese dopo, di portargli io stesso la tazza col tè.
La appoggiai sul tavolino, dopo averla benedetta ed aver pregato affinché la mia essenza si confondesse con l’odore di menta. Avevo il cuore che ormai cozzava contro la targhetta dorata appuntata al petto. Rimasi ad osservare la tazzina sul tavolo. Perché ero stato così rapido? Avrei potuto impiegare molto più tempo ad arrivare ed appoggiarla! La girai, il manico di porcellana rivolto verso di lui per facilitargli la presa.
L’uomo che leggeva solo le prime 100 pagine non mi guardò. Non si mosse affatto. Continuò a leggere. Ma fu proprio grazie a quella vicinanza che mi si aprì un mondo nuovo.
Quell’uomo era un libro.
Da lontano, su quell comodo scaffale che era la poltroncina, lui pareva un libro muto, abitudinario, statico e sempre uguale. Ma io ero arrivato lì vicino, io mi ero allungato per provare a leggerne il riassunto in calce ed avevo scoperto che lui non era un libro silenzioso e fermo, no. Aveva un odore come di tabacco e vaniglia, che mi ricordava di un’India di cui avevo letto distrattamente. Mentre leggeva, gli occhi verdi scivolavano tranquillamente lungo le linee di parole e le belle labbra si aprivano e chiudevano in un impercettibile mormorio che per me era un discorso urlato. Aveva una voce fonda e calda, un’inflessione inglese, un tono da attore. Carezzava le pagine movendo su e giù l’indice della mano destra ed ogni tanto roteava il piede sinistro in aria, le gambe accavallate fungevano da appoggio per il pacchetto di sigarette.
E fu quando ebbi scoperto ogni singolo particolare di lui, dalla pelle come abbronzata ai capelli scuri con un riflesso di miele, alla dolce curvatura del mento all’eleganza della sua posa… fu allora che il libro mi notò.
L’uomo che leggeva solo le prime 100 pagine, Lewis, alzò i suoi occhi su di me.
Mi vide.
Boccheggiai, sentii le guance avvampare e guardai la moquette verde ai miei piedi. Rialzai gli occhi, abbozzai un sorriso e me ne andai dritto come un catamarano tra le onde, di nuovo al sicuro sul mio sgabellino, gli occhi immersi nel librone delle prenotazioni. Ma davanti a me non vedevo più numeretti ordinati di stanze accoglienti e cognomi addossati al loro nome padrone. Vedevo lui e la sua bocca che mormorava, lui ed i suoi occhi da lettore, lui e le sue mani da amante. E non potevo fare altro che alzare gli occhi in continuazione per vedere se anche lui stesse guardando me. Non m’importava se sembrava che non mi stesse affatto considerando. Da lontano lui pareva un libro muto, abitudinario, statico e sempre uguale. Ma se solo mi fossi avvicinato ancora avrei visto di nuovo i suoi occhi posarsi su di me.
Anche il suo amore era bislacco come il mio.
Quella notte, il librone delle prenotazioni divenne noioso e mentre i miei occhi si chiudevano sull’estate del 2002, illuminata dalla lampada pieghevole, vidi davanti a me qualcosa. Sollevai il viso che tenevo poggiato alla mano sinistra ed incontrai lui. Lewis, davanti a me, immobile, sul viso un’espressione tranquilla. La sua solita espressione tranquilla da lettore. Che stesse leggendo me? Che stesse facendo scivolare i suoi occhi verdi sui miei pensieri come fossero stati linee di parole? Lo guardai come si guarda il libro che non s’aspettava di trovare sullo scaffale. E lui mi ricambiò con altrettanto posato entusiasmo.
Non so dire come finii a letto con lui, nella stanza 22 che era la mia età e la metà esatta dei suoi anni.
So solo che tra quelle lenzuola non ci fu nulla di muto, abitudinario, statico e sempre uguale. Non era silenzioso e fermo, no. Mi tolse il fiato ad ogni carezza e mi strappò a pezzi l’anima ad ogni affondo. Mi lasciai prendere in ogni modo, divenni quel che voleva e lui mi dimostrò di poter essere ciò che volevo io. Non contai il tempo, non badai allo stile. E sì, ci stavamo entrambi comportando come personaggi di un romanzetto d’amore dimenticato su un sedile del treno. E sì, ci comportammo così a lungo. Io persi la testa mentre lui sfiorava la mia pelle come se mi stesse sfogliando, leggendo, così, prima di sbattermi violentemente e di amarmi piano, con la stessa costanza con la quale arrivava alla tazza per bere il tè alla menta, con la stessa fame con la quale leggeva sottovoce. Ricordo a fatica l’istante in cui mi tolse la copertina e si appropriò della mia storia, le sue mani ovunque ed io altro non desideravo che quelle, esperte e calde, su ogni centimetro di me, fremente, unico. Non ero mai stato amato a quel modo da un uomo, nonostante avessi aperto le gambe per molti. Sentivo che lui mi desiderava alla stessa maniera in cui lo desideravo io e non c’era più distinzione tra ciò che sognavo e ciò che lui incideva sul mio corpo. Gli diedi carta bianca e lo lasciai spadroneggiare come più lo aggradava. Ma non era il condiscendente concedersi di un servo, quanto un desiderio di possessione finalmente sfogato. E non avevo nemmeno bisogno di guardare. Non necessitai di chiederne ancora, perché io e lui eravamo uguali: entrambi decidemmo di non fermarci a pagina 100, ma di leggere tutto il libro, il nostro libro che per mesi avevamo tenuto sul comodino con uno sciocco segnalibro a cavallo tra pagina 100 e 101. Ci scrivemmo e leggemmo insieme, appagati della storia e di come andò a finire, stremata e soddisfatta, sul cuscino un po’ troppo stropicciato.
La mattina dopo, quando mi svegliai, non lo trovai accanto a me. Nonostante tutto, era un abitudinario. Molto probabilmente si era lanciato nella sua solita passeggiata mattutina, col bavero dell’impermeabile a coprirgli il viso. Una cosa però colpì la mia attenzione: il libro del pomeriggio prima appoggiato sul comodino, un po’ di sghimbescio. Allungai un braccio e lo presi in mano, aprendolo grazie al segnalibro.
E con mia grande sorpresa, lo trovai a cavallo tra pagina 102 e 103.